Ho iniziato a suonare perché giocare era diventato “una cosa da coglione”.
Ero a casa del mio amico I insieme ad A, avevamo 12 anni e mi annoiavo, mi capitava spesso di annoiarmi con i miei coetanei, così ho deciso di fargli una “proposta indecente”, gli ho proposto per un attimo di far finta di non essere grandi, di smettere pensare a pagine da studiare, raudi e al culo di Megan Fox: “giochiamo come quando eravamo piccoli?”. Vi ricordate il classico “facciamo che io ero?”, quella roba là de “facciamo che eravamo supereroi, ninja, agenti segreti ecc…”, adoravo fingermi qualcuno o qualcun’altra, qualcosa di diverso da me, inventarmi la mia storia. Incredibilmente la risposta è stata “sì”, i 20 minuti più belli dei miei 12 anni probabilmente. L’atmosfera però si è spezzata quando mamma mi è venuta a prendere e li ho scoperti sogghignare felici per il suo arrivo: “ora che Moci se ne va possiamo giocare alla play, *trollface* (credo si ridesse così nel 2009, ditemi se ricordo male)”.
Solo a pensarci mi sento ancora il grande capo dell’armata dei coglioni, quel giorno ho capito che non avrei più giocato, che dovevo diventare grande, non mi bastava crescere di statura per trasformarmi in un piccolo uomo. A 12 anni ho capito che non stavo bene con i miei coetanei, odiavo passare del tempo con loro. Credo che quello sia stato il primo segnale di inadeguatezza con cui mi sono scontrato, il voler restare fermo, ad un’età in cui ti è concesso essere chiunque tu voglia essere, tanto basta solo immaginarlo. Giuro non volevo crescere per non vivere più.
Ovviamente la musica ha cambiato tutto, anche se in verità non l’ha mai fatto davvero. C’è questa retorica de “la musica mi ha salvato la vita” che non mi appartiene, cioè a meno che non sei Max di Stranger Things che si salva da Vecna ascoltando Kate Bush dubito una canzone possa davvero salvarti, a salvarti ti salvi da solo o da sola.
Dagli undici anni credo di essere passato, almeno per un saluto, per molti disturbi della sfera della salute mentale. Depressione, ansia, disturbi alimentari. A tredici anni, almeno una volta a settimana, mi chiudevo nel bagno della scuola e vomitavo con mezza mano in gola perché non avevo voglia di parlare con gli altri, volevo che mi portassero a casa. Chiaramente a quell’età non avevo idea di cosa mi stesse succedendo, ho sempre creduto fosse solo una mia abitudine stravagante, l’educazione sul tema di un disturbo alimentare è spesso associata erroneamente solo al genere femminile per questioni legate all’estetica, al corpo, alla non accettazione di forme diverse dai canoni che ci sono imposti, come se certe fragilità debbano essere sempre associate ad una sfera che in un immaginario patriarcale è quella del sesso più debole, sensibile ed emotivamente instabile. Questi sono i danni che provoca lo stigma, il non parlare di certi temi o il parlarne in modo retorico, lasciando spazio a chi esprime un’opinione su un tema solo perché è di moda. Perché “porta like”.
Io mi sentivo inadeguato non con il mio corpo ma con tutto quello che mi circondava e anche con quello che sentivo dentro, avevo trovato il modo di tirarlo tutto fuori. Volevo solo rimanere chiuso in camera ad imparare a suonare il basso ed essere bello come Paul McCartney. Quando nel 2020 tutti i piani del mio progetto musicale sono crollati come un castello di carta mi sono ritrovato in uno stato vitale terrificante, ne parlerò meglio più avanti, la musica è diventata una brutta ossessione.
Il problema è che per anni nessuno è mai entrato in contatto col mondo che avevo dentro. Sono stato io a non permetterlo, e non era una roba stupida tipo “boys don’t cry”, ho semplicemente sempre avuto la convinzione che parlare alle persone attorno a me di quello che mi faceva soffrire fosse inutile, una perdita di tempo e soprattutto un’enorme zavorra di pensieri negativi che avrei rischiato di caricare sulle spalle di qualcuno a cui voglio bene, un atto di egoismo. Alla fine ho educato le persone che mi amavano a non interessarsi e a non invadere il mio spazio, di modo che tenendo lo sguardo dritto verso l’esterno neanche io potessi mai guardarmi dentro.
Sono diventato freddo, per quasi 10 anni non mi sono permesso emozioni forti, dovevo rimanere il più possibile lucido ed inerme davanti alla morte e accondiscendente verso l’amore. Lo capisco che sembrano cose troppo grandi per un ragazzino, ma sono sicuro di quello che dico, sono sicuro che attorno a me ci siano migliaia di persone con la stessa storia emotiva. Ovviamente l’eccezione è sempre stata la musica, l’unico momento in cui mi era permessa un po’ di pelle d’oca, di adrenalina o di sofferenza. Prima nello stereo, poi in cameretta, poi su di un palco ed oggi in studio; ascoltare, suonare ed infine scrivere, tre momenti fondamentali della mia crescita, continuamente in divenire, senza fermarsi mai.
Allora forse la musica non mi ha salvato, è vero. Ma è stato un enorme distrattore positivo da me stesso. Almeno fino a un certo punto e cioè quando ho smesso di suonare i pezzi degli altri e ho pensato di scriverne di miei.
Ho cominciato a scrivere canzoni in italiano perché volevo provarci con una ragazza, inutile fare il fico e dire che l’ho fatto per esorcizzare i miei demoni interiori, ma quali demoni poi che sono sempre stato una tavola di pietra? Io coi miei demoni non ci ho mai voluto parlare, volevo solo fare innamorare la ragazza che mi piaceva. E invece niente, mi sono reso conto che c’era molto più di me che di lei in quello che scrivevo, di getto, senza esperienza o conoscenze, c’era tutto quello da cui ero sempre scappato e di cui per anni ho negato l’esistenza. I miei silenzi, l’apatia, l’odio per me stesso che tornava inesorabilmente in ogni canzone. “Perché ti vedi così Marco? Non sembri quello di cui parli nelle tue canzoni”, è una domanda che mi è stata fatta, come dissentire? Mi sono sempre sentito un impostore a sentirmi triste, a comunicare questa tristezza, improvvisamente ho avuto la conferma che anche chi diceva di conoscermi mi vedeva come un impostore, che diritto ho di dire a chi ho accanto, gente che soffre sul serio, “io mi sento triste”? Ma queste sono solo canzoni, posso fare quello che mi pare, no?
Improvvisamente la musica da “ora d’aria” emotiva si è trasformata in un’esplorazione alla cieca di tutto quello che è rimasto sepolto per anni, e questa cosa non è per forza una cosa bella, per me è importante si capisca, non credo aprire porte chiuse da decenni possa farci sempre bene, è giusto chiedere un aiuto ogni tanto, e farlo può essere come andare da un dottore per una polmonite, tutto il resto sono chiacchiere. Esplorarmi solo attraverso la scrittura e la musica a me ha fatto male, io avevo bisogno di un aiuto, entrare ogni volta a gamba tesa nella mia emotività senza una direzione mi ha ferito, che succede allora a quel punto? Succede che quelle due o tre cose che sono a scrivere si sono trasformate in file wav alla mercé di logiche di mercato discografico, uffici stampa, etichette discografiche, playlist e contenuti social, tutta roba che quando va bene ti fa sentire solo, ma quando va male ti senti un coglione, proprio come quando volevi ancora giocare coi tuoi amici. Volevo essere uno de I Cani e invece guarda cosa ho combinato.
Come ho accennato prima, nel 2020, la mia carriera musicale ha subito, come quella di molti e molte, un terremoto che ci ha portato a riprogrammare ed annullare tutto, questa cosa ha portato la musica al centro di ogni mio pensiero negativo, la musica come forma di autolesionismo, fino a trasformarsi in un dolore troppo forte per trasformarsi in un grido, tanto da doverlo spezzare con il dolore fisico. Un male oggi si è fatto grande insieme a me, fino a trasformarsi in qualcosa di così grosso da farmi perdere il controllo, mi sono sentito in dovere di trasformare questa sofferenza in qualcosa di fisico, segnando le mie mani, scavando nella pelle la mia richiesta d’aiuto, una supplica che sarebbe bastato fare a mamma, papà o a qualcuno di vicino a me.
Qui mi sono fregato; pensare che farsi aiutare rivolgendosi a qualcuno di specializzato non sia che un lusso è una delle stronzate peggiori che la vita mi abbia inculcato. Siamo tutti ipocondriaci ormai, arriviamo a googlare “Mi fa male il dito, per caso ho il cancro?” e poi pensiamo che tralasciandolo un malessere così grande, in continua trasformazione e crescita possa sparire con gli anni? Assumiamo più ibuprofene che consapevolezza di noi stessi e dei limiti della nostra energia mentale. Sicuramente il lavoro del musicista è un mestiere che tiene più a contatto con le emozioni di tanti altri, ma siamo altro oltre quello che facciamo. Sono riuscito a strapparmi via questo stigma, questa sensazione di essere sempre e solo un impostore, prendermi cura del mio cervello, chiedere aiuto, non è un lusso. Fumare, prendersi un animale, bere l’Ichnusa non filtrata o cambiare le corde della chitarra una volta a settimana, questi sono lussi.
Credo ci sia un problema enorme nel nostro Paese su questo tema. E non parlo solo della questione della totale mancanza di supporto sanitario (la questione dei 600 euro è una cazzata, è super cavillosa a livello burocratico, non accessibile a tutti gli psicologi e psicologhe, per esempio devono avere la partita iva da tot anni, e soprattutto copre un numero veramente ridicolo di sedute in un anno). Il problema è sicuramente nella verbalizzazione del tema, dell'informazione, nella comunicazione. Per anni non se ne è parlato. La legge che predisponeva la chiusura dei manicomi, è solo del '78. Significa che solo da una quarantina d’anni questo paese ha iniziato ad approcciarsi alla salute mentale con una prospettiva inclusiva e non discriminatoria. Non giudicante.
E improvvisamente negli ultimi anni, anche per via del covid, tutti parlano di salute mentale. E questo da una parte è un bene da una parte lascia spazio a enormi fraintendimenti perché forse, in alcuni casi, se ne parla anche in modo molto leggero, distorto e retorico. Stiamo iniziando ad abusare di certi termini come depressione, esaurimento, disturbi alimentari talmente tanto da sminuirli.
Ne parlano tutti, tutti ne hanno sofferto, ne soffrono o credono si soffrirne, poi però se ci parli sul serio, se gli domandi cose specifiche sul loro percorso la maggior parte di quelli che dice di soffrire di depressione non è mai andata in terapia, non ha mai intrapreso un percorso, spesso e volentieri per “non pesare troppo” sui propri genitori o perché “tanto già so cosa ho”, tutte cose che mi sono detto io in primis quintali di volte. Sente semplicemente di appartenere ad un sentimento di sfiancamento, disillusione e tristezza collettivo e generazionale. E chissà, forse tra 50 anni parleranno di un’epidemia depressiva che ci ha colpito tutti. Ma è importante che il problema venga riconosciuto e affrontato in modo giusto, io per anni l’ho ignorato, per anni ho pensato di poterlo autogestire e non è così. Non ci si salva da soli da questa roba.
Altro che bonus da 600 euro, andrebbero istituiti gli psicologi obbligatori nelle scuole, per studenti e docenti. I traumi vanno prevenuti, dove possibile, non curati. Se io a 12 anni avessi avuto qualcuno con cui parlare, qualcuno che mi forzasse a farlo , con gli strumenti giusti, se ci fosse stata la cultura all’ascolto e al racconto, adesso magari starei raccontando del mio ultimo disco sull’amore post adolescenziale non su come l’autolesionismo, la depressione e la bulimia sono finiti a forza nelle mie canzoni.
Ecco questa è una cosa che io veramente non ho scelto, quella di infilare nelle mie canzoni questa roba. Questa parte di me. Potrebbe sembrare un’operazione studiata a tavolino perché appunto è un tema caldo, ma in realtà arrivo anche un po' fuori contesto, in questo momento di ripresa, in cui tutti siamo tornati alla vita, ai concerti, alle cene, agli abbracci, quasi nessuno vuole sentir parlare di depressione. E come per il 2020, anche stavolta ho sbagliato i tempi.
Ma sul serio non ho potuto fare diversamente. La musica non mi ha salvato e non lo farà mai, è semplicemente la cosa più importante della mia vita da sempre, è parte di me, come lo sono i polmoni, le dita dei piedi e le mie lentiggini, e forse per questo non possono finirci dentro cose diverse da queste.
Intanto gli anni passano, le canzoni cambiano e il dolore prende una sua forma, ogni tanto riesco anche a confinarlo, osservarlo e toccarlo, ma tutto quello che mi interessa è tornare a giocare per un po’.
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L'articolo La musica ti salva la vita solo in Stranger Things di Moci è apparso su Rockit.it il 2022-06-21 14:20:00
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