Matteo Cantaluppi è una delle persone più indicate se si vuole parlare di pop in Italia. Produttore degli ultimi due album dei Thegiornalisti - “Fuoricampo” e “Completamente” - ha lavorato anche ai dischi di Bugo, degli Ex Otago e di molti altri ancora. Ha portato un suono preciso e molto riconoscibile nelle band italiane, ottenendo successi importanti a livello di views e di pubblico. L’abbiamo intervistato.
Qual è il compito di un produttore?
Dipende molto dal mondo sonoro in cui ti trovi e può variare da genere a genere. Dove non c’è la forma canzone il produttore può concentrarsi principalmente sul sound, in altri casi invece ha il compito di lavorare sui testi, sull’emotività e altre cose ancora meno razionali.
Tu hai un metodo preciso?
Pur avendo una mia emotività, in studio sono abbastanza razionale. Ho un'organizzazione del lavoro piuttosto standard ma, ed è abbastanza banale dirlo, ogni volta cambia in base all’indole dell’artista con cui collaboro.
C’è un elemento da cui partire quando si produce un gruppo?
Sono attratto dall’autenticità dell’artista. Mi interessa sapere se mi sta dicendo la verità e se la musica che sento rappresenta la persona che ho di fronte. Non c’è una metodologia precisa per scoprirlo, è un tipo di approccio molto umano: devo parlare con lui e capire cosa fa nella vita al di là dei suoi gusti musicali. Ma quando il prodotto è autentico sei già alla metà dell’opera.
Negli anni settanta l’autenticità era un valore ben definito e importantissimo per molti critici musicali, poi è arrivato Bowie vestito da marziano e ha mandato in crisi tutti. Più che altro, se un artista non ha ancora capito bene che musica vuole fare come fa ad essere sincero?
A mio avviso quello del produttore è un approccio filosofico/psicologico piuttosto complesso. Bowie per me era autentico nonostante i travestimenti o i cambi che faceva da disco da disco. Bowie era esattamente quella roba lì, De André era quella roba lì. Mi rendo conto di essere vago ma diciamo che so individuare il fake quando qualcuno cerca di imitare cose che non gli appartengono.
Detto da uno che ha riportato in maniera massiccia il revival anni ’80 sembra quasi una provocazione.
Può esserlo ma, dal mio punto di vista, quello che faccio è perfettamente inserito nella mia cultura. Quando avevo sedici anni guardavo i video di Luca Carboni su Videomusic e, probabilmente, è la stessa cosa che capitava ad un inglese con i Beatles. La differenza è che il mercato britannico, americano, o anche solo tedesco, è molto più forte a livello globale di quello italiano e può permettersi di fare operazioni di questo tipo senza essere giudicato così male. Mi sembra che nessuno si scandalizzi per i Tame Impala che rifanno John Lennon, pur essendo australiani si riferiscono ad un backgroung anglosassone e spesso gli viene riconosciuto come un valore aggiunto. Il mio obiettivo è poter attingere al nostro pop con tranquillità, senza scadere in operazioni nostalgiche e pedanti; come a volte ho fatto anche io, sia chiaro.
Ad esempio?
Ho fatto degli errori, come li fanno tutti. Non sono nemmeno cose di cui mi pento, uno si pone degli obiettivi e, pian piano, prova ad avvicinarsi sempre di più al risultato. La mia è un’operazione, se vuoi, politica: è voler rimarcare che anche noi abbiamo una cultura pop, possiamo modernizzarla e portarla avanti senza seguire solo le mode che arrivano da altri paesi. E poi, sia chiaro, sono scelte che faccio sempre insieme all’artista che sto producendo: non è che Tommaso Paradiso o Bugo abbiano un background così diverso, sono grandi fan di Vasco e dei Duran Duran. Mica me la sono inventata io la chitarra con il chorus (ride).
(Foto di Ronnie Amighetti)
È difficile avere a che fare con i musicisti?
Sì, abbastanza (ride). Spesso sono persone con una sensibilità decisamente elevata ma anche con delle problematiche non risolte, che poi è il motore che li spinge a scrivere canzoni stupende. Sono aspetti che vanno trattati con una certa cura ma, in alcuni casi, è anche giusto responsabilizzarli. Li devi bacchettare, proprio come se fossero bambini. Devo dire che di problemi veramente seri non ce ne sono mai stati. A volte, magari, si è creata qualche incomprensione sulle gerarchie. Se l’artista è più giovane può capitare, a maggior ragione in un mercato piccolo come quello italiano.
Cosa intendi?
Se sei in un mercato potente, dove girano tanti soldi, è normale trovare ruoli bene definiti e tante persone che lavorano attorno al tuo album. C’è più distacco e anche più rispetto per determinate figure. L’Italia invece è un paese più piccolo e con un mercato minuscolo, ci si conosce tutti, abbiamo un’indole molto più emotiva e irrazionale. Spesso si confonde l’amicizia con il lavoro, non lo giudico per forza negativamente ma a volte bisogna essere non dico duri, ma quanto meno decisi. Se vengo pagato da un’etichetta preferisco essere quello che prede determinate decisioni. Gli artisti devono fare gli artisti, io li devo pressare su altri aspetti altrettanto importanti. È una cosa che in Italia si è un po’ persa ma, pian piano, si sta ripristinando. Ce la faremo (ride).
Un produttore deve essere anche un esperto di marketing?
Non saprei, dipende sempre dal lavoro che devi fare. A me piacciono più aspetti possibili della musica, anzi, più passano gli anni e meno mi interessano le cose tecniche - che delego volentieri ai fonici - e rimango più affascinato dalla comunicazione e dal rapporto tra l’artista e il suo pubblico. Mi interessa come far arrivare la musica a più persone possibili mantenendo l’autenticità dell’artista. Internet, le radio, i social network, sono tutte cose che, se fai pop o quanto meno fai canzonette, devi conoscere.
Un suono può fare il successo di una band?
Per me è l’obiettivo principale. La metafisica del pop è quella di fare un prodotto che faccia i numeri. Un album di canzonette - e lo dico senza voler sminuire il termine - che non fa successo non è autenticamente pop. Ci sono artisti autenticamente pop e altri, spesso del mondo indie, che non capisci davvero cosa vogliono. Io preferisco i cantanti che ti dicono “mi piace andare in tv, mi immagino davanti ad un stadio pieno” rispetto chi è più ambiguo.
Nelle interviste che ho letto spesso dividi la musica tra indie o mainstream, ha così senso usare ancora queste parole in Italia?
C’è stato un periodo del mercato italiano - da metà anni '90 fino ai primi anni 2000 - dove questa distinzione era piuttosto netta, dopo le cose si sono fatte più confuse. Sono abbastanza d’accordo con Manuel Agnelli quando descrive l’indie come mondo snob, autoreferenziale e distaccato dove non si capisce se le band vogliono davvero avere successo o meno. Alla fine sono canzonette ma con un sound leggermente più spinto. L’indie è non musica sperimentale, gli stessi Afterhours non fanno musica sperimentale, fanno canzoni. Non sei d’accordo?
Che spesso i gruppi italiani si piangano addosso è vero, ma sono convinto che in un mercato così piccolo come è il nostro quelle siano definizioni poco utili e spesso alimentino le tipiche barricate da provincialismo italiano.
È chiarissimo e sono d’accordo con te, però è innegabile che da noi non si sia sviluppato un mercato dove artisti diversi possano avere la loro precisa fetta di pubblico. Il pop di Benvegnù dovrebbe avere spazio come quello della Pausini, non in parti uguali, mi sembra ovvio, ma ci dovrebbero essere più percentuali di mercato per generi diversi. Questo oggi non avviene, sono le frustrazioni tipiche dei paesi piccoli come il nostro.
(Foto di Ornella Orlandini)
Se ti chiedessi il nome che ora rappresenta meglio la tua idea di pop?
Quando vivevo a Berlino mi piacevano molto i Moderat. Era un gruppo tutto sommato pop ma molto contemporaneo. Non so se una cosa così arriverà mai in Italia - ci spero - quella per me è la vera faccia della contemporaneità: canzoni belle, pochi soldi ma messi in mano a gente molto preparata e che si dà da fare. È chiaro che non sono Lady Gaga, non rappresentano il gruppo di successo per eccellenza, ma se li scelgono come headliner di festival con 20.000 persone per me, in questo momento storico, vuol dire che sanno fare i numeri.
Mentre il pop italiano oggi come lo vedi?
(lunga pausa) Io sono un ottimista, cerco sempre di evitare prese di posizioni tragiche o lamentose. Credo che si siano aperti degli spiragli interessanti. Cosmo, ad esempio, fa dei bei numeri in radio, dal vivo e su internet. Fa canzoni italiane, perché sono pezzi che potrebbero benissimo essere fatte chitarra-voce, ma ha una riconoscibilità molto specifica. Il pop italiano inizia a non essere più quello che c’è da sempre, molto più generico e piatto, che tra l’altro è giusto che continui ad esserci ma andrebbe mescolato a progetti più personali. In Inghilterra hanno avuto i Primal Scream in classifica e non erano certo un gruppo iper-sperimentale, erano sostanzialmente un gruppo pop ma con una forte personalità. Il mainstream può avere molta, molta, personalità.
Una delle cose che trovo più interessanti degli ultimi anni è come la personalità venga sempre più premiata dai fan. I Cani, i Ministri, Dente, hanno fatto scelte veramente poco convenzionali pur non perdendo pubblico ai concerti. Tu che ne pensi?
Sono molto contento e incuriosito che ci possano essere dei mercati paralleli in via di sviluppo e che ci siano gruppi che riescano a farcela senza ricorrere a RTL o a Deejay. Non è facile capire cosa sta succedendo in questo momento, i nomi citati hanno tutti una carriera lunga alle spalle, vedremo adesso come si evolverà la popolarità di Calcutta che, invece, ha avuto un successo più veloce e immediato.
(Tommaso Paradiso, via)
Con i Thegiornalisti invece il percorso è stato più tradizionale.
È un percorso più da ventesimo secolo, è vero. Tommaso è un frontman “classico”: è un bel ragazzo che scrive delle belle canzoni, di quelle che quando arriva il ritornello le canti con piacere. Tutti noi eravamo convinti di voler sfondare le radio perché, nonostante tu possa fare dei bei numeri su internet, il successo vero, la fama, la ottieni solo se sfondi certi meccanismi. E se vuoi passare in radio devi avere delle caratteristiche precise, a partire dal suono: “Completamente soldout” ha avuto un missaggio molto più aperto rispetto a quello di “Fuoricampo”.
Quanto è durato il lavoro sull’album?
Ormai i meccanismi di produzione sono cambiati. Anni fa la band entrava in studio per alcune settimane e registrava tutti gli strumenti, oggi magari ti incontri con il gruppo, ascolti i loro provini sul portatile e magari parte di quelle registrazioni finiscono direttamente nel disco. Con i Thegiornalisti è stato un lavoro lungo, ci abbiamo messo più di un anno.
La parte più difficile qual è stata?
Tutto (ride). Per me “Fuoricampo” resta un bel disco ma ci poneva di fronte ad un bivio importante: rimaniamo in questo mondo che ci siamo costruiti o ci mettiamo in gioco prendendoci dei rischi? Perché puoi perdere il pubblico che ti sei coltivato finora - che magari non è esclusivamente indie ma non è certo quello che guarda "Uomini e donne" - ma allo stesso tempo non raggiugnere il successo mainstream. Ti assicuro che capire che cavolo fare, filosoficamente parlando, è molto difficile e non saprei nemmeno da dove partire per spiegarti il lavoro intrapreso al fine di prendere davvero una decisione. Ci ha coinvolto tutti - io, la band e il nostro manager Nicola Cani - per quasi un anno e mezzo.
Questa presa di posizione, diciamo filosofica, si sente chiaramente. La critica che posso fare al disco è di avere una produzione molto invadente e quasi non ti fa capire le differenze tra le varie canzoni.
La cosa strana è che questo disco non piace a nessuno ma sta vendendo parecchio e le date sono sold out (ride). A me, personalmente, interessava sfondare il più possibile. Sia chiaro, non vuol dire che ci siamo messi ad analizzare in maniera scientifica cosa va in radio oggi. Per ogni pezzo del disco abbiamo scritto tante versioni differenti: "Sold Out", ad esempio, è stata rifatta in tutte le versioni possibili. Magari tra un anno non ci piacerà più ma ti posso assicurare che tutto quello che senti in questo album è stato fortemente voluto. Non ci sono stati errori, tentativi di copiare qualcos’altro o i soliti pastrocchi che normalmente fai quando non sei sicuro di una scelta. Quello che senti è esattamente quello che volevamo e per me è sufficiente.
Il miglior pregio di Tommaso qual è?
Oltre al fatto che è simpaticissimo, è estremamente autentico, in tutta la mia carriera ne ho viste poche di persone così. Posso capire che a molti dia fastidio o sembri finto. Lui non ha filtri, non si tiene mai ed è completamente sincero in tutto quello che fa.
La migliore qualità di Bugo?
Oltre ad essere un bravissimo cantante, ha una capacità notevole di controllare ogni aspetto della sua musica. È una persona veramente unica nel nostro panorama: è italianissimo ma, al tempo stesso, ha un modo di gestirsi che è molto più internazionale di quando si pensi. Ha una visione molto precisa: ha un ottimo suono dal vivo e nei suoi album può cambiare stile o produttore ma rimane sempre Bugo. È stato lui a cercarmi: si è ascoltato le cose che ho fatto, ha capito che voleva questo sound per il suo nuovo disco e mi ha citofonato in studio.
Mi piacerebbe che mi accennassi anche qualcosa sul lavoro fatto con gli Ex-Otago. Sei tu che hai scelto per “Marassi” un sound più elettronico? “In capo al mondo” era più acustico.
Spesso emerge che sono un produttore invadente, magari è anche vero ma ti assicuro che gli Otago sono arrivati in studio avendo in testa sonorità molto elettroniche. Io ho cercato trovare un balance tra queste sonorità e quelle del disco prima. A mio avviso loro non sono credibili come producer, nella loro musica ci deve essere sempre un qualcosa di suonato. Detto questo, loro hanno una bellissima visione musicale, magari cambia da album ad album ma non la rinnegano mai. “Marassi” può essere una sorta di summa di tutte le cose che hanno fatto precedentemente e, allo stesso tempo, un inizio di consapevolezza diversa. Hanno sempre fatto scelte in maniera molto decisa. È una bella qualità.
Qual è la cosa che ami di più del tuo lavoro?
(lunga pausa) Ribalterei la domanda dicendo che spesso odio tantissimo il mio lavoro. Posso considerarmi un privilegiato perché non ho orari fissi, non ho un capo e ho molta libertà. Mi stimola anche il fatto di trovarmi in un mercato piccolo ed essere obbligato a lavorare di continuo. Non siamo più in quel momento dove un produttore faceva tre dischi di successo e poi viveva di rendita. Essere alla continua ricerca di un balance tra il lato artistico e quello economico mi piace molto. Spesso, però, ti trovi in situazioni psicologicamente assurde, hai a che fare con un mercato del tutto irrazionale, non capisci come far funzionare le cose e il cervello ti va in pappa (ride). A volte odio tutti questi meccanismi ma poi, quando capisci che ne puoi venire a capo, ti dà grande soddisfazione.
---
L'articolo Il pop italiano raccontato da Matteo Cantaluppi di Sandro Giorello è apparso su Rockit.it il 2016-11-18 10:37:00
COMMENTI (2)
Intervista molto interessante, bravi!
Interessantissimo, come sempre....
Al Cantaloop bisognerebbe fargli una statua :)