La prima volta che abbiamo sentito parlare di Matteo Gorelli era a fine 2023, per via della sua vittoria al Premio Dubito, importantissimo riconoscimento di poesia con musica in memoria di Alberto Dubito, poeta e rapper dei Disturbati dalla CUiete, la cui finale si tiene al Cox18, storico centro sociale di Milano. Le sue parole, su quel palco, arrivavano come se non uscissero dalla sua bocca, erano un abisso in cui cadere.
Siamo così andati ad approfondire la sua storia, dolorosa, da lasciare senza fiato. La notte che cambia la sua vita è quella del 25 aprile 2011, quando, dopo essere stato fermato dai carabinieri al termine di una specie di rave nei pressi di Grosseto ed essere risultato positivo ai test, aggredisce i due carabinieri al posto di blocco con calci e bastonate. Uno perde un occhio, l’altro, Antonio, entra in coma farmacologico e dopo un anno morirà. Matteo era da poco maggiorenne e aveva la patente da pochi giorni, guidava l'auto della mamma.
Pensa che la sua vita sia finita. Prende prima l'ergastolo, poi 20 anni. Inizia un percorso di riabilitazione, in un primo momento alla comunità Exodus di don Mazzi a Milano, poi entrerà in contatto conKayros, la comunità che si dedica all'accoglienza di adolescenti e giovani in difficoltà con cui Matteo ha collaborato per tanti anni (l'abbiamo poi ritrovato qui, nel suo ruolo di A&R della neonata etichetta Kayros Music).
In carcere, dove normalmente la gente si perde definitivamente, lui inizia un percorso di ricostruzione della propria vita. Fuori, invece, sua mamma e la moglie del carabiniere che lui ha ucciso iniziano una frequentazione, che poi diventa amicizia, in un percorso di "giustizia riparativa" molto particolare, e commovente. Qua e qua (ultima puntata) ci sono dei racconti di questa vicenda, per noi incredibilmente significativa da molti punti di vista.
Dentro Matteo, che già scriveva poesie, si avvicina alla musica. Una volta uscito fonda Attitude Records, etichetta milanese che da qualche tempo sta buttando fuori dischi rap e trap di ragazzi delle periferie. Soprattutto, si mette a fare la sua musica. E tira fuori un disco enorme, Istinto della luce, per noi è uno dei dischi più belli del 2024 e uno dei più intensi e viscerali degli ultimi tempi.
La sua musica è un pugno in pancia, il suo è un disco che non sa cosa vuole essere, perché sembra nascere senza una forma, se non quella dell'anima del suo autore. Un disco anarchico nel senso che non ha fiducia nello stato come organizzazione, anarchico perché impossibilitato a seguire le regole di qualsiasi tipo: produzione, composizione, ordine armonico. Per questo motivo, e per la profondità spaventosa - e difficile da raccontare - che Mamma mette al centro del racconto, tutte le direzioni che prende sono esatte.
Per questo assieme a Atacama e agli amici di Chullu Agency, abbiamo deciso di organizzare il release party di questo disco, che non è mai stato suonato live. Sarà il 7 febbraio al Biko di via Ettore Ponti a Milano. Si parte alle 22, qua i biglietti: il costo è di 7 euro (biglietto "politico", com'è giusto che sia) e serve la tessera Arci. Suoneranno una ventina di artisti che hanno condiviso il percorso di Matteo in questi anni. Qua ve li raccontiamo. Sotto, invece, la nostra chiacchiera con Matteo.
Perché hai scelto di chiamarti Mamma?
All’inizio è stato quasi un gioco. Registravo musica e mi è uscita questa frase: "Sono la mamma del ghetto." Solo che poi mi ha colpito, e ci ho riflettuto su. Col tempo è diventato più di uno slogan, di un divertimento tra noi. Io sono cresciuto in carcere, e questo ha plasmato molto del mio modo di vedere il mondo.
In che modo lo ha fatto?
Il carcere amplifica le logiche del mondo esterno, è un mondo di bianchi e neri, super performativo, che emargina chi non rispetta certi standard di produttività o appartenenza. È così nella nostra società e in carcere tutto si esaspera ancora di più. Il carcere dovrebbe essere un luogo di rieducazione, in realtà è una discarica sociale. Le dinamiche di potere sono le più estreme e violente: chi sa scrivere un’istanza o chi parla bene l’italiano ha vantaggi enormi rispetto agli altri. E poi c’è il dominio del maschio, della violenza, della forza bruta.
Come ti sei rapportato a tutto questo nei tanti anni che hai trascorso dentro?
Non l’ho mai accettato. Non ho mai voluto far parte di quei gruppi che si basano sulla forza o sul predominio. I miei gruppi sono sempre stati fondati sulla progettualità, sull’unirsi per creare qualcosa, anche in carcere: autoproduzioni, scommesse di futuro. Ho scelto il paradigma della cura, della dolcezza, ho scelto qualcosa di materno appunto.
Il nome è anche un omaggio a tua mamma?
Sì, certo, mia mamma Irene c’entra eccome. Ho avuto con lei un rapporto molto intenso, ma anche patologico. Da giovane l’amore che provavo per lei mi ha portato a fare un gesto terribile. In un momento di delirio, convinto di proteggerla (non potevo farmi sequestrare l’auto che lei usava per andare a lavorare), ho picchiato una persona così gravemente da portarla in condizioni disperate, e morire un anno dopo.
Com’è stata la tua infanzia?
Sono cresciuto con il peso di un senso di colpa enorme. Mio padre mi aveva rifiutato, e mia madre, nei suoi momenti peggiori, mi diceva cose terribili come "accidenti al giorno in cui ti ho fatto." Questo mi ha segnato profondamente. Ho sempre cercato di essere perfetto: ero bravissimo a scuola, capitano della squadra di calcio, ma dentro di me portavo un tumulto. Oggi sono convinto che sia stato proprio quel senso di colpa che mi ha spinto a fare quel gesto folle.
Come stanno le cose con tua mamma oggi?
Oggi il rapporto con mia mamma è buono. Ha ascoltato il disco, le è piaciuto molto. Però c’è un aspetto curioso: questa volta i complimenti più inaspettati sono arrivati da mio padre. Circa quattro anni fa ho ricucito il rapporto con lui. Anche lui ha ascoltato il disco e mi ha mandato un audio di 30 secondi. Mi ha fatto i complimenti, anche se non è il suo genere. Ha usato aggettivi come "denso," "impegnativo," "complicato." A modo suo era un grande complimento, e mi ha colpito molto.
C’è un’altra mamma in questa faccenda, la moglie del carabiniere che hai ucciso.
Lei è ancora in contatto con mia mamma. A volte ci sentiamo, ci scriviamo. Non so se ha ascoltato il disco, ma ora che ci penso le porterò il CD. Qualche anno fa ho scritto un libro di poesie dedicato al figlio, lei l’ha letto e si è commossa.
La cosa che colpisce del disco, e di qualunque discorso si affronti con te, è che le tue parole sono sempre un mix di visceralità e profonde riflessioni. Inconscio e razionalismo psicanalitico. Come arrivi a questo equilibrio?
Per me è importante sentire le emozioni nel corpo, identificarle. Spesso le percepisco fisicamente: le lacrime mi sembrano scorrere dagli occhi alle dita, e lì trovano espressione. Ma non mi fermo a questo: voglio che la mia musica sia anche politica. Parlo di temi che mi riguardano, di cui sono vittima e autore.
Come decidi le cose che vuoi dire?
Per me l’arte è un modo per liberarmi, per tirare fuori qualcosa che non posso più trattenere. Quando scrivo, registro o performo, trovo una dimensione catartica. È il mio modo di raccontare una verità che riguarda me, ma anche tante altre persone.
L’arte è per forza una vocazione?
Per me sì. Credo che ognuno abbia una vocazione. Quando ci avviciniamo a quella, smettiamo di lavorare e iniziamo a vivere nella grazia. È come ritrovare qualcosa di sacro dentro di noi, qualcosa che ci connette a un senso più alto. In questo senso poi il rap è fenomenale, perché è diventato una possibilità di redenzione, qualcosa di più grande e concreto di tanti altri movimenti. Ha dato agli emarginati la possibilità non solo di rappresentarsi, ma di brillare. Questo però non è ancora chiaro a tutti, nemmeno agli artisti stessi.
Cosa intendi?
Gli artisti spesso non capiscono davvero questa opportunità. Vedo molti giovani che si perdono dietro numeri e visualizzazioni, si logorano perché non sono arrivati dove vorrebbero. Questo crea ansia, panico, persino mostri.
Tu senti il bisogno del riconoscimento?
Certo, ma il mio obiettivo è creare qualcosa di grande, una barca su cui salire con i miei amici e attraversare il mare. Voglio essere riconosciuto, ma voglio anche che la mia poesia parli da sola, senza dover per forza passare attraverso la mia vita.
Come nasce la tua musica, concretamente?
Spesso mi arrivano versi quando sono in movimento, in bicicletta o in motorino. Parto dalla scrittura, taglio, aggiusto. Altre volte parto dal suono come è successo per la traccia Mamma, dove abbiamo costruito tutto partendo da un sample di Shawshank Redemption. Da lì è nato tutto, quasi come un pianto ininterrotto.
Come sei diventato un artista?
Non avevo mai pensato di diventare un musicista, non ero neanche un grande appassionato di rap. La prima cosa a colpirmi fu il film Zeta, dove Izi faceva l’attore principale. L’ho visto una notte in carcere, da solo, e mi ha acceso qualcosa dentro. Da lì ho iniziato ad ascoltare Izi e poi tutto il rap nuovo di allora
Prima di quel momento, cosa ascoltavi?
Da ragazzino ascoltavo Caparezza, Articolo 31, ma il rap lo avevo sempre un po’ denigrato. Mi sembrava banale. Poi, grazie a Izi, ho scoperto la poesia dentro il rap.
La poesia, invece, era già presente nella tua vita?
Sì, la poesia c’è sempre stata. Da giovane declamavo versi improvvisati, poi sono passato alla scrittura su carta. Ho iniziato a leggere i miei testi in giro, in piccoli slam, locali, centri sociali. Mi sentivo bene a condividere ciò che scrivevo. In carcere ho partecipato a laboratori di poesia leggevamo Esenin, Majakovskij e altri. Un giorno, dopo aver letto Alberto Dubito, ho scritto una poesia di getto. Da lì ho iniziato a pubblicare qualcosa, ho fatto anche due libri usciti nel 2014 e nel 2022.
Come sei passato dalla poesia al “rap”?
È stato un percorso naturale. Continuavo a scrivere e intanto mi appassionavo alla musica. Un giorno mi hanno invitato a fare il relatore in un evento, dove ho letto dei miei testi. Tra il pubblico c’era Yassa, e da quel momento abbiamo iniziato a collaborare. Lui sognava di aprire uno studio, e io l’ho aiutato a realizzare il progetto.
È così che è nata Attitude, la tua etichetta?
Esatto. Attitude è un’etichetta con una vocazione sociale, nata nel 2021. È un aggregatore: facciamo eventi, corsi di formazione gratuiti e offriamo uno spazio dove chiunque può creare e imparare. È una palestra per artisti, ma anche un luogo di autoimprenditorialità. Mettiamo a disposizione risorse e percorsi, ma vogliamo che chi entra abbia voglia di farcela. Seguo artisti giovani, spesso provenienti dalle periferie di Milano, molti con difficoltà emotive o sociali. È una comunità, ma anche una sfida. La musica, il rap, è uno strumento per realizzare tutto questo.
In questo tuo ruolo da scout e “confidente” degli artisti hai già ottenuto ottimi risultati. Lavoravi a Kayros quando la comunità è diventata in modo abbastanza imprevedibile uno dei centri principali del rap a Milano…
Su questa cosa mi sento di avere una specie di dono, di certo una gran fortuna. Quando mi emoziono forte per un artista e sento che ha un talento speciale, non sbaglio quasi mai. La prima persone che ho conosciuto in Kayros è stato Simba, che allora non conosceva nessuno, aveva tipo 1500 follower. Mi ha smosso subito qualcosa, sono fiero di aver organizzato il suo primo live. Ora guardate dove è arrivato.
Che ragazzi sono e come gestisci le loro eventuali difficoltà?
Non è facile. Gli artisti di Attitude a volte spariscono, cambiano idea, si lamentano per cose assurde. È un continuo compromesso tra le loro esigenze e la realtà del lavoro artistico. L’esperienza a Kayros mi ha mostrato l’importanza di far convivere musica e educazione, creando percorsi che aiutano i ragazzi a crescere sia artisticamente che personalmente.
Due ragazzi che il mondo scoprirà presto?
Falcoreda e Jimmy fai il bravo, che per altro suonerà con noi il 7 febbraio al Biko. Per cui non potete mancare.
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L'articolo Mamma: "La musica è redenzione, con il rap vedo tanti ragazzi finalmente brillare" di Dario Falcini è apparso su Rockit.it il 2025-02-06 09:44:00
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