Quella di Carola Moccia è una storia singolare, piena di nomi, forme ed essenze diverse. Quando La Niña è apparsa sulla scena, il commento più frequente era “Rosalía in napoletano”, e va detto che, per quanto riduttivo, era una tag line efficace per presentare il progetto agli amici, magari inoltrandogli il link su WhatsApp per dare un'idea. Comunque meglio di quel “Liberato al femminile” che ho visto rimbalzare su qualche social network, ma era – appunto – riduttivo.
I primordi del progetto La Niña erano un urban molto contemporaneo, con metriche prese in prestito dal rap, con un femminile forte, partendo spesso da immagini religiose o mitologiche, con una lingua che però veniva da altri tempi, un napoletano colto, lontano dallo slang del rap partenopeo. Crescendo, il pubblico de La Niña sapeva di avvicinarsi a un universo di racconti e storie perfettamente radicate non tanto nello stereotipo della città tanto raccontata e di cui tutti cercano di prendersi un pezzo, ma dell’essenza più autentica della napoletanità, quella che si può permettere di vivere l’identità senza necessariamente doverla ostentare.
Nelle release precedenti, il napoletano era quasi un dettaglio in lavori urban fatti benissimo, dove il principale segno di Napoli era la veracità come attitudine. Con l’uscita del nuovo album FURÈSTA, invece, La Niña si è fatta carico di un lavoro difficilissimo: scrivere delle canzoni che siano allo stesso tempo personali e collettive, contemporanee e senza tempo. E FURÈSTA sembra una collezione di canzoni atemporali, almeno nella struttura e nella composizione. Perchè se è vero che la forma-canzone-pop nasce a Napoli con Te voglio bbene assaje, tutte le forme precedenti e successive di scrittura, comunque sono passate di qua. Ed ecco canzoni di lotta, canti popolari intrisi di critica sociale, come se Raffaele Viviani volesse andare contro alla società della iperrappresentazione. Ma anche riflessioni sulla natura e un dialogo con gli animali o tammurriate come nella storia della musica popolare dell’intera regione campana.
Più che un disco di una popstar, sembra l’opera di una ricercatrice della scrittura e del suono della storia musicale campana, che ne raccoglie frammenti melodici, scale, melismi, l'uso della voce di un tempo e li affida al presente solo quanto basta per ingannarci. Spogliando le canzoni della parte urbana – in questo disco quasi assente se non nell’approccio alla produzione e negli effetti sulla voce con filtri, autotune spiazzante e riverberi ampi – queste canzoni potrebbero perfettamente venire da altre epoche, dalla canzone classica napoletana o dalla ricerca sul territorio della Nuova Compagnia di Canto Popolare o di Roberto De Simone, rivestita di modernità pop.
Tutto questo rimane accessibile all'ascolto: il tono serioso del pesante disco di ricerca è quanto di più distante da questo album e dall’intero progetto La Niña, che nella sua carriera non ha mai avuto paura di lanciarsi nel nazionalpopolare: ha duettato con Franco Ricciardi, Gemitaiz, Clementino, M¥SS KETA, BigMama – anche a Sanremo, cantando Lady Marmalade insieme a Sissi e Gaia – ma ha anche collaborato con Tosca e Peppe Barra e addirittura interpretato la protagonista in una fiction di Canale 5 con Massimo Ranieri, altro duetto in curriculum.
E come ha fatto con le cover la piccola enciclopedia di Ranieri – cinque dischi dal 2001 ad oggi prodotti da Mauro Pagani che rileggevano il repertorio napoletano dandogli nuovo splendore e tramandandolo – questo album fa lo stesso lavoro dimostrando come la scrittura e nella composizione della classica napoletana possono continuare a vivere, se necessario anche ribaltandone significati passati: Se la Guapparia di Libero Bovio, ad esempio, è la spacconeria, la street cred persa da un malavitoso per amore di una donna, nella canzone eponima di La Niña è l’aspettativa stereotipata sulla Napoli di oggi, amata da tutti, inquadrata da film, serie, videoclip e libri, ma protetta da pochi: «che mania, tutto il mondo vuole guardarla, ma quando muoiono a Scampia girano la testa dall’altra parte. Tarantelle e guapparie, questo vogliono: una puttana di compagnia che nessuno vuole sposare»
Altro aspetto fondamentale dell’album è la ricerca del corpo, dello strumento, del senso fisico di appartenenza: la cui copertina con il volto di Carola dipinto su un tamburello è icona lampante. Così come i tamburi suonati con i capelli, e il metodo quasi tribale di produrre le strumentali, tribale è l’uso delle voci sole, del coro di donne, per allontanare La Niña dall’essere solo moniker di una cantante e avvicinarlo a rito collettivo, per raccontare sì una storia, ma con dentro altre trecento, sottolineando spesso anche il contributo dell’”altra metà” del progetto, Alfredo Maddaluno, producer e art director ma altra metà anche degli Yombe, il duo danzereccio di una vita precedente di Carola Moccia.
FURÈSTA affonda le radici e le celebra, non prende un campione e lo innesta “usandolo” in un pezzo che vorrebbe essere una hit, ma parte da quelle radici per raccontarle, come ha fatto in tutt’altro contesto DtMF di Bad Bunny: è un disco moderno e anche un tributo alla terra, alla storia e al futuro, ed è il migliore modo di rendere omaggio alla Napoli senza pace. E oltre ad essere un disco bello, è anche un disco importante per la storia – grazie al cielo mai interrotta – della musica napoletana.
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L'articolo Con La Niña anche Napoli ha il suo "Debí tirar más fotos" di Marco Mm Mennillo è apparso su Rockit.it il 2025-03-27 10:59:00
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