Nell'era del potere massimo di condivisione su internet (quella cosa che anni fa ha partorito Napster) i leak sono semplicemente qualcosa all'ordine del giorno. In virtù di questo, colossi della musica come Beyoncé o Kendrick Lamar hanno iniziato a pubblicare i propri dischi a sorpresa, senza alcuna anticipazione a mezzo stampa, promuovendoli poi nelle settimane a venire. Una tecnica che si è rivelata utile agli artisti per vari motivi: i download illegali sono per forza di cose limitati e la "liquidità" di cui la musica gode al giorno d'oggi aiuta a far circolare il disco e a farlo entrare nei top trend del giorno.
Per superstar di questa caratura ha ancora perfettamente senso impiegare tempo e (soprattutto) denaro per far conoscere l'intero disco. Per molti musicisti però, quelli che non sono delle superstar per intenderci, probabilmente il discorso non è lo stesso. Lo streaming ha battuto ufficialmente il download digitale e questo implica che gli artisti siano più legati alle royalties dei vari servizi di streaming che alle vendite degli store. Il problema, e questo è risaputo, è che questi servizi di streaming fruttano agli artisti molto meno di tutto il resto.
Secondo questo report, pubblicato dal National Bureau of Economic Research, l'industria guadagna 0.007€ per ogni stream, dei quali 0.005€ vanno all'artista a seconda dell'accordo e del servizio di streaming. Con i download, almeno, i guadagni per l'artista si attestavano intorno ai 70 centesimi.
La musica non è mai stata così economica come oggi. Se con l'introduzione di iTunes si poteva comprare qualsiasi cosa senza il bisogno di andare in negozio, rimaneva comunque l'idea di un costo per ogni singola canzone. Per ogni disco, cioè, c'era un prezzo da pagare che era sicuramente molto più elevato dei soli 10€ al mese richiesti per esempio da Spotify. Con 120€ annuali possiamo ascoltare legalmente milioni di canzoni, e questo spinge necessariamente gli artisti a ripensare il modo in cui pubblicare i propri lavori. In poche parole: per sopravvivere, gli artisti devono garantirsi la possibilità di rimanere più tempo possibile nelle playlist degli ascoltatori.
(Il vinile dei Flaming Lips con il sangue di Nick Cave, Erykah Badu, Chris Martin e altri artisti)
Per ottenere il numero più alto possibile di ascolti, ogni brano deve diventare protagonista di playlist popolari, che a loro volta molto spesso sono gestite da società di proprietà delle major discografiche.
In molti hanno gridato alla morte del formato "album", sostituito dalla playlist. Ma è davvero così? Probabilmente no: album che danno l'impressione di essere una compilation più che un vero "percorso" studiato e meditato sono sempre esistiti, come tuttora esistono dischi che necessitano di un ascolto integrale per venir accolti al meglio. Allo stesso modo, esisteranno sempre ascoltatori attenti e desiderosi di andare oltre il singolo, pronti a scoprire tutti i messaggi racchiusi in un lavoro completo.
Nonostante questo, la popolarità delle playlist è qualcosa che non si può non notare, e gli artisti stanno cominciando ad adeguarsi: in molti casi non conviene più lavorare per anni a un disco, promuoverlo costosamente per tre mesi e poi impegnarsi per un anno di tour. Piuttosto, è più proficuo far uscire una serie di brani, video, esclusive, per poi raccogliere il tutto in un ep o in un disco.
L'album diventa così qualcosa che arriverà, un giorno, ma non si sa con quali tempistiche. L'artista sembra dire ai propri ascoltatori: «Statemi vicino e verrete ricompensati dell'attesa, ho bisogno del vostro supporto ora più che mai». Ed è effettivamente così, visto che mai come oggi il mercato della musica è tanto liquido (e scivoloso).
(Ghali è uno degli artisti con gli album più attesi del 2017: per tutto il 2016 ha pubblicato solo singoli su YouTube e Spotify)
Ma è una liquidità che, dati alla mano, pregiudica le vendite. Sempre più (lo confermano le lussuosissime edizioni in vinile) la copia fisica è un feticcio, qualcosa da comprare per dimostrare che la si possiede, proprio come una t-shirt o un paio di occhiali da sole.
All'apparenza la musica sembra aver perso la sua importanza primaria, ma non è così: mai come oggi si ascolta musica e mai come oggi la musica è tanto ascoltata (secondo questa ricerca, i millennials ne ascoltano addirittura molta più dei loro genitori). Tanto che oggi non ha più senso chiedersi se vale la pena comprare comunque un disco del quale si conoscono già a memoria le canzoni. Ma non ha senso nemmeno supporre il contrario: probabilmente conoscete benissimo i vostri brani preferiti di quest'anno, eppure questo non implica affatto che abbiate comprato il disco in cui sono contenuti. Addirittura, nonostante tutto ciò, non potete certo essere accusati di non star supportando il vostro artista preferito: magari avete acquistato qualcosa dal suo merchandise, o non avete mancato a una data di un suo concerto. O ancora avete fatto la vostra in un crowdfunding.
È quindi questo il futuro del mercato discografico? Nì. È assurdo pensare che si possa per sempre fare leva sul tirarla per le lunghe, anche solo perché è capacità umana innata quella di adattarsi alle novità («A tutto si abitua quel vigliacco ch'è l'uomo» ammoniva Dostoevskij nel 1866). Probabilmente sia le release a sorpresa che le serie infinite di singoli non sono altro che sintomo di un problema evidente: il futuro è lo streaming e il mercato non sa ancora come sfruttarlo (né come pagare adeguatamente gli artisti!). L'industria sta vivendo l'ennesimo periodo di transizione, dovuto a una certa lentezza nell'adattarsi alla quale nel frattempo si cerca di rimediare procedendo per tentativi.
L'unica cosa che è rimasta immutata (e probabilmente resisterà a qualsiasi cambiamento tecnologico) sono i live. Il modo migliore per godersi la musica e supportare i propri artisti preferiti rimane sempre uno: andare ai concerti.
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L'articolo Il music business nel 2017 è tutto e il contrario di tutto di Raffaele Lauretti è apparso su Rockit.it il 2017-01-09 12:00:00
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