La peggio gioventù: musica pop, disuguaglianze e fan shaming in Italia

“Il pubblico più ignorante e gretto ama il mainstream” è una convinzione che ci portiamo dietro dagli anni '70, e che ancora non ci siamo scrollati di dosso

- Illustrazioni di Giulia Vetri
19/04/2017 - 10:15 Scritto da Simone Varriale

 

“I signori critici definiscono ignoranti e gretti quei giovani ai quali piacciono i Deep Purple, gli Sweet, per non parlare di come infieriscono su chi compra i Pooh, i Camaleonti, Mina o Papetti. Io dico: anche se comprassero Orietta Berti, cosa avete da dire? Ve lo dico io: dato che i dischi più venduti in Italia sono quelli di Papetti, Mina o Domenico Modugno, occorre tenere in considerazione anche questo tipo di musica anziché denigrarla, perché allo stesso tempo denigrate anche i tanti ai quali quella musica piace. [...] [R]ispettiamo gli altri, non mettiamoci anche noi (chi scrive è un ventenne) ad accrescere questo desiderio di sopraffazione e di distinzione.”

(Annibale Angelozzi, “Grave lacuna”, Ciao 2001, n. 37, 21 Settembre, 1975; pp. 5-6)

 

Così un lettore di Ciao 2001 descriveva le distinzioni musicali che si erano consolidate nell’Italia degli anni ’70. Distinzioni tra pop di qualità e pop dal dubbio valore artistico, ma anche tra pop anglosassone e musica leggera italiana; ovvero il gradino più basso di una gerarchia culturale emersa solo nei dieci anni precedenti. Il lettore è perfettamente conscio che queste distinzioni sono anche sociali, ovvero giudizi su diversi tipi di fan. Un pubblico ‘ignorante e gretto’ perché interessato alla musica leggera e un pubblico implicitamente più intelligente e raffinato.    

L’equivalenza tra gusti musicali e persone con più o meno ‘cultura’ fa parte del lessico quotidiano dei fan e dei critici di musica pop, e in quanto tale è raramente oggetto di analisi. Si tratta di un aspetto talmente profondo dell’esperienza musicale da restare perlopiù implicito o inconscio. Qualcuno ha persino affermato che senza questa componente di discriminazione sociale, il piacere dell’ascoltare o del parlare di musica sarebbe compromesso, perché il giudizio estetico è intrecciato con distinzioni identitarie tra ‘noi’ e ‘loro’.  

Il problema è che queste distinzioni, proprio per il loro carattere istintivo e pre-riflessivo, rendono invisibili disuguaglianze sociali che con la musica c’entrano poco, ma che hanno un’influenza notevole su chi è in grado o meno di sviluppare quella ‘cultura’ di cui si diceva sopra. Non a caso, le distinzioni estetiche hanno storicamente legittimato barriere di classe e gender, sia nella musica classica che, più di recente, nel pop. Ha quindi senso guardare a come questo meccanismo sia emerso in Italia, e chiedersi se il nostro inconscio culturale, così come la società italiana, hanno fatto qualche passo in avanti rispetto agli anni formativi della musica pop.  

 

Fenomenologia del fan ignorante


Le lettere dei lettori pubblicate sulle riviste musicali degli anni 70 rivelano come l’ignoranza musicale fosse sistematicamente associata a specifiche categorie sociali. Il giovane ignorante era spesso ‘troppo giovane’ per aver vissuto la fine degli anni '60, cioè quella stagione del rock angloamericano che i critici italiani, già intorno al 1975, consideravano classica e dunque difficile da eguagliare. Tuttavia la mancanza di cultura non era solo un problema di età: le ragazze erano viste come musicalmente meno competenti dei ragazzi, e secondo un articolo di Gong del 1977, gli studenti degli istituti tecnici e professionali erano più soggetti ai rischi del ‘kitsch musicale’ rispetto ai liceali. La provincia e il Sud erano poi ulteriori discrimini tra una gioventù immaginata come arretrata (non solo nei gusti musicali), e una gioventù più moderna e cosmopolita.

Non è casuale che le ultime tre categorie – educazione, genere, provenienza geografica – fossero anche le principali fonti di disuguaglianza nell’Italia degli anni ’70. Nonostante la crescita della scolarizzazione di massa nel decennio precedente, l’accesso alle scuole superiori e all’università rimaneva fortemente differenziato in termini di classe sociale. Ad andare al liceo erano perlopiù i figli di professionisti e imprenditori, mentre una parte del ceto medio, e soprattutto i figli di operai e contadini, tendevano ad intraprendere percorsi tecnici o professionali. Tantissimi altri tuttavia si fermavano alla scuola dell’obbligo: alla fine degli anni ’70 questi erano ancora circa la metà dei giovani tra i 14 e i 18 anni; una metà che raramente proveniva dalle famiglie dei ceti medio-alti.  

Ancora a metà degli anni 60 i fan del pop anglosassone rappresentavano una nicchia di giovani con istruzione superiore e universitaria. E se nei dieci anni successivi il pop avrebbe accresciuto il suo seguito, l’accesso al liceo sarebbe rimasto quasi invariato in termini di composizione sociale. Di conseguenza alcuni fan – quelli socialmente più privilegiati – avevano anche strumenti culturali più sofisticati. Per dirla in termini più teorici, possedevano più ‘capitale culturale’ di altri, ovvero una maggiore conoscenza della cultura alta e delle sue categorie di giudizio, ma anche capacità linguistiche ed argomentative più sviluppate per discuterne. 

Queste differenze avevano un’influenza significativa sulla capacità di giustificare in modo convincente i confini tra musica più o meno valida. Non a caso, i critici erano perlopiù liceali, studenti universitari o laureati, e non era raro che ‘sgridassero’ quei fan che nelle loro lettere tradivano passioni musicali sconvenienti – come l’hard rock e la disco – o usavano un linguaggio poco articolato. Sono queste, ad esempio, le critiche mosse da Giaime Pintor, direttore di Muzak, a due lettori che avevano criticato in un italiano non eccelso un suo articolo sui Soft Machine.

“Mi sembra che il tentativo di parlare di musica in modo musicale (se permettete il bisticcio di parole) vada fatto anche su una rivista specializzata. E sorriderei, se la cosa non mi riempisse di tristezza[,] all’uso di frusti luoghi comuni come “genio folle” (Wyatt) […] “folli astralità” e altre piacevolezze da fumettacci letti in fretta. […] È altrettanto evidente che mentre io ho sentito Six, i miei critici non sanno neanche chi sia Mussorgsky e Scriabin, anche perché il loro odio per tutto ciò che puzza di classico va di pari passo con l’esaltazione acritica e amusicale di ciò che è moderno[.]”

(Giaime Pintor, Risposta a Giuseppe Iacono and Giancarlo Foresta, Muzak, n. 5, 1974; p. 7)

 Confrontarsi con Pintor – un critico con conoscenze sia musicali che culturali ben al di sopra dei suoi coetanei, e con un solido pedigree borghese – poteva risultare difficile per i fan con una biografia sociale meno eccellente. L’accusa di ignoranza poteva però colpire anche i lettori più giovani, i quali per motivi anagrafici erano meno scolarizzati dei critici, o semplicemente meno interessati al quel rock ‘classico’ con cui i critici erano cresciuti solo qualche anno prima.  

 

I gusti delle ragazze 


L’importanza che nella scena pop veniva data alle conoscenze culturali e alle capacità linguistiche spiega come mai i gusti dei giovani meno privilegiati rischiassero più facilmente di essere oggetto di denigrazione. Tuttavia ciò non spiega come mai sia critici che lettori considerassero le ragazze maggiormente a rischio di ignoranza musicale.

“[N]oi saremmo felici di non dare ragione a chi dice che le ragazze, di musica non capiscono un bel niente. Purtroppo, però, abbiamo la peggio, dalla nostra; tutti sappiamo che la maggioranza delle ragazze amano Pooh, Battisti, ecc. Ma è mai possibile che almeno una non abbia mai ascoltato la stupefacente musica dei King Crimson, dei Genesis, dei Pink Floyd?”

(Marcello e Dulio, ‘La musica delle ragazze’. Ciao 2001, n. 10, 10 marzo 1974; pp. 5-6)

Le ragazze non erano solo accusate di ascoltare musica leggera –  inclusi quei nomi, come Battisti, che le generazioni successive avrebbero ampiamente rivalutato – ma di essere attratte dai cantanti italiani solo per il loro aspetto fisico, o di essere interessate solo a questioni ‘sentimentali’. I pregiudizi dei fan si basavano su quella distinzione tra sfera pubblica (maschile) e sfera privata (femminile) che è caratteristica delle società patriarcali, e che in quanto tale influenza la percezione che uomini e donne hanno sia di se stessi che dei ruoli – sociali, culturali e politici - più ‘consoni’ ai diversi generi. Ascoltare musica pop, per una ragazza, significava quindi fare i conti con questo tipo di pregiudizi. E di conseguenza con un’accoglienza non esattamente calorosa, indipendentemente dal suo grado di interesse o conoscenza.

Paradossalmente, questi stereotipi sopravvivevano in un periodo in cui la posizione delle donne nella società italiana stava cambiando. Durante gli anni ’60 le iscrizioni femminili oltre la scuola dell’obbligo erano cresciute tanto quanto quelle maschili, e nei primi anni ’80 le donne avrebbero raggiunto e superato la parità di iscrizioni. Inoltre, a partire dalla fine degli anni ’60 si sviluppa anche in Italia un movimento femminista molto diversificato e attivo su una molteplicità di fronti: dalle battaglie per la depenalizzazione dell’aborto – avvenuta solo nel 1978 – ai gruppi di autocoscienza – incentrati sulla messa in discussione dei ruoli di genere tradizionali – fino alla produzione letteraria e saggistica. Quest’ultima inizia a rivelare come la socializzazione di ragazzi e ragazze – cioè l’essere educati a pensarsi in modi diversi, e a pensare come legittimi diversi percorsi educativi e professionali – fosse responsabile di disuguaglianze che agli occhi di molti apparivano ancora come differenze ‘naturali’ tra uomini e donne. 

Le lettere delle riviste musicali rivelano quanto la cultura fosse ‘lenta’ nel registrare queste trasformazioni. In questo modo, la musica pop riproduceva forme di discriminazione di cui le donne facevano esperienza anche in altre sfere della vita sociale. In realtà alcuni critici erano parzialmente consapevoli di queste dinamiche, come mostra l’interesse per il femminismo espresso sia da Ciao 2001 che, in misura molto maggiore, da Muzak e Gong. A partire dal 1976 Muzak avrà come co-direttrice Lidia Ravera, e darà spazio regolare a tematiche legate alle disuguaglianze di genere e al femminismo. Tuttavia il discorso musicale, in tutte e tre le riviste, restava principalmente in mani maschili, nonostante alcune eccezioni come Maria Laura Giulietti, una delle penne più prolifiche di Ciao 2001. Su riviste come Muzak e Gong c’era anche un’evidente separazione editoriale tra argomenti di cui scrivevano gli uomini (la musica) e le donne (femminismo e questioni di genere), il che rivela quanto certe contraddizioni restassero forti, anche in ambienti vicini ai movimenti politici e contro-culturali dell’epoca. 

 

Musica pop e disuguaglianze negli anni dieci


In che misura queste dinamiche sono solo un ricordo del passato? E quanto invece ci riguardano ancora? Non è possibile dare una risposta definitiva, visto che gli studi sistematici su musica pop e disuguaglianze sono una rarità, specialmente nel contesto italiano. Tuttavia è possibile fare qualche ipotesi sulla base di quei pochi indizi che abbiamo. 

Una cosa che è cambiata relativamente poco è il tipo di conoscenza che utilizziamo per orientarci nel pop e giudicarne i prodotti, e di conseguenza i criteri stessi che regolano la distinzione tra pubblico ignorante e pubblico consapevole. Il linguaggio della cultura alta, con la sua enfasi sul carattere innato della sensibilità e della conoscenza artistica, resta centrale nella nostra esperienza musicale (perché tale resta nella nostra esperienza scolastica e universitaria). La stessa storia della musica pop si fonda su questo tipo di conoscenza, e non a caso è una storia di individui più o meno geniali, più o meno capaci di reinventare il passato musicale. Quello che Simon Frith chiama ‘art discourse’ è il pane quotidiano della critica e dei fan, e sebbene resti uno strumento d’analisi più che rispettabile, è probabilmente quello meno indicato a rivelare i complessi rapporti tra musica e società. 

Quando ad esempio si parla di discriminazione di genere nel pop – e al momento lo si fa più che in passato, anche in Italia – il discorso non verte su individui più o meno dotati di capacità creative, ma sul perché un’intera categoria sociale – le donne – sia sistematicamente pensata come meno dotata di quelle capacità. La risposta a questa domanda richiede di guardare a fenomeni che il discorso artistico tende ad ignorare, come gli stereotipi culturali – cioè il pensare le donne come un gruppo omogeneo con delle caratteristiche intrinseche, invece che come persone dotate della stessa complessità sociale e psicologica degli uomini – e il peso che tali stereotipi continuano ad avere in diversi ambiti della vita quotidiana. Il discorso artistico, al contrario, ha sia ignorato queste questioni che costruito un’immagine del genio soprattutto maschile.

Per quanto riguarda invece le divisioni di classe, il fenomeno per cui chi nasce in famiglie più povere ha meno probabilità di continuare gli studi – la cosiddetta riproduzione sociale – è ben noto in sociologia ed economia, ed è tutt’altro che sparito dalla società italiana. Tuttavia questo tipo di disuguaglianza non ha alcuna visibilità nella cultura pop. I pochi studi che guardano alle relazioni tra famiglia d’origine, educazione e gusti musicali mostrano che considerare la musica, inclusa quella pop, come ‘cultura’, è più frequente quando gli adolescenti provengono da famiglie di laureati, così come tra i liceali; i quali, a livello statistico, continuano a provenire con più frequenza da famiglie culturalmente ed economicamente privilegiate. È dunque probabile che il fan ignorante abbia un profilo sociale più prevedibile di quanto il discorso artistico – con la sua ossessione per i talenti e i fallimenti individuali – tenda a farci sospettare.

 

Simone Varriale è ricercatore presso il Dipartimento di Sociologia dell’Università di Warwick (UK), dove ha conseguito il PhD nel 2014. La sua ricerca sulla nascita della critica musicale italiana è stata pubblicata nella monografia Globalization, Music and Cultures of Distinction: The Rise of Pop Music Criticism in Italy (edita da Palgrave Macmillan) e nelle riviste Poetics, Cultural Sociology, American Behavioral Scientist e Rassegna Italiana di Sociologia.

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L'articolo La peggio gioventù: musica pop, disuguaglianze e fan shaming in Italia di Simone Varriale è apparso su Rockit.it il 2017-04-19 10:15:00

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