Qualche settimana fa ho raccontato della mia visita al Museo degli Strumenti Musicali di Roma in un articolo in cui non ho potuto nascondere delusione e amarezza (sorry, Roma). Qualche giorno fa invece ho deciso di visitare il Museo della Musica di Parigi e, manco a dirlo, ho trovato un esempio di patrimonio valorizzato e ben sfruttato; il bello è che quantitativamente e qualitativamente il nostro è forse altrettanto importante, ma in quanto a gestione -certo non il punto forte dell’Italia- abbiamo tanto da imparare.
Intanto il luogo: su questo punto vinceremmo certo noi, visto che il Museo degli Strumenti Musicali di Roma si trova in pieno centro e offre un panorama mozzafiato su rovine della Roma antica. La Philharmonie di Parigi invece si trova in uno spazio enorme, che è la Cité de la Musique e che ospita, oltre al museo e alle esposizioni permanenti di strumenti, il conservatorio, esposizioni temporanee (attualmente c’è quella di Marc Chagall), sale da concerto e eventi quasi tutte le sere. Arrivando, ci si accorge subito di essere in uno spazio interamente dedicato alla musica in tutte le sue forme, che permette di attrarre gente a tutte le ore e di tutte le età.
All’entrata (gratuita per i giovani sotto i 26 anni e ridotta per molte altre persone) si viene forniti di audioguida, strumento a volte fastidioso nella visita dei musei ma qui indispensabile perché permette di ascoltare il suono di buona parte dei singoli strumenti, oltre a raccontare aneddoti o fatti storici. Il percorso ha un senso logico-cronologico, diviso in cinque grandi tappe che hanno determinato la nascita e lo sviluppo della musica: si parte dalla nascita dell’opera, si passa per la musica all’epoca dei lumi e l’Europa romantica, e si arriva all’accelerazione della storia e alle musiche dal mondo. È un esempio di patrimonio gestito con criterio e con la coscienza che lo sviluppo di un’arte come la musica sia influenzato da tanti fattori diversi, ma correlati. Sembra logico, ma evidentemente non lo è per i gestori del museo di Roma.
Il percorso si snoda attraverso le sale (grandi, spaziose e accoglienti) e nonostante la mole di materiale la visita scorre veloce. La cosa simpatica -e saggia- è la presenza di un percorso specifico per bambini: meno tracce “storiche” da ascoltare e un numero limitato di strumenti, in modo che l'esperienza nel museo sia divertente e interessante anche per loro. La caratteristica che lo rende fruibile davvero a tutti è però la presenza di un percorso specifico per i non vedenti. Sembrerebbe un azzardo e invece è geniale. Perché la musica va ascoltata, toccata, sentita, non necessariamente guardata. Il fatto di essere accompagnati dall’audioguida e di poter spesso toccare davvero gli strumenti rende concreta la possibilità di immaginare tutto il mondo che la musica apre. A parte tutte le pecche del museo di Roma, la cosa che davvero gli manca è una e semplice: la musica stessa.
Già, il percorso "Touchez la musique" (cioè "Toccate la musica") è una delle caratteristiche migliori del museo, e la parte in assoluto più entusiasmante è al penultimo piano, quello dedicato interamente alle innovazioni tecnologiche, dove i visitatori possono suonare un vero theremin: basta indossare le cuffie disponibili e muovere le mani tra le due antenne.
Tutti i piani del museo fanno parte di questo percorso interattivo che avrei voluto trovare anche a Roma: c'è quello dedicato alla nascita dell’opera, che ospita strumenti che vanno dal 2500 a.c. (sì, avanti Cristo) al XVIII secolo. Ci sono una marea di liuti, arciliuti (che sì, c’erano anche a Roma, ma non si postevano ascoltare, sentendo la differenza e l’evoluzione dello strumento), clavicembali italiani del XVI-XVII secolo, oboi, flauti traversi e non, corni e trombe da caccia. Una bella carrellata di strumenti utilizzati all’origine della musica, quando cominciava ad imporsi come arte di massa.
Seconda tappa è l’epoca dei lumi, in un'area in cui i visitatori hanno la possibilità di suonare un piccolo organo, e non solo; appena entrata sento qualcuno suonare, e non si trattava dell’audioguida. Solo alla fine mi accorgo che un angolo della sala è dedicato a piccoli concerti in cui un musicista può mettersi a suonare a due metri dal pubblico (che può cogliere anche l’occasione per riposarsi sui divani messi a disposizione), interagendo e rispondendo alle domande della gente, o spiegando qualcosa sul funzionamento dello strumento rendendo la visita ancora più suggestiva, dando l’impressione di immergersi ancor più a fondo nella musica. Bello. A Roma invece sembra piuttosto di immergersi nel caos, in un disordine di oggetti sparsi senza criterio e senza alcuna descrizione.
(il sintetizzatore E-mu usato da Frank Zappa)
Il resto della visita scorre via in una marea di sale e strumenti musicali, paesi esotici, correnti artistiche e prospettive storiche sulla musica, compresa quella iper contemporanea: è questo, secondo me, il vero fiore all’occhiello del museo di Parigi, che dimostra di non limitarsi solo alla musica classica ma di aprirsi al nuovo, al progresso scientifico e tecnologico che ha travolto, oltre che le vite delle singole persone, anche la musica. Il punto forte di questo museo da cui dovremmo imparare tanto è proprio nel criterio logico di valorizzazione e comprensione profonda di un’arte che in Italia, probabilmente, non è ancora considerata come tale.
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L'articolo Perché il museo della musica di Parigi è una figata, e quello di Roma no di Emma Bailetti è apparso su Rockit.it il 2015-10-13 15:44:00
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