Inizia tutto come nella miglior tradizione del pop contemporaneo, con un paio di singoli. Non di più, un giusto numero per far assaggiare un nuovo corso, con nuove e vecchie voci. Inizia tutto quasi nella medietas latina, senza sbracare o lasciar andare il pubblico in abbuffate fatte di mini ep anticipatori o cose simili. NON MI RICONOSCO, dopo due settimane RUGGINE, dopo altre tre il disco. Mace non è semplicemente un producer di riferimento per il pop italiano, è una macchina sonora, che viaggia e crea a immagine e somiglianza del suo vagabondare, “al bordo dell’universo”, direbbe Salmo in quella che non è la nuova LA CANZONE NOSTRA (che apriva il suo precedente disco, Obe, per noi l'opera più bella di tutto il 2021), ma un altro gran pezzone, già sentito per la prima volta sul palco del MI AMI, affidato alla voce struggente di centomilacarie.
Poi si preme il tasto play e il velo cala, si inizia a parlare una lingua che mai ci saremmo aspettati, più babilonica di qualunque previsione. Lo svelamento è crudele, del tutto senza pietà, perché prima di tutto mette alla berlina gli altri. La musica è un'arte che ha bisogno di respirare, di contaminarsi, di farsi oggetto d'errore e mutamento. E non sono necessari per forza enormi viaggi tropicali o sedute spiritiche - o psicotrope -, basta semplicemente mettersi a disposizione, aprire la porta di una stanza piena zeppa di strumenti, piena zeppa di gente. Mace ha preso ventotto persone, grandi nomi del pop e del rap, nomi emergenti, gente di giri svariati, e gli ha fatto mettere da parte la stramaledettissima FOMO, per conservare i tratti essenziali della propria musica.
Accanto a Simone Benussi accadono cose strane, magiche o psicomagiche, o forse semplicemente quando ci si trova accanto ad un artista del genere è inevitabile produrre cose intrise di bellezza. Perché di questo si tratta, bellezza in forma più o meno pura, una serie di perle di pop music che sarebbe riduttivo definire "internazionali". Sono semplicemente complete, tracciano linee marcate, aprono il cuore all'emotività che è la linfa vitale della musica popolare, si lasciano contaminare dalla miriade di strumenti che in MĀYĀ suonano e si rincorrono.
I generi musicali esistono, eccome, poco ci convincono i populismi che invocano la fine delle barriere stilistiche, in questo il '900 continua a vivere, e per fortuna. Ma il terzo vero disco di Mace (che però oltre a tutto ciò ha fatto davvero un milione di altre cose) è la pura dimostrazione che un progetto può spaziare nelle più grandi diversificazioni – d'altra parte, prima di questo disco, Simone aveva realizzato Oltre, strumentale, sperimentale e psichedelico al 100% – senza perdere di vista il cuore di uno stile, cristallino, commovente. MĀYĀ non è una compilation - e suona strano da dire, tanto siamo circondati da dischi mediocri accrocchia-nomi -, ma un disco di oltre un'ora dove il passaggio di ogni artista è un regalo, il dischiudersi di un microcosmo, al servizio di un disegno più grande, molto più grande.
Basta citare i momenti più esaltanti per avere un chiaro esempio di quanto appena detto. L'incipit, VIAGGIO CONTRO LA PAURA, vede una Joan Thiele in stato di grazia e un Gemitaiz finalmente lontano da virtuosismi, romantico e melodicamente credibile. L'incontro tra Marco Castello ed Ele A in MENTRE IL MONDO ESPLODE è una dimostrazione di malleabilità da parte di due soggetti apparentemente distantissimi nei modi di fare musica, ma con Mace le traiettorie si uniscono, percorrendo sentieri alternativi. E poi ancora la conferma del momento d'oro di Altea, il ritornello "calcuttiano" cantato da Margo Mengoni - c'è forse lo zampino di Edo??? - in FUOCO DI PAGLIA, il lato gospel di Fulminacci a duello con Fabri Fibra nella drittissima MAI PIÙ. Venerus gioca invece la parte del maggiordomo, che fa gli onori di casa, mentre Cosmo e Rares (due che si erano incontrati per la prima volta qua) sono la strana coppia di mistici, alle prese con un ambient pop che non si priva del momento house.
MĀYĀ è un disco di momenti inaspettati, frutto di un lavoro realmente collettivo, di musicisti e autori, sotto la guida dello sciamano della musica italiana (molti di loro sono stati riuniti con lui in una sorta di grande jam, o comune, in Toscana per più di una settimana, a creare musica assieme), uno che la psichedelia ama metterla nella vita e nell'atto creativo, prima che nell'estetica frivola di una cover di un singolo, o in un banale distorsore di chitarra. MĀYĀ è un disco di risvolti che continuano a lavorare, contro gli stilemi del pop che vogliono la seconda strofa uguale identica alla prima. Mace lavora come un architetto, sovverte le strutture, allunga le intro e accorcia gli outro, per poi lasciarsi andare in solitudine nella strumentale finale, un corollario preziosissimo, un monologo, forse solipsistico, che passa in rassegna da vicino tutte le gemme usate per il disco.
Con MĀYĀ Mace ha giocato duramente, forse più duramente che mai, con la credibilità del pop italiano. Se n'è preso gioco col suo tipico modo di fare, quello di chi sta semplicemente mettendo insieme le tessere di un puzzle musicale, arrivato naturalmente a quella forma. Ora che il pop è stato messo alla berlina dalla bravura di questo signore, il pop può restare in ascolto, studiarne, goderne, viaggiarne. Togliere il velo, per scoprire la verità.
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L'articolo Mace continua a prendersi meravigliosamente gioco del pop italiano di Gabriele Vollaro è apparso su Rockit.it il 2024-04-05 14:50:00
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