Mapuche ha fatto un disco come non si dovrebbe fare un disco

"Non chiamarli mostri" è il ritorno del cantautore siciliano, un piccolo culto lo fi che ha conquistato Colapesce, Cesare Basile e tanti altri. Ci racconta com'è fare un disco casalingo e perché ha voluto parlare di depressione e di "massi" che gravano sull'anima

Mapuche: le foto sono di Tazio Iacobacci
Mapuche: le foto sono di Tazio Iacobacci

Non è esattamente il tema più facile da affrontare, il più commerciale. Ma Enrico Lanza, in arte Mapuche, di scelte facili non ne ha mai fatte. E così Non chiamarli mostri, uscito un mese fa circa, per Viceversa Records si "concentra sulla depressione e sulla difficoltà di venirne fuori, sull’alienazione dal mondo circostante, l’incapacità di avere relazioni 'normali' e su una costante e costretta fiducia nei cosiddetti mostri". 

Magari non il più conosciuto al grande pubblico, ma il nome di Mapuche è amatissimo dai musicisti, soprattutto da chi ha sempre fatto della ricerca e della creatività la propria cifra. Non a caso suonano nel disco Dino Fumaretto, che ne è anche produttore, Alessandro Fiori e Tazio Iacobacci (glinca). Suo grande fan è il corregionale Colapesce, che nel 2012 aveva prodotto il suo disco L'uomo nudo, che faceva seguito all'ep Anima Latrina. Da quel momento è seguita altra musica, con collaborazioni altrettanto importanti come quella con Cesare Basile. Sempre seguendo i propri ritmi e il proprio istinto artistico. 

Che ora l'ha portato a pubblicare un disco con il consueto piglio sinceramente lo fi, bello e impegnativo, sin dalla genesi. "È stato un cammino lunghissimo, un perenne brancolare nel buio, un continuo rallentare e ritardarne la fine: è probabilmente un esempio di come non si dovrebbe fare un disco, ma per una volta abbiamo deciso di non rispettare la consueta modalità di lavoro; l’aver avuto più tempo ci ha permesso di approfondire i contenuti e le melodie di ogni singolo brano, dando loro la miglior veste possibile», dice Mapuche.

Partiamo da qui per la nostra chiacchierata con lui. 

Descrivi questo disco come un incendio che ti ha travolto. In che modo? Cosa ti è successo in questi anni?

Intendevo dire che mi sono lasciato trascinare da determinate visioni e spunti, non era nelle mie intenzioni fare un lavoro così, anzi, desideravo andare in un’altra direzione, il disco è frutto di fatti biografici ma è anche esplorazione e ricerca, da un dettaglio di partenza che lentamente ha preso forma e mi ha incuriosito sempre di più. 

"Vorrei farti vedere cosa nasconde la mia mente". Cos'è che nasconde?

Non credo di saperlo e non credo lo sappia nemmeno il protagonista della canzone, penso che sia più giusto interpretarlo come un incubo vorticoso, forse reale e forse no, dove le immagini e i rumori sono piuttosto nette e chiare

A chi ti riferisci quando dici Non chiamarli mostri? Come dovremmo chiamarli? In che modo ci proteggono?

Ma in realtà non lo so se esiste un termine più appropriato: in quel determinato momento del disco, il protagonista trova rifugio e protezione in ciò che comunemente chiamiamo “mostri”, perché capaci di alimentare odio e alienazione, però uno sguardo interamente soggettivo propone una prospettiva diversa e giunge alla conclusione che probabilmente, in determinate condizioni, si rivelano come un conforto necessario. Prendono vita in certi momenti e ci proteggono attraverso l’isolamento e piani di rivalsa o vendetta. Nella canzone ovviamente domina la sfiducia e la certezza, o anche necessità, di non venirne fuori, è una visione soggettiva, ognuno combatte o familiarizza con i mostri in modo diverso. 

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I testi scorrono come un flusso e spesso funzionano bene anche letti come prosa. Come scrivi i tuoi brani? Hai qualche ritualità/qualche spazio particolare in cui lavori? Chi ti ha ispirato di più in questa direzione?

Inizialmente c’è sempre un dettaglio o una sfumatura che mi colpisce in modo particolare, dopodiché lascio che acquisisca forma e diventi gradualmente tutto più chiaro. Il dettaglio può essere qualsiasi cosa: un libro che ho letto, un film, ma anche qualcosa di più prosaico che appartiene alla vita di tutti i giorni. Ci sono dei testi che mi sono serviti come spunti, ad esempio Il male oscuro di Berto, del quale reputo folgorante il modo vorticoso di sviluppare il racconto nel libro; ho cercato anche io di dare al mio flusso di coscienza un senso di caos. 

Come hai lavorato con Dino?

Piuttosto bene direi, ammiro moltissimo il suo immaginario e la sua visionarietà, sono sempre stato convinto che lui potesse essere la chiave risolutrice del disco, l’unico in grado di poterne trovare il vestito adatto. Inizialmente non ne era convinto, fortunatamente ha cambiato idea. 

In Masso dici: "È impossibile vivere senza mentire e senza credere alle proprie menzogne". A chi mentiamo? Come? Perché lo facciamo? 

Mentiamo principalmente a noi stessi, mentiamo perché il codice di sopravvivenza ci obbliga a farlo, mentiamo fino al punto di credere in ciò che diciamo. Succede però che nei momenti più bui, il gioco venga smascherato e non siamo più sicuri di essere in grado di portarlo avanti. In Masso cerco anche di dare una dimensione a ciò che siamo, nonostante quello che ci accade, ovverosia sempre una microscopica parte di un gigantesco meccanismo, esattamente come un masso, a cui certo non si domanda dove stia il proprio sollievo o conforto. 

Non chiamarli mostri è un album dove emerge un grande senso di disillusione e sconforto? Trovi la speranza da qualche parte? Dove la si può cercare?

Io la trovo in molte cose, principalmente dischi e canzoni, ma anche libri, film e passeggiate all’aria aperta, o anche coltivare l’amicizia e la gentilezza, penso che sia una questione squisitamente soggettiva, ognuno coltiva le proprie speranze nel modo più adatto alla propria natura, non credo che oggi esista una speranza universale, buona per tutti 

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Hai detto che si tratta di "un esempio di come non si dovrebbe fare un disco" e "un perenne brancolare nel buio". In che senso?

Principalmente perché è un disco “casalingo”, non abbiamo utilizzato studi di registrazione e ci siamo adattati con i mezzi “precari” che avevamo a disposizione. Inoltre ci abbiamo lavorato durante il lockdown: per me ed Elia (Dino), abitando piuttosto distanti, è stato complicato vederci e poter lavorare insieme. Infine la situazione in generale, frutto delle restrizioni Covid, ci aveva messo anche un po’ di sfiducia addosso e non lasciava presagire nulla di buono, pertanto ci abbiamo lavorato molto lentamente e senza aspettative, è stato un parto piuttosto lungo e difficoltoso.

"Quella parte di me che prima adoravo e ritenevo necessaria, tanto misteriosa quanto seducente, quella parte è diventata il mio tormento, la mia gabbia interiore". A cosa ti riferisci? Ti era mai successo di cambiare così tanto opinione su te stesso prima d'ora?

In Erlebnis il protagonista racconta il suo vissuto e come la situazione gli sia sfuggita dalle mani, è la vita psichica che viene (finalmente) fuori, è un personale resoconto del “doppio” che ci accompagna e talvolta emerge a nostre spese. Ho spesso cambiato opinione su me stesso, credo dipenda sempre dai momenti, dalle situazioni che viviamo e dal nostro modo di elaborarle. Poi può succedere, come descritto dalla canzone, che persino il “doppio” ci deluda e sfugga da noi, e a quel punto l’ideale sarebbe riappropriarsi di sé stessi, tornare alle piccole cose e lasciare fare alla vita, per dirla con Jannacci. Ne Il Male Oscuro Berto si congeda dal mondo per risolvere il proprio “infernale” conflitto. 

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L'articolo Mapuche ha fatto un disco come non si dovrebbe fare un disco di Vittorio Comand è apparso su Rockit.it il 2024-04-03 13:03:00

COMMENTI (2)

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  • rockitadmin 8 mesi fa Rispondi

    @glinca aggiungiamo credits. grazie Tazio!

  • glinca 8 mesi fa Rispondi

    Grande Mapuche! Cmq le foto sono le mie (anche se magari non pare, cit.)
    Tazio Iacobacci