Uno degli elementi di maggiore curiosità e interesse dell'imminente edizione 2025 di MI AMI Festival – il 23 e 24 maggio, con preview il 22 – è l'approdo all'Idroscalo di Milano di nomi che solitamente non si erano visti in questo contesto, e più in generale nei festival italiani "non di genere". Sono due dei nomi di maggior rilievo del metal italiano degli ultimi anni, famosi e apprezzati in tutto il mondo nei circuiti di riferimento.
I primi sono i Fulci, band nata nel 2013 a Caserta, come omaggio al regista horror Lucio Fulci. Da anni il gruppo è protagonista di tour in Europa e nel mondo, dove ha un seguito crescente. Con loro i Messa (di cui vi avevamo parlato qua e qua), sodalizio veneto che da più di 10 anni porta il proprio doom metal molto contaminato un po' ovunque.
Dopo tre dischi tutti molto belli e diversi tra loro, Belfry del 2016, Feast For Water del 2018 e Close del 2022, proprio oggi i MESSA hanno pubblicato The Spin, sperimentale come sempre, che parte dal goth rock anni 80 e lo arricchisce con sonorità molto varie, dall'immancabile black metal a prog e jazz. “Non ci piace ripeterci e cerchiamo costantemente di trovare un nuovo linguaggio mantenendo la nostra identità”, sottolinea la band. “Questa volta ci siamo addentrati in un territorio che non avevamo mai esplorato prima, ovvero gli anni ‘80. Siamo consapevoli che molte band prima di noi si sono ispirate a quell'epoca, ma noi abbiamo deciso di essere incauti e lasciarci andare. Non facciamo in alcun modo parte della “scena dark”.
Rosi dall'impazienza di vedere una simile band sul palco dell'evento che come claim "Festival della musica bella e dei baci", ci siamo fatti una chiacchierata con Alberto e Sara, metà dei Messa. Non sappiamo bene perché, ma iniziamo parlando di soldi, ma arriviamo presto su temi a tutti più cari.
Cosa state facendo in questo momento?
ALBERTO: Ti rispondo io, che sto facendo la cosa “meno metal” al mondo. Sono al computer. Oltre a suonare faccio il programmatore web. In questo momento, per dire, sto facendo un import di un database di farmaci. L’idea sarebbe assolutamente quella di fare il musicista (e basta) come lavoro. È quello che ho studiato: ho fatto il conservatorio. Solo che c’è uno stipendio fisso, l’affitto invece sì, quello è fisso ogni mese.
Non si guadagna bene col metal?
A: Direi con la musica in generale. Che poi non è che questa cosa è una fissa per me, anzi. Io sono uno che ai soldi non fa proprio caso. Ho le mani bucate. Se mi dessero dei gettoni al posto dei soldi, per me sarebbe uguale, tanto li spendo in un secondo.
SARA: Questo è un lavoro un po’ particolare. Bisogna avere grandi capacità di adattamento: stare a lungo in tour ha effetti notevoli sulle tue relazioni umane, ad esempio. E poi, almeno per come lo facciamo noi, non ci sono i comfort della vita quotidiana. Conosco gente che mi dice “sei pazza a fare questa vita”. Ci sono tanti sacrifici a fare questa vita, non da ultimi quelli economici. Però per me ne vale la pena. Io preferisco avere meno soldi ma fare quello che amo, seguire una vocazione piuttosto che ricevere ogni mese la stessa busta paga per un lavoro che mi deprime e mi svuota.
Hai usato un’espressione che mi ha colpito: “per come lo facciamo noi”. Come lo fate voi?
A: Be’, dal punto di vista logistico è molto... concedimi il termine “punk”. Abbiamo il nostro furgone da nove posti, bello scassato. Tipo School of Rock, ecco, una roba del genere. Un po’ cliché, in effetti. Dà sempre dei problemi, ma è il nostro mezzo. Carichiamo la backline, si parte, si arriva, si scarica tutto da soli. Sempre e solo fatto così, tutto noi.
Il vostro pubblico all’estero è molto diverso rispetto a quello su cui potete contare in Italia?
A: Sì, soprattutto negli Stati Uniti. Lì c’è più attenzione a tutto quello che è blues e jazz, contaminazioni ben presenti nella nostra musica. Fa parte della loro cultura musicale in profondità. Faccio un esempio: alla fine di un assolo, il pubblico americano applaude. Penso che sia una cosa mutuata da altri generi, che da noi non ha attecchito granché. In realtà apprezzo ogni tipo di feedback, quello che non sopporto è chi rimane mummificato.
Quando suonate all’estero, il fatto che siete italiani viene percepito come qualcosa di insolito?
S: Le band italiane che vanno all’estero ci sono eccome. Ma è più raro che arrivino su palchi grandi. Succede meno rispetto ad altri Paesi.
A: Tipo i Fulci. Loro hanno fatto da supporto ai Morbid Angel, ed è stata una figata. Vedere una band italiana in un tour così grosso è stato emozionante. Capita di rado, per questo sono davvero orgoglioso per loro.
Anche i Fulci saranno al MI AMI. Che rapporto avete con loro?
S: Sono amici e li stimiamo tantissimo. Vederli attivi all’estero, in circuiti importanti, è emozionante. La nostra proposta è molto diversa dalla loro, ma proprio per questo sarà interessante condividere il palco. Abbiamo due modi diversi di intendere l’oscurità.
Parliamo un po’ del “vostro metal”, che in fondo non è nemmeno poi così metal…
S: Non facciamo metal tradizionale. Nella nostra musica inseriamo tanti elementi diversi, per questo i nostri ascoltatori sono molto vari.
A: Capita spesso che qualcuno ci dica: “Io non ascolto metal, ma voi sì”. E viene ai concerti. Poi, per fortuna, ci sono anche i “defender” del genere, che sono fondamentali.
Ho letto tantissime definizioni di quel che fate, anche abbastanza fantasiose. Voi ne avete brevettata una?
A: Secondo me è sbagliato cercare di riassumere. Ogni disco è a sé. L’unico “riassunto” vero di quel che siamo lo dà il live: lì siamo più veri, diretti. Siamo una band di quattro elementi: basso, batteria, chitarra e voce. Senza effetti speciali. Anche se in Close avevamo ampliato la formazione con strumenti acustici per portare in scena le sonorità del disco. Ma quella era un’occasione straordinaria.
S: Però è stato bellissimo: sembrava di andare in gita con tutti gli amici. Ora però sentiamo il bisogno di tornare alla formula base, senza troppi orpelli.
A: Quindi alla fine siamo una rock band che fa anche metal. Punto.
Per ogni disco seguite un concept e una sonorità chiave. Questo disco dove guarda?
A: Ha influenze anni 80s più forti degli altri. Ci sono synth, chorus nelle chitarre, gated reverb sul rullante, persino un CP80, il piano elettrico anni ’80 usato da Mia Martini e Lucio Dalla. Abbiamo cercato strumenti dell’epoca, li abbiamo chiesti in prestito a parenti e amici. Pensa che ci hanno persino prestato un bassista degli anni Ottanta…
E com’è nata questa fascinazione per gli anni Ottanta?
A: È venuta naturale. Era una cosa che mancava nel nostro percorso e volevamo aggiungere questo “sapore”. Già l’ultimo pezzo scritto per Close, Dark Horse, aveva un po’ di Killing Joke dentro.
Quali sono le vostre band di riferimento del periodo?
A: I già citati Killing Joke sono il riferimento comune. A me inoltre piace molto il Jimmy Page di Outrider. O i Journey.
S: Per me band come Siouxsie and the Banshees o The Sound. Con Marco, il bassista, li amiamo davvero tanto, pensiamo che siano “criminally underrated”. Hanno fatto due dischi pazzeschi: Jeopardy e From the Lion's Mouth. Capolavori veri.
Sono rimasto folgorato dal videoclip del singolo, At Races. Ditemi di più sulla sua lavorazione.
S: L’abbiamo girato la scorsa estate tra Slovenia, Croazia, Bosnia e Serbia. Un viaggio bellissimo, tosto. Quelle zone hanno ancora cicatrici evidenti della guerra. È stato emozionante, sia per i luoghi sia per le persone incontrate.
A: Abbiamo fatto chilometri in moto e furgone, davvero tanti. Siamo finiti in cave abbandonate… rischiato di restare impantanati. Ma ne è valsa la pena.
S: Il tema del brano è la pressione, la competizione. E abbiamo inserito anche il Wall of Death, fatto da Zid Smrti, uno dei pochi gruppi circensi che al mondo praticano ancora questa acrobazia incredibile con la moto. Si ricollega al tema grafico del disco: la ciclicità, la ruota che gira.
Si parla da tempo di un ritorno della musica “suonata”, della voglia di autenticità che c’è tra il pubblico. C’è da essere ottimisti?
A: Sinceramente non vedo tutto questo ritorno. In giro sento ancora tanti che suonano con le basi, tanto focus sull’immagine e poco sulla sostanza. Però perché le cose cambino davvero, anche il pubblico deve saper riconoscere la differenza.
S: Anche il discorso dell’autotune: magari noi ce ne accorgiamo, ma mio padre o mia madre no. Stessa cosa con l’intelligenza artificiale: sta entrando ovunque. È un discorso grosso e complesso.
Tra poco vi vedremo al MI AMI Festival. Come vi state preparando?
S: È un contesto un po’ diverso dal solito per noi. Siamo i “pesci fuor d’acqua”, ma proprio per questo sono curiosa di vedere la reazione del pubblico. Non so cosa si aspettino da noi, ma sono molto stimolata all’idea di esibirmi su quel palco.
A: Ho amici che ci hanno suonato e mi hanno detto: “Che figata!”. Stiamo già organizzando la furgonata. È un festival dove sono passate tante cose diverse, molto interessanti. Per noi è una bella occasione, anche se magari ci tireranno addosso le cose… Scherzo, sono entusiasta all’idea di suonare davanti a un pubblico che, potenzialmente, non ci conosce e fare vedere loro cosa facciamo.
Se qualcuno venuto per sentire un rapper o cantautore incappa in voi, cosa sperate succeda?
A: Mio padre dice sempre: se la qualità c’è, si sente. Io spero questo. Che qualcosa di buono, se c’è, venga percepito anche da chi ascolta altro.
S: Io dico una parola: sincerità. Nel modo in cui suoniamo, in cui ci poniamo. Suoniamo in quattro, senza sovrastrutture, anche con degli errori. È una cosa umana. Oggi, con tutto il discorso dell’AI, l’umanità è ancora più importante.
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L'articolo Con i Messa l'Italia ha la sua super band metal: "Portiamo sul palco sincerità e umanità" di Dario Falcini è apparso su Rockit.it il 2025-04-11 16:16:00
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