C’è un filo rosso che unisce tutte le espressioni musicali partorite nei decenni e nei secoli alle stesse coordinate spaziali, raccontando la storia di un luogo e della sua musica. Si incontra con altri fili rossi, si ibrida, si mescola, si trasforma, non si arresta praticamente mai.
Il filo rosso della musica di Napoli, da qualche parte nel secolo scorso, ha iniziato a raccontare la musica contemporanea riletta alla luce del suono e della lingua partenopea: attraversa l’epoca di Raffaele Viviani e quella di Renato Carosone, il Neapolitan Power di Napoli Centrale e Pino Daniele, più generazioni di neomelodici, le posse e il reggae di Officina 99 e dintorni, il rap de La Famiglia, Co’Sang e Clementino. Oggi, con buona pace di chi si fa il sangue amaro a furia di confronti e paragoni col passato, questo filo è arrivato a toccare una nuova generazione di protagonisti dei palchi cittadini, eredi diretti o alla lontana di tutto quello che è venuto prima.
Autorevoli voci della critica locale hanno coniato il neologismo “newpolitana” per indicarla, qualcuno ha protestato perché “gnùpolitano” sarebbe più verace. Il gioco di parole, se non altro, va incontro alla difficoltà di trovare una definizione più strettamente musicale. Certo, dovendo trovare dei minimi comuni denominatori ci sarebbero la preferenza per il napoletano o per l’italiano dialettale, un background comune che pesca dalla tradizione musicale e lirica partenopea tanto quanto dal folk straniero e dal cantautorato indie, ma in realtà è difficile descrivere le coordinate musicali di un panorama vasto ed eterogeneo che trova il suo trait d’union in qualcosa di diverso dal sound. Per esempio nel fatto di essere davvero scena: al di là delle differenze stilistiche e spesso anche anagrafiche, i musicisti collaborano in collettivi e laboratori, sono spesso sul palco e in studio insieme per featuring, format di musica dal vivo o progetti discografici. Soprattutto, molti di loro hanno un pubblico numeroso e trasversale che li segue assiduamente in locali, centri sociali, teatri e piazze con un attaccamento che solitamente è riservato a realtà con una storia di vendite, presenza mediatica e diffusione nazionale ben differente.
(Daniele Sepe live. Foto via)
Uno dei progetti comuni di cui sopra è l’album “Capitan Capitone e i Fratelli della Costa”, grande successo del 2016 campano e candidato al Premio Tenco come miglior album in dialetto. Dietro il nome pittoresco c’è Daniele Sepe, sassofonista e guru della musica napoletana, sulla quale ha lasciato il segno negli ultimi quarant’anni saltando dalle tammoriate operaie degli Zezi, alla world music, passando per i 99 Posse, il jazz e tutte le contaminazioni che ci sono in mezzo. La ciurma che ha assemblato, invece, è una specie di supergruppo che riunisce alcuni (in realtà molti: in studio più di 60 musicisti) dei protagonisti della nuova e nuovissima onda napoletana in un viaggio surreale fra Napoli, i Caraibi, Omero, la cultura rom e gli aperitivi alternativoidi. Scorrendo la tracklist del disco si fa la conoscenza di molti dei nomi fondamentali di questa sorta di new wave del folk campano, ad iniziare dai Foja.
I Foja sono un po’ il gruppo bandiera del panorama newpolitano: qualche anno fa sono stati la “storia nova” (come il titolo del loro primo disco) che ha aperto la strada a parecchi dei nomi che leggerete nelle prossime righe e di quelli che non vi hanno trovato spazio. I Foja sono entrati rapidamente nel cuore di molti, grazie ad una miscela di rock e folk che ha sfruttato a pieno le potenzialità della lingua napoletana e ad un’impronta vocale e lirica fresca e riconoscibile. Riconoscibile come anche il loro immaginario visivo, creato per loro dal fumettista e animatore Alessandro Rak (lo stesso dell'acclamato “L’arte della felicità”, la cui la colonna sonora è un’ottima antologia di questo sound), che li accompagna in copertine e video, ad iniziare da quello di “‘O sciore e ‘o viento”, struggente ballata di addii che è diventata la loro canzone-simbolo. A breve sarà in uscita il terzo lavoro dei Foja, “O’treno che va” a coronamento di un anno che li ha visti consacrati dalle folle (quasi esclusivamente indigene, però) di venue ordinarie e straordinarie come il Teatro San Carlo, che per la prima volta ha aperto il suo palco allo show di una band contemporanea.
Pochi brani più in là nella tracklist di “Capitan Capitone…” troviamo “L’ammore ‘o vero”, scritta da Gnut su testo di Alessio Solo dei Thecollettivo. Voce quasi sussurrata, romanticismo, una chitarra delicata ma ricercata; in questo pezzo molto amato dal pubblico troviamo tutto quello che, dalla pubblicazione del primo disco “DiVento” fino all’ultimo ep “Domestico”, ha fatto di Claudio “Gnut” Domestico uno dei songwriter di punta del cantautorato folk napoletano, ma anche uno di quelli che è riuscito a farsi apprezzare di più in altre città dello Stivale dove ha un piccolo ma affezionato pubblico, soprattutto nella raffinata versione trio, con Daniele Rossi alla tastiera e Mattio Boschi, già con i Marta sui Tubi, al violoncello.
Parlando di cantautorato all’ombra del Vesuvio, sarebbe grave dimenticarsi di Francesco Di Bella. Con i suoi 24 Grana, soprattutto quelli del penultimo disco “Ghostwriters”, Di Bella ha tracciato una via che tutti quelli che oggi raccontano Napoli in musica stanno (chi più e chi meno) seguendo. Racconto in cui si inserisce a pieno merito anche il recente “Nuova Gianturco”, primo disco di inediti da solista e fra le migliori uscite locali dell’anno. Del rapporto di Francesco con il nuovo folk napoletano, fatto di ospitate dal vivo e featuring in studio si parla ampiamente nella nostra intervista.
Tartaglia&Aneuro, quintetto eclettico con le radici piantate in folk, rock e rap, è un’altra ragione sociale che da qualche tempo riscuote un ottimo successo di pubblico. Forse grazie, più che al recente album d’esordio “Per errore”, alle energiche esibizioni live e al successo di “Le Range Fellon”: la canzone, contenuta in “Capitan Capitone...”, ha un testo in grammelot franco-partenopeo e un ritornello micidiale che difficilmente si tolgono dalla testa, ed è stata un vero tormentone locale nei mesi scorsi, oltre che candidata come miglior canzone singola al Premio Tenco.
Sempre a proposito di dischi d’esordio, tra i più degni di nota della stagione passata ci sono sicuramente quelli di Tommaso Primo e di Giglio, non a caso anche loro fra i candidati alle targhe Tenco (rispettivamente nella categoria album in dialetto e album dell’anno).
Tommaso si fa notare giovanissimo su YouTube con il singolo “Gioia” nel 2013, tre anni e una lunga serie di concerti e di collaborazioni varie dopo pubblica il primo lp “Fate, Sirene e Samurai”; un buon disco pop, che parla napoletano ma che già dal titolo dichiara di guardare più in là, verso i ritmi sudamericani e caraibici ma anche verso l’immaginario orientale che ci arriva da manga e anime.
Qualcuno forse ricorda, invece, The Gentleman’s Agreement, un gruppo che soprattutto con l’ultimo lavoro “Apocalypse Town” aveva dimostrato di essere uno dei progetti più interessanti in Campania. Non so quale destino aspetti quella formazione, ma intanto il loro frontman Raffaele Giglio si è trasferito ai Quartieri Spagnoli e da lì all’abbracciare il napoletano e scrivere “Mamma Quartieri”, il passo è stato breve e proficuo: il disco è un ottimo esempio di quello che può essere la canzone classica napoletana riletta nella metropoli (semi)moderna e multiculturale di oggi. Nove brani che sono un’antologia di racconti musicati con gusto cinematografico, un occhio al teatro di Raffaele Viviani e uno a Nino Rota, di cui sono protagonisti gli abitanti dei vicoli, a volte personaggi ormai archetipici della mitologia napoletana, a volte nuovi protagonisti del palcoscenico delle strade.
A proposito di premi e candidature, uno che ne ha fatto incetta qualche anno fa è Giovanni Block (fra gli altri, Premio Siae/Club Tenco per il miglior cantautore emergente e Musicultura 2009) che quest’anno ha pubblicato “SPOT(Senza Perdere O’Tiempo)”, secondo album e primo interamente in napoletano. Block è comunque già da tempo uno dei punti di riferimento della scena cantautorale come uno degli ideatori del Be Quiet, creatura ibrida a metà fra il collettivo e l’appuntamento itinerante di palco libero. Indice di vivacità del clima musicale è il fatto che praticamente tutti gli artisti di cui stiamo parlando sono passati da progetti basati sulla condivisione di spazi e percorsi artistici come il Be Quiet, Camera d’Autore e La Locanda, giusto per nominarne un altro paio.
Una delle ragioni per cui non è semplice riassumere esaustivamente il fermento musicale che sta vivendo Napoli in questo momento: qui ci si è limitati a quello che può rientrare nella vaga definizione di “cantautorato” o “folk” e alla scena che ci gira intorno, ma anche così è impossibile non ritrovarsi una lunga lista di esclusi, per mere ragioni di spazio o perché meno vicini all’ambiente che si è creato intorno a questo sound.
Ma si può, invece, provare a fare qualche considerazione generale sul rapporto di questa temperie musicale con la sua culla. Anche perché, secondo qualcuno, rappresenterebbe una delle facce di un più generale momento di rivalsa culturale e sociale della città di Napoli, una sorta di rinascimento cittadino che ha fra i suoi epifenomeni il boom turistico degli ultimi anni e il fiorire di iniziative associazionistiche e di attivismo che qualcuno ha iniziato a chiamare “anomalia Napoli”.
Non è certamente questa la sede in cui discutere cosa e quanto ci sia di vero, né per affrontare gli ovviamente delicatissimi risvolti sociali e politici della faccenda; dal punto di vista culturale e musicale, però, si può dire senza troppa tema di smentite che oggi Napoli è una città più viva ed animata rispetto a qualche anno fa. Rimangono grosse difficoltà per i locali che vivono di musica dal vivo, per i musicisti emergenti che cercano spazi adeguati per esprimersi, ma in generale in città c’è molta musica e si suona molto dal vivo in locali, centri sociali, bar di ogni specie e dimensione e quando il tempo lo consente (spesso) anche nelle piazze. La cosa è in parte dovuta anche alla scena che si è cercato di raccontare in queste righe, che come si diceva in apertura muove una bella fetta del pubblico complessivo dei live in città e ha il merito, complici anche un rinnovato attaccamento alla cultura locale nei giovani napoletani e un inevitabile fattore “tendenza”, di aver avvicinato ai palchi e alla musica indipendente un target prima lontano da ambienti simili.
(Francesco di Bella)
Un ruolo di primo piano all’interno del panorama musicale napoletano che si traduce in primis in un elevato numero di concerti e progetti vari e che però, alla lunga, potrebbe avere delle conseguenze: probabilmente in una città con un pubblico ampio ma non illimitato esiste il rischio di sovraffollamento e di una sovraesposizione che non gioverebbe, alla lunga, neanche a chi ne è protagonista. Rischio che forse verrebbe meno se si investisse di più nel creare un pubblico fuori dai confini natii, affrontando la sfida di partire da un seguito spesso di varie misure minore che a casa. Sfida non facile, ma le potenzialità per superarla non mancano e l’ostacolo linguistico spesso è più apparente che reale: la storia, da Carosone a Clementino passando per Pino Daniele e i 99 Posse, lo dimostra facilmente.
Anche grazie all'attenzione di parte della critica di settore (avrete notato la ricorrenza delle parole “candidatura” e “Tenco”), che ha saputo guardare a Sud anche quando non si trattava di fare ironia facile sui neomelodici ad uso e consumo di un pubblico medio-istruito, diversi esponenti della galassia cantautorale (e non) hanno già messo in moto questo processo.
Alcuni in modo particolare: prendiamo ad esempio Flo, già voce in diversi dischi di Daniele Sepe, una vocalità fuori dal comune e due album all’attivo di cui l’ultimo, “Il Mese del Rosario”, candidato al Premio Tenco 2016 come miglior album in assoluto. Complice una scrittura ben radicata nel Meridione d’Italia ma che gioca sapientemente con suoni e lingue di tutto il Mediterraneo, Flo e il suo gruppo già da un po’ riscuotono un’ottima accoglienza di pubblico in tutta Italia e all’estero, oltre che un buon sostegno da parte degli addetti ai lavori (segnalato anche dalla presenza nella rosa dei vincitori di Musicultura per due anni di fila). In maniera simile Ilaria Graziano&Francesco Forni, che già prima di unire le forze per “From Bedlam To Lenane” avevano una vocazione particolarmente internazionale.
Anche il duo di polistrumentisti Blindur, probabilmente fra le proposte più originali e promettenti, è riuscito a portare il suo curatissimo sound neo-folk in giro per l’Italia e per mezza Europa prima ancora di dare alle stampe l’album d’esordio. Grazie alla vittoria del contest "Sotto il Cielo di Fred", il disco uscirà prossimamente per La Tempesta e vanterà la produzione di Birgir Birgisson, storico collaboratore dei Sigur Ros. C’è anche chi prova la strada dell’Ariston, come il cantautore di provenienza teatrale Maldestro, che è fra i finalisti di Sanremo Giovani 2017.
Dopo i fasti della trimurti 99 Posse-Almamegretta-24 Grana, gli unici nomi partenopei ad essere riusciti a imporsi sul panorama nazionale sono usciti dal rap o sono usciti fuori da Napoli prima di crescere (vedi Giovanni Truppi). Del resto, l’anomalia Napoli si manifesta anche in musica con la presenza di artisti con un seguito quantificabile in numeri a quattro cifre in Campania e a tre o due cifre in altre regioni, così come di musicisti del centro o del nord che si trovano nella stessa situazione scendendo a sud del Garigliano.
Forse è ancora presto per dire se da questa ondata uscirà qualche nome capace di inserirsi da protagonista nel circuito extra-campano, ma intanto tenete d’occhio le locandine dei concerti nelle vostre città, perché qualcuno ci sta provando e sa il fatto suo.
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L'articolo Newpolitan sound: la nuova scena musicale di Napoli di Sergio Sciambra è apparso su Rockit.it il 2016-11-23 11:35:00
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