“Poiché sono uno scrittore, scrivo in polemica”, diceva Pasolini nel celebre articolo delle lucciole nel 1975. Ma i cantanti italiani, poiché sono cantanti – e scrittori, in molti casi – cantano in polemica? La musica di protesta ha fatto da colonna sonora a mezzo secolo di cambiamenti ideologici, culturali e sociali del Bel Paese, ma quella vocazione nata dalle ceneri del dopoguerra e cresciuta tra anni '60 e '70 oggi sembra essersi un po’ persa tra il ricordo di vecchi canti partigiani e la riproposizione di motivi datati.
“Possibile che in più di vent’anni non siamo riusciti a trovare un’altra voce, un altro suono che possa raccontare il disagio contro cui si manifesta?”, scriveva due anni fa Teho Teardo commentando le manifestazioni di piazza che a distanza di 20 anni o più suonano ancora i 99Posse, gli Assalti Frontali, la Banda Bassottie via dicendo. Se le voci rimangono fuori dai portoni dei canali più rodati forse allora tempi, modi e protagonisti della protesta non sono allineati. Sembra non esserci una musica di oggi che ragioni sull’oggi, una musica italiana in grado di provocare uno sconquasso, sia esso politico, sociale o culturale, di esprimere un dissenso nei confronti della realtà circostante: “Tutto fermo lì alle stesse canzoni, con gli stessi gesti ormai innocui e patetici. Non abbiamo una voce e non abbiamo un suono, quindi non abbiamo idee valide per superare questo momento”.
Ma la storia del nostro Paese di musica e musicanti parla di un fermento culturale mai domo, di una produzione variegata e transgenerazionale, arrivata intatta al nuovo millennio. La storia racconta di Cantacronache, gruppo di musicisti e poeti fondato nel 1957 da Fausto Amodei, Sergio Liberovici e Michele Straniero, che per “O Gorizia tu sia maledetta” viene denunciato per vilipendio alle forze armate. Un gruppo che trasforma la musica in un mezzo per esprimere un’opinione forte e fortemente radicata alla realtà. Una lotta nata dal basso contro un fenomeno imposto dall’alto, la “melodia gastronomica”, per dirla con il compianto Umberto Eco, la canzonetta sanremese. Pur rimanendo bloccato nel circuito di contro-comunicazione, il movimento torinese mobilita parolieri come Calvino, Fortini, Eco stesso e Rodari per raccontare l’Italia da una prospettiva anticonformista, reinventando il folklore popolare e partigiano in funzione di protesta nei confronti della figlia del melodramma. Passando per la canzone civile di Brecht, il folk americano e la scuola francese, Cantacronache influenza i primi cantautori. Un esempio? Il parallelo tra “Dove vola l’avvoltoio”, scritta da Calvino nel 1958, e “La guerra di Piero” di De André (1964): da “nella limpida corrente/ora scendon carpe e trote/non più i corpi dei soldati/che la fanno insanguinar” a “lungo le sponde del mio torrente/voglio che scendano i lucci argentati/non più i cadaveri dei soldati/portati in braccio dalla corrente”.
Già, De André. “Il nostro poeta più bravo”, per dirla come Fernanda Pivano, nel 1973 pubblica “Storia di un impiegato”, soggettiva sul ’68 e i suoi strascichi, a partire dal maggio francese. L’ouverture iniziale anticipa i temi – lotta, galera, bombe – poi raccontati dalla “Canzone di maggio”, ispirata a “Chacun de vous est concerné” della sindacalista Dominique Grange: un j’accuse ai disimpegnati, uno schierarsi passionale contro chi vede negli studenti e nei loro sogni un rovesciamento brusco, insensato, inopportuno. Il dito di biasimo elenca i segni del consumismo della middle class, la Millecento e la televisione, “strumento del potere e potere essa stessa”, scriveva Pasolini in quell’anno. Un disco stroncato dalla critica, un disco che Faber voleva bruciare perché “troppo politico”. E ringraziamo gli spiriti che l’hanno spinto a non farlo.
Nel 1973 invece debuttano con “Arbeit Macht Frei” gli Area. La vena politica e sociale del gruppo che fu di Demetrio Stratos è sempre pulsante, al pari di quella della sperimentazione. Se brani come “ZYG (Crescita zero)” e “Brujo” (“Caution Radiaton Area”, 1974) denunciano il mercimonio d’anime e corpi prodotto dal lavoro e dalle metropoli, “Maledetti (maudits)” del ’76 è un concept fantapolitico. Il prog rock degli Area è un prodromo estremo di quello che accade negli anni '80, aperti dalla denuncia dei “minima immoralia” del sistema da parte di Battiato. Il punk rock italiano, quello delle radio libere e delle etichette indipendenti, si muove sul filo rosso che collega Bologna – qui i Gaznevada raccolgono la matrice demenziale degli Skiantos e si dirigono verso il solco creativo tracciato dai Talking Heads – e Firenze, dove i Diaframma e i Litfiba compiono una rivoluzione innanzitutto linguistica, cantando in italiano. In mezzo c’è l’Emilia “Paranoica” dei filosovietici CCCP-Fedeli alla linea di Lindo Ferretti.
Prodotti causa ed effetto di un panorama sociale in subbuglio, divenuto però sempre più stagnante. Il fermento di oggi sembra votato a sviluppare una componente, il web, che a volte tende ad appiattire i pareri, conformare le idee, disperdere la cultura in un marasma binario. Da questo fermento è venuta una graduale, inesorabile disgregazione sociale davanti alla quale è difficile rimanere inermi. Eppure per la maggiore vanno i personaggi-manifesto di un sistema ancora troppo forte per permettere ai “protestanti” di invadere nuovamente l’immaginario dei giovani: il diabolico meccanismo del talent forma una classe di interpreti che non crea scompiglio, punta alla consacrazione radiofonica e ignora quegli ascoltatori in attesa di qualcuno che prenda il microfono in favore di un cambiamento.
L’Italiano medio di J-Ax lo conoscono tutti. Nel 2004 la sua scrittura portava ancora la firma degli Articolo 31, ma la vis ironica e cinica contro i fenomeni di massa, le maschere politiche e le pantomime televisive è rimasta la stessa in “Buonanotte Italia” (2006) e “Anni Amari” (2009). Ma è proprio la polemica di questo tipo a spostare l’attenzione dei giovani su questioni meno serie, trasformando la politica in un semplice teatrino privo di idee – cosa che forse oggi è – e facendo disamorare le nuove generazioni del dibattito sociologico che dovrebbe ruotare attorno al Palazzo. Manca la serietà della protesta, manca l’interesse per temi reali – i salotti televisivi? Specchietto per le allodole – e per la circolazione di idee diverse e intriganti. La polemica giocosa di Ax rientra nella chiave pop, da intendersi non come “popolare”, ma come “Pop-Hoolista”.
Di diversa fattura il flow di Caparezza, che si serve di modelli letterari (la Scapigliatura) e si confronta con l’arte per analizzare il contemporaneo in maniera astiosa, provocatoria, coerente. Il suo rap d’autore punta il dito contro il dogmatismo religioso che imbriglia il senso critico prendendo a modello l’abiura galileiana (“Il dito medio di Galileo”, 2011), trasforma la denuncia per le morti sul lavoro in una hit danzereccia, (“Vieni a ballare in Puglia”, 2008). La condanna alla classe dirigente si fa più aspra, consapevole, diretta in “La marchetta di Popolino” e “Non siete stato voi” (2011), la protesta si fa ancor più raffinata in “Museica” (2014), in cui la mancanza di prospettiva dell’Italia viene delineata invocando chi di prospettiva se ne intendeva, “Giotto beat”. Troppo politico? Caparezza prende in giro i suoi detrattori: “Il mio lessico: poco compreso! Chi mi critica lo fa per partito preso!”. Troppo politico era stato giudicato anche Frankie Hi Nrg a Sanremo 2008, dove con “Rivoluzione” inneggiava alla necessità di “prendere la società ai quattro angoli della tovaglia e buttar tutto per aria”, come scriveva Hugo ne I Miserabili. Un brano che peraltro contiene un riferimento esplicito a “Storia di un impiegato”.
Ancor più violenta, forte, urlata è la protesta di Pierpaolo Capovilla, che legge il senso dell’ideale socialista in Majakovskij e si dichiara fratello di Esenin e Pasolini, cantori della civiltà contadina. La decadenza morale e culturale dell’Italia diviene il pretesto per inserire nei brani de Il Teatro degli Orrori aspre critiche al capitalismo e all’incompresa lezione pasoliniana datata 1974. Un grido il cui emblema è “A sangue freddo”, che urla al megafono i versi di “La vera prigione” di Ken Saro Wiwa. Nell’omonimo disco uscito a fine 2015, Il Teatro degli Orrori scrive una lettera aperta al PD intitolata “Il lungo sonno”, dove si ironizza sulle difficoltà del Paese nella speranza – vana – che si tratti di un sogno: “i diritti dei lavoratori, quelli delle donne, la lotta di classe, cuore di ogni progresso, la fedeltà alle linee, i valori della costituzione, una società più giusta e più uguale, non me ne frega più niente, è tutta un’illusione, una beffa, una pantomima”.
C’è chi invece si è rotto semplicemente il cazzo, come Lo Stato Sociale, che ha all’attivo due dischi intitolati “Turisti della democrazia” (2012) e “L’Italia peggiore” (2014). La band bolognese si lamenta del poco spazio per le recriminazioni – “perché hai compreso che non c’è posto per lamentarsi delle avversità” – e disillude se stessa e noi, ché “la rivoluzione non passerà in tv”. Per i Ministri è sempre “Una questione politica”: la protesta del gruppo di Davide Autelitano è più sottile, ironica, e si ispira alla denuncia brechtiana per mettere in ridicolo la semplicità di un popolo che “si costerna, si indigna, si impegna poi getta la spugna con gran dignità”. Un popolo in riva al mare a cui “piace prendere il sole per diventare marrone proprio come Briatore”. Dall’anticlericalismo di “Andate tutti affanculo” alle analisi esistenziali di “Nati per subire”, per gli Zen Circus invece “la democrazia semplicemente non funziona”. Appino e i suoi compari “sono in crisi da una vita”, come scrivono in “Viva”, brano di apertura di “Canzoni contro la natura” (2014). E il futuro? È una trappola, per dirla con i Ministri, in cui i trentenni non hanno avvenire “e allora se lo bevono per non pensarci”.
La voce politica della musica in Italia c’è, esiste e ha coscienza di sé. Ma allora perché non viene suonata alle manifestazioni? Forse la collettività, assuefatta proprio a quelle pantomime contro cui dovrebbe ribellarsi, si è abituata a navigare nello stagno della lamentela, che è ben diversa dalla protesta e che si esaurisce nelle bacheche di Facebook o al massimo alla fine di un concerto. O peggio, quelli che prendono il microfono in favore di un cambiamento vengono beatamente relegati in un apposito recinto mentre si celebrano le icone vuote di un sistema che, per dirla con Pasolini, si sviluppa ma non progredisce. “Nonno, è questo il futuro che sognavi te?”
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L'articolo Dov'è finita la musica di protesta in Italia? di DanieleSidonio è apparso su Rockit.it il 2016-02-25 11:12:00
COMMENTI (11)
sii gentile....
sii gentile ?
L'Italypop
I "dentro me", "dentro te", "dentro noi"
con gli "io e te", i "me e te" e anche poi
i "penso a lei", i "come aria tra noi"
dei nostri tempi sono forse gli eroi?
L'Italypop, litania del sistema,
Babylon music, unico schema
fuochi di paglia e fuochi d'artificio
buoni neppure per un buon maleficio!
Per questa ondata di stelle quaggiù,
mi domando se tu
non vuoi scherzare, scherzare un po'
sulla miseria dell'Italypop!
Che sia in italiano o in dialetto pugliese
sta musica pop nel nostro paese
non brilla per gusto. Il gusto un po' antico
del bello è perduto o mai acquisito.
E al primo vagito eravamo presenti,
chiques, gagliardi, mocciosi lucenti.
Al primo vagito, il primo cucù
dell'Italypop da certa TV!
Per questa ondata di stelle quaggiù
mi domando se tu
non vuoi scherzare, scherzare un po'
sulla miseria dell'Italypop!
Ora che la primavera è passata
il nostro pulcino è un galletto ad hoc
e già fa scuola e già insegna frittata,
maionese, uova alla coque:
dietro le quinte, come a regola d'arte,
scrive la parte la controparte,
oggi, Geppetto, è padre d'un pinocchio,
un pinocchio in più, col nasino in ginocchio!
Per questa ondata di stelle quaggiù,
mi domando se tu
non vuoi scherzare, scherzare un po'
sulla miseria dell'Italypop!
La musica di protesta vive alla grande e gode di buona salute, non nei circuiti mainstream ma nell'underground. Esiste eccome! Ci sono tantissimi festival e moltissime formazioni che propongono i canti (di tradizione orale e non), canti degli ultimi decenni e nuovissimi canti, in linea con le tematiche attuali, spesso semplici contrafactum, come è sempre stato da almeno un secolo. Il circuito in cui gravitano si espande in tutta Europa, ci sono centinaia di formazioni molto attive e con decine di live all'anno. Non calcano i palchi da 100 m quadri, né realizzano videoclip da mettere su internet. Raramente pubblicano dischi, non hanno troppo senso nelle loro intenzioni informative ed educative. Piuttosto si riuniscono in festival dedicati a tematiche di interesse politico e sociale, oppure partecipano attivamente a manifestazioni, presidi, etc. Esistono e rimangono in contesti dedicati, in perfetta coerenza con la loro funzione sociale.
Consiglio certamente la lettura di questo libro, ancora caldo di stampa, pubblicato dall'Istituto Ernesto de Martino:
donzelli.it/libro/978886843…
youtu.be/Vh2b26RKKo0
youtu.be/Vh2b26RKKo0
i gruppi ci sono ma non gli frega niente delle hit parade .almeno per noi è così
Alla musica di protesta fa solo bene stare nelle strade invece che nelle hit-parade: è solo col contatto reale con gente reale che si lascia un segno.
Mi permetto di suggerire il sito lascintilla.net, ad esempio, ma ce ne sono moltissimi altri fuori dal mainstream...
Bel pezzo. Articolato, esaustivo, coerente.
Se posso permettermi (su Theo Teardo)... A chi importa avere canzoni nuove da cantare alle manifestazioni
-se le manifestazioni non ci sono?
-se manca l'intento e la voglia di protestare?
-se l'esigenza è invece quella di apparire ribelli rivoluzionari?
-se quei vecchi motivi risultano sempre attualissimi?
-se quelli erano, vista la loro semplicità, più adatti alla piazza?
(Mi viene un dubbio. Non starò forse come sempre confondendo le cause con gli effetti???)
E' il modo di comporre musica la discriminante.
Chi lo fa dovrebbe tenerne conto.
Il pezzo musicale in questione dovrebbe essere semplice e alla portata di tutti; potersi reggere sulla sola voce. Questo fattore gioverebbe molto di conseguenza sulla sua diffusione nella cultura popolare. (niente radio, niente case discografiche quindi... ma puro tamtam.)
Questo per dire che 1000 persone in corteo riescono a coordinarsi e cantare gli Inti Illimani, ma difficilmente riusciranno a cantare un testo di Caparezza da 3 pagine. (A meno che non si tratti di 1000 suoi fan ad un suo concerto.)
in Italia ci sono ancora artisti che scrivono, producono e cantano cose importanti, ma vengono totalmente ignorati sia da editori che dalla maggior parte della stampa.
Faccio un esempio: Germano Bonaveri. Sei album e una partecipazione al premio Tenco alle spalle. Ha tante cose da dire....ma che fatica trovare spazio!
Perche' una volta si usciva fuori dagli schemi, o almeno si cercava. Oggi anche la musica della rivoluzione invece e' moda, cliche', etichetta. Utilizza quegli stessi canali su cui viaggia il piattume dello status quo. Facebook per esempio. Ciao