La leva calcistica del '18: Mattia Barro - Juventus

Per la nostra rubrica "La leva calcistica del '18", Mattia Barro racconta la sua grande passione per la Juventus e tante altre storie di musica e calcio.

La leva calcistica del '18 è la nuova serie di interviste di Rockit dedicate a due delle più grandi passioni degli italiani: la musica e il calcio. Che rapporto hanno i musicisti nostrani col pallone? Salire sul palco è come scendere in campo? Qual è il loro grande desiderio calcistico? Oggi parliamo con Mattia Barro, musicista già frontman della band L'orso che qualche hanno fa ha pubblicato il libro "Musica nel pallone" (Habanero Edizioni), che ci racconta qui insieme alle sue esperienze calcistiche e alla passione per la sua squadra del cuore: la Juventus.

Io sono sampdoriano, ma credo comunque di avere qualcosa in comune con te: il calciatore con cui mi sono innamorato di questo sport è stato Del Piero.
Assolutamente. È una questione di periodo storico, ho cominciato a seguire il calcio con un po’ più di cognizione proprio quando Del Piero ha mosso i primi passi in Serie A. Mi reputo un grande fortunato, l’anagrafe mi ha permesso di godere della parabola di Del Piero per intero, dal debutto al ritiro, passando per tutti i momenti più brutti (infortuni, Serie B) ma anche per quelli più belli (l’Intercontinentale, i gol alla Del Piero, il Mondiale). È stato il giocatore più importante della Juventus degli ultimi 20 anni e probabilmente il più importante della storia insieme a Platini. Non riesco ancora a rivedere il suo addio, non l’ho ancora metabolizzato. Ho pianto quando l’ho visto in diretta e anche tutti i servizi celebrativi mi provocano lo stesso effetto, un disastro. Del Piero è sempre stato contraddistinto dalla capacità di segnare in momenti importanti della sua carriera: è stato capocannoniere in Champions, nella massima serie e nel campionato cadetto, e anche quando era ormai anziano e relegato in panchina si è sempre rivelato l’uomo più decisivo della squadra. Momenti sportivi ma anche momenti emotivi: segnò un gol splendido dopo la morte di suo padre e uno ancor più bello contro il Piacenza dopo la morte dell’avvocato Agnelli, colui che lo definì “Pinturicchio”.

Nel tuo libro dici che la tua è stata l’ultima generazione a giocare a calcio nelle strade. L’ultimo baluardo di un calcio che fu è proprio il portiere della tua squadra. Cosa succederà quando smetterà Buffon, come hai vissuto questo ricambio generazionale anche in virtù di tutti i cambiamenti che ha subito l’impianto calcistico?
Stanno smettendo i calciatori della nostra generazione. I giocatori con cui siamo cresciuti e ci siamo immedesimati, i calciatori che hanno rappresentato la nostra squadra per anni. Ma soprattutto con loro, a mio avviso, finirà l’epoca del calcio intelligente, del calcio cosciente. Calciatori come Del Piero e Buffon, nel loro non parlare un italiano perfetto, sono sempre stati in grado di esprimere qualcosa di coerente. Anche dopo l’uscita dalle qualificazione del Mondiale, un momento in cui non si potevano dire cose intelligenti, Buffon si è dimostrato all’altezza del ruolo. Il capitano dell’Italia, per la posizione che ricopre ha delle importanti responsabilità politiche e sociali. Parlare per 60 milioni di persone non è uno scherzo. Ai tifosi manca questo, un punto d’appoggio sportivo/emotivo, capitani come potevano esserlo Buffon e Del Piero ma anche Maldini e Zanetti. Secondo me con loro finisce il periodo in cui i calciatori erano ancora coscienti di dover rappresentare qualcosa. Ed è per questo che si parla di bandiere. Del Piero nella sua carriera ha subito numerose angherie ma non hai mai fatto una dichiarazione fuori luogo. Adesso mi devo sucare Higuain che a ogni intervista se la deve prendere con qualcuno? Sarà che sono sabaudo ma ho sempre apprezzato le persone educate, con lui se ne è andato un modo di vivere e intendere il calcio.

La prima volta che sei andato allo stadio quanti anni avevi, com'è andata?
La mia prima partita allo stadio fu proprio una Juventus - Sampdoria finita tre a zero per la Samp. Una partitaccia della Juve. Era il match che precedeva un'importante sfida di Champions, o Coppa dei Campioni come si chiamava a quei tempi. Non eravamo molto tonici e prendemmo un’imbarcata. Non mi ricordo bene se Vierchowod giocasse con noi o fosse ancora alla Samp per la sua ultima stagione in blucerchiato. Era la Samp allenata da Eriksson, ti dico solo che segnarono Enrico Chiesa, Balleri e Seedorf, forse il primo di una lunga serie di gol segnati dall’olandese con decine di maglie differenti. La partita si era svolta al Delle Alpi, uno stadio con una visibilità pessima a causa della pista d’atletica che circondava il campo. Il secondo tempo fu un assalto della Juve ma trovandomi nella curva opposta alle spalle del nostro portiere non vidi nulla se non i due contropiedi con cui la Samp segnò i suoi gol. Sull'uno o due a zero Del Piero fu sostituito con Pessotto per preservarlo in vista della partita di coppa, allo stadio scoppiò il putiferio: due tifosi, entrambi bianconeri, posti esattamente sui seggiolini antistanti ai nostri, degenerarono la loro discussione in rissa con tutta la goffaggine di due signori distinti che si picchiano da seduti. Non ebbi neanche paura. Questo fu il mio debutto alla stadio: in compenso quello fu l’anno in cui la Juventus vinse la coppa dalle grandi orecchie. Avevo 8 anni.

“La scelta della squadra è di per sé una scelta di fede che determinerà, non solo a livello personale, ma anche sociale, la vita di un essere umano”: tu per quale motivo sei diventato un tifoso bianconero e, soprattutto, tifare la squadra più vincente d’Italia non cozza con la tua visione poetica del calcio?
Mio malgrado mi ricordo molto meglio le finali finite peggio, ad esempio quella di Dortmund. La gente pensa che tifare la Juve sia facile ma il tifoso bianconero è, in realtà, un altro tifoso destinato a soffrire. La Juve storicamente è una squadra operaia, difficilmente assisterai a una bella partita guardando un match della Juve: la vecchia signora è una squadra pragmatica che ha fatto dell’uno a zero il proprio marchio di fabbrica. Ogni squadra si impegna al 100% contro di noi, in ogni nostra vittoria è insita la sofferenza: questa è forse la caratteristica che ci ha reso grandi in Italia ma non letali in Europa. Nel tifoso juventino è insito il pessimismo, una caratteristica che, anche se sembra difficile da immaginare, condivide con i tifosi del Barcellona. Mio padre lavora in Spagna, ho molti scambi di opinioni post-partita con i tifosi blaugrana. In particolare sono diventato juventino per tradizione famigliare. Lo erano mio padre, mio zio: a casa mia, a dire il vero, non è mai esistita un'altra squadra, sono cresciuto sapendo che sarei diventato juventino. È un po’ come la religione, nel senso che se ricevi un educazione cattolica sai che crescerai così e tutto sommato non potrai fare nient’altro che abbandonarla a una certa età. Io con la Juventus non l’ho fatto, in fondo si tratta a tutti gli effetti di vera e propria fede, non ti rimane altro che sperare, pregare e soffire. Oltretutto, per chi viene da un altro mondo, per gli atei del calcio, è proprio una cosa inconcepibile, come la religione. Non puoi spiegare perché sei cattolico così come non puoi spiegare perché soffri per una squadra, si tratta di amore incondizionato, di speranze riposte. La gente non lo capisce ma il calcio come la religione riempie le domeniche.

Invece, pur giocando in un’altra posizione, mi sono rispecchiato molto nelle tue vicende calcistiche personali. Sottolinei più volte il fatto che il calcio sia una perfetta metafora della vita: in che modo il tuo percorso sportivo ha inciso sulla tua vita? Sto parlando della mancanza di cattiveria, del venir meno nei momenti fondamentali.
Come a scuola ritrovarsi circondati da compagni o professori antipatici può essere compromettente, così avviene anche nel calcio; il calcio poi, proprio come la scuola, arriva in un momento di imprinting fondamentale verso la vita, intorno ai 6/7 anni. In Italia, a mio avviso, si dà pochissimo peso alla figura dell’allenatore nei settori giovanili. Il mister dovrebbe essere un maestro di vita più che un filosofo dei moduli, a quell’età ha poco senso, spesso si gioca con campi e porte piccole e non di rado tra i pulcini è possibile imbattersi in partite dai risultati tennistici. La mania di vincere a tutti i costi, anche a questi livelli, oltre che un pessimo insegnamento spesso si rivela un atteggiamento controproducente gettando bambini nell’ansia e infoiando eccessivamente i genitori. Non sto dicendo che si debba giocare per perdere ma a quell’età sarebbe più importante insegnare i valori del gioco, dello spirito di squadra, del sacrificio e dello stare insieme. Ricordo perfettamente questa foga che si riversava tutt’attorno al nostro ambiente calcistico, pur partecipando sempre a lega e a squadre che, a livello sportivo, valevano ben poco. Mi ricordo in particolare una stagione in cui nella mia squadra giocava questo portiere scarsissimo che a ogni partita prendeva gol assurdi e, di conseguenza, insulti da tutti i genitori, e non mi sembrava giusto nei confronti di un ragazzino di dieci anni. Nel corso dell’unica partita che forse giocammo decentemente ci procurammo un rigore, e l’allenatore, megalomane e teatrale, decise di farlo battere al portiere. Mi ricordo ancora la corsa sgraziata da una porta all’altra. Furono minuti lunghissimi e pieni di tensione: ovviamente sbagliò e scoppiò un putiferio. Lui scoppiò a piangere e i genitori, in risposta, convocarono un'assemblea con l’allenatore.

Hai mai ricontattato il tuo compagno che giocava in porta?
Mi piacerebbe molto incontrarlo al giorno d’oggi, sperare che sia una persona realizzata: una batosta del genere o ti rovina la vita o ti dà una forza paurosa. Che insegnamento dai ai tuoi figli se insulti un altro ragazzino urlandogli continuamente contro che è scarso? E, soprattutto, quanta pressione metti su dei ragazzini che vogliono solamente giocare a calcio, divertirsi, pur senza portare le stigmati dei fenomeni? Quello che voglio dire è che il calcio sicuramente non mi ha aiutato a essere estroverso. Immagina poi fare il terzino alla medie: la palla non la vedevi mai e quando la vedevi la dovevi spazzare. Il periodo più felice della mia breve carriera calcistica fu una piccola parentesi in cui giocai da centrocampista centrale, davanti alla difesa: finalmente mi sentivo nel vivo del gioco. Non avevo un gran fiato, non ero molto veloce, ciò che mi contraddistingueva erano il senso della posizione e i lanci in profondità. Giocavo col fosforo e mi piaceva. Ma la maggior parte delle scelte calcistiche venivano ancora prese in base a considerazioni discutibili: sei alto vai in porta, il ciccione in attacco tanto non ha voglia di correre e non c’è il fuorigioco, il cocco dell’allenatore (quello con gli amici di famiglia amici del mister) fantasista. Da noi giocava un fantasista scarsissimo che a 17 anni è diventato punk, ma punk di quelli brutti. Il calcio è un piccolo bignami di vita e ti fa capire come andranno le cose: devi essere scaltro, devi essere un duro, devi essere cinico. A me in particolare mandava ai pazzi il gioco sporco, intendo le simulazioni, le perdite di tempo. Una volta avevo i lacci slacciati (ero scarsissimo ad allacciarmi le scarpe e dovevo aggiustarle 2/3 volte a partita) ed ero ultimo uomo su un calcio d’angolo; l’attaccante avversario, vedendomi impegnato, mi calpestò la stringa fino alla ripartenza dell’azione per non permettermi di correre in caso di contropiede. Avrei dovuto cominciare a spintonarlo, ma che senso avrebbe avuto? Non ho mai avuto un fisico predisposto alla lotta e, a quell’età nella mia zona, una rissa in campo si protraeva per mesi. Ritrovavi i tuoi avversari a scuola e i paesi della squadre rivali distavano non più di cinque minuti in bici. Era il periodo di maggior rilevanza sociale per i calciatori, era il periodo delle veline in cui il calcio italiano era ancora al top a livello mondiale. L’Ivrea che raggiunse la Serie C, tra virgolette, peggiorò ulteriormente la situazione. Mi hanno veramente svuotato della voglia di giocare, per anni non sono nemmeno andato a giocare a calcetto con gli amici.

Uno dei miei scrittori preferiti è Nick Hornby. Lui ha scritto sia trattati sul calcio che sulla musica senza però aver avuto mai la brillante idea di unire i due temi. Per scrivere un libro del genere devi necessariamente essere un suo fan.
In realtà non l’ho mai letto tantissimo. Ho letto “Alta Fedeltà” ma, ad esempio, non ho mai letto “Febbre a 90°” che è il suo romanzo calcistico per eccellenza. Sono quei libri che mi sono sempre riproposto di leggere ma di cui in libreria mi ricordavo solamente quando uscivo. La citazione di Nick Hornby nel mio libro era chiamata, quasi scontata, in realtà mi sono ispirato principalmente a scrittori sudamericani e italiani. Tra gli altri, una delle fonti che cito di più, è lo storico giornalista sportivo Gianni Brera.

Però per essere uno juventino hai una visione fantastica di Zeman che, in teoria, dovrebbe essere uno dei tuoi principali nemici.
Sono un grandissimo estimatore di Zeman e ho anche avuto modo di conoscerlo quando allenava il Pescara. Il grande Pescara di Insigne, Immobile e Verratti che ho seguito per tutta la stagione. Ero in tour con L’orso, tornammo la notte alle quattro e io mi puntai la sveglia alle otto per andare a seguire l’allenamento. Il centro sportivo del Pescara è introvabile, sparso tra le colline abruzzesi. Di quella mattinata custodisco gelosamente due importanti cimeli: una maglia di Immobile e una foto con il Maestro. Ho visto uno schema provato allo sfinimento per più di un’ora con solo la formazione d’attacco: Insigne che viene incontro e appoggia su Verratti, Verratti che a occhi chiusi lancia 50 metri sulla destra per il terzino che ai tempi era Nielsen, Nielsen che crossava e Insigne, Immobile e Sansovini ad attaccare gli spazi. Tutto a un tocco. Un piccolo trattato della filosofia calcistica del boemo. E in effetti Zeman qualcosa del filosofo, del santone, ce l’aveva, qualcosa che infrangesse lo stereotipo dell’allenatore tipo. E non mi riferisco semplicemente alla dialettica o alla sua mania per il fumo. Zeman era certamente un personaggio cinematografico ma, allo stesso tempo, una delle figure più umane all’interno di un ambito calcistico sempre meno poetico. Non a caso Venditti gli dedicò una canzone.

Sicuramente avrai qualche giocatore feticcio.
In quel Pescara c’era anche Gianluca Nicco, un calciatore di Ivrea che poi è stato fermato per il calcio scommesse: ho un debole per i calciatori coinvolti nel calcio scommesse, al fantacalcio prendevo spesso Cristiano Doni. Un altro calciatore che ho letteralmente amato è stato Paro, non so perché, forse perché ha segnato il primo storico gol delle Juventus in B, rivelatosi poi fondamentale, nella prima sfida di campionato contro il Rimini. Me lo ricordo come se fosse ieri. Tra Marchisio e Paro io parteggiavo fortissimo per il secondo!! Stilisticamente, invece, il mio modello di calciatore era Zidane. E ovviamente Ronnie O'Brien al quale, nel mio libro, è dedicato un piccolo capitolo.

La vita in tour come si incastra col campionato?
Malissimo. Mi sono dovuto fare Sky Go. L’addio di Del Piero l’ho visto in tour andando ad Avellino. Gli orari dei concerti, delle prove e degli spostamenti non coincidono mai con quelli del campionato, ed è drammatico; forse proprio per questo agli artisti non importa nulla del calcio, così come ai gestori di locali. Non hai nessuno con cui parlarne, nessuno con cui guardare le partite… Però ho un aneddoto. La prima volta della mia vita che andai a Napoli ci andai con L’orso, e quella sera, prima dell’esibizione, andai nella pizzeria di fianco al locale dove trasmettevano la partita. Era il primo anno di Conte, la Juve giocava a Trieste contro il Cagliari, parallelamente a Milano si giocava il derby tra l’Inter e il Milan di Allegri pretendente allo scudetto. L’Inter si impose grazie ad una doppietta del “principe” Milito e a un gol di Maicon, la Juve risolse una partita ostica grazie a un gol brutto del subentrato Borriello. Non c’era ancora la squadra di Sarri ma, nonostante tutto, Napoli non era sicuramente la migliore città dove tifare Juve. Detto ciò, il pubblico de L’orso è sempre stato un pubblico tranquillo: chi si poteva aspettare che, pronunciando la frase “Comunque ragazzi è la prima volta che faccio un concerto da campione d’Italia”, si facesse largo tra la folla un energumeno stile Gomorra. Mi disse “Dopo scambiamo due chiacchere, ti aspetto fuori”. Sono stato tutta la sera chiuso in camerino finchè non se ne sono andati tutti.

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L'articolo La leva calcistica del '18: Mattia Barro - Juventus di Marco Beltramelli è apparso su Rockit.it il 2018-02-13 15:00:00

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