"Nel periodo pre-Beatles dei primi anni '60, quando io iniziavo appena a conoscere la differenza tra rock e pop (uno conta, l'altro no), ogni rock 'n' roll band che aspirasse al successo doveva conoscere il classico di Ray Charles What I Say. Era bello perché faceva ballare e lo potevi suonare tutta la notte inventandoti le strofe man mano che ti ubriacavi. Infatti il livello di importanza di una band era basato su quante parolacce potesse infilare nel testo innocente del povero vecchio Ray. Se sul disco cantava cose accettabili per la programmazione radiofonica come 'guarda la ragazza con il vestito rosso - va avanti tutta la notte a più non posso' più la festa andava per il meglio più era alta la possibilità di arrivare a 'guarda la ragazza con il vestito rosa - le ho messo le dita nella cosa' o volgarità simili".
A parlare è Elliot Murphy, almeno trent'anni fa, su un vecchio editoriale che mi ha introdotto al mondo vizioso, profano, scabroso, del vampiro australiano chiamato Nick Cave. Il punto su cui Murphy andava a parare era che, nonostante la sua faccia da sberle, Nicholas Edward Cave è l'unico artista che, allora come oggi, prosegua la tradizione dei più grandi miti per quanto riguarda le trasfigurazioni dei modi e dei testi dell'universo rock.
Persino le vesti delle copertine, in cui posa con le scritte sul petto nudo o davanti a un piano a coda intento a suonare serenate a un gruppo di ragazzine di dieci anni, può far pensare a cose che avrebbe fatto il Re Lucertola (e Jerry Lee Lewis) anni prima. Nick scrive da sempre di scenari dal Paradiso e dal Inferno come Leonard Cohen e Lou Reed; schemi di rime che su carta non hanno senso ma poi suonano stra-bene su disco e canzoni con la parola “canzone” nel titolo (Hammer Song, Weeping Song, Ship Song, Mourning Song, Spinning Song, Witness Song…) come i vecchi folk singer.
Canta anche degli inni maledetti, come un Johnny Cash postumo. Non è un caso se molti altri album che piacciono a chi ascolta Nick Cave abbiano cinquant'anni almeno, scoperti a volte proprio grazie al trattino d'unione che a lui li lega a doppia mandata. Come non è un caso che abbia (avuto) un'influenza e un impatto trasversale per molti artisti di cui solitamente leggete su queste pagine.
Motivo per cui mi è venuto spontaneo interagire con quelli a me più familiari, leggendo con interesse l'ultimo libro di Massimo Padalino, La Ballata di Re Inkiostro (Odoya, 221 pagine illustrate) e poi con lo stesso Massimo che, dal canto suo, ha avuto modo di avvallare o no tutte (o quasi) le interessanti sfumature d'analisi venute fuori.
Il primo a venir dietro la mia riflessione è Paolo Benvegnù che prosegue: “Nick Cave è un grande maestro, ha portato una poetica antica, ancestrale, in un mondo che non riusciva e tuttora non riesce a vedere quanto è importante il passato in ciò che ascoltiamo adesso. E' partito dal gospel, dal blues e prewar-folk ed è arrivato in pratica alla musica classica, litanie e requiem, che è quello che sembra in buona sostanza faccia ora. Quando entro nei suoi brani ne apprezzo l'audacia oltre la poetica”.
Massimo si entusiasma per l'uso del giusto etimo: “L'ancestralità, assai bravo Benvegnù a usare questa parola, è tutta in quel doppio filo che lega l'australiano alla Bibbia e al suo Dio, vindice e incazzoso. Prendiamo Il libro di Giobbe, che è il simbolo della disputa dell'uomo con Dio. Se da una parte egli è l'uomo che , attraverso le sventure che Dio gli manda, alla fine diventa il modello del vero credente, dall'altra incarna invece la figura del ribelle, antagonista di Dio, uomo in bilico fra redenzione e perdizione. Nick ha imparato molto dalla Bibbia; ha imparato sopratutto che la Bibbia è il prototipo di ogni film western. Il deserto. La sfida. L'onta da pagare o fare pagare. La collera o la rassegnazione nei confronti del volere divino. Nick lo sa, e ne spreme con profitto, tutto il succo di cui ha bisogno per irrorare di linfa ancestrale le sue canzoni”.
Discorsi troppo complicati per sinapsi intorpidite da canzoni più intirizzite di voi? Ottimo, perché se c'è una cosa che a Nick Cave sembra riuscire al meglio è proprio quella di far lavorare il Gulliver di chi se lo trova davanti. È ciò che è successo a Enrico Molteni e Simona Gretchen. Il bassista dei Tre Allegri Ragazzi Morti ricorda: “Nick Cave era l'artista preferito di un mio amico da ragazzini. Io un po' lo capivo e un po' no: sinceramente mi sembrava un artista noioso. Poi a un Arezzo Wave, credo nel 2001, l’ho visto dal vivo. Era in fiamme: sudava, sputava, si dimenava sul palco come un ossesso. Era una summa d'energia nera, maligna, c'era qualcosa che non andava in lui, così come in me, ma era tutto bellissimo”. E di nuovo il divino: “Fu come essere presi a schiaffi da una divinità”.
Simona sa di non sapere, come molti di noi, ma ne subisce il fascino, come molti di noi: “Penso a Nick Cave come a uno di quei maestri di eleganza e stile che potrei contare sulle dita di una mano. Uno di quelli che dice che l'ispirazione non esiste e forse dice il vero, forse mente, o forse neanche sa di mentire dicendolo, per quanto ne è colmo. Cave e Warren Ellis sono sciamani contemporanei”.
Massimo ne conferma le impressioni e cerca di tranquillizzarli: “Nel libro sottolineo come siano due i Nick Cave, separati ma non così distinti. Il compositore e il performer. Il primo è un animale per metà istinto e per metà cultura, che sa di possedere una voce interiore possente e la veicola per mezzo delle buone letture nei suoi testi, fino a far perdere, in essi, ogni traccia di citazionismo. Poi c'è la bestia da palcoscenico. Scatenata ed oscena nei Birthday Party e con i primi Bad Seeds. Poi sempre più accovacciata in un nido interpretativo, all'apparenza innocuo, da crooner, professionale, che rende omaggio a tanti suoi eroi occulti, da Leonard Cohen a certo Bob Dylan”.
Allora mi torna in mente una vecchia intervista in cui anche Pierpaolo Capovilla parlava di questo progressivo rannicchiarsi interpretativo di Cave in termini non propriamente entusiasti (“Credo che A Box For Black Paul da From Her To Eternity sia uno dei suoi brani più riusciti dal punto di vista narrativo. Però mi fermo al Cave degli esordi, dopo l’esperienza The Birthday Party, forse fino la fine dello scorso secolo, non di ciò che ascoltiamo oggi e che non c'azzecca più nulla col passato”) ma a centrare il bersaglio di quanto in fondo sia bluff è Bruno Dorella: “Se Cave non è il diavolo in persona poco ci manca”.
E ancora: “Amo la sua capacità di stare vicino le più geniali teste di cazzo del nostro presente, ed essere comunque il capo. Esserlo con Hugo Race o Barry Adamson era già difficile. Ma portarsi in tour PJ Harvey per farle a cantare un pezzo, darle un bacio e salutarla, dire a Blixa Bargeld di fare il comprimario, o a Warren Ellis di fare il gregario. C'è sempre una spropositata quantità di talento, ego, magia e dannazione in Cave”.
Massimo annuisce: “Nel libro paleso qualche perplessità su certi passaggi della trilogia formata da Push The Sky Away, Skeleton Tree e Ghosteen, ma Nick è come un vulcano: alla superficie sembra che nulla accada, ma sotto sotto ribolle e l'impeto è sempre presente, anche in quell'oggi insieme a Warren Ellis, che è solo all'apparenza più pacificato”.
Nel mio leggere e indagare, Karim Qqru degli Zen Circus si è rivelato un ammiratore sfegatato di Rowland S. Howard, del quale può disquisire per ore di stile e strumentazione (“Non nascondo che il periodo con i Birthday Party rimane uno dei miei preferiti in assoluto del Cavernese. Le armonie impazzite che architettava con Rowland legavano benissimo con il loro fisico, l'asperità dei suoi lineamenti e le movenze che aveva sul palco: il risultato era un suono riconoscibilissimo e unico”), mentre Giovanni Fusco dei Gomma ammette i suoi seri problemi di dipendenza.
“Nonostante sia contro qualsiasi forma di idolatria mi ha portato a una sorta di devozione. Ho sempre pensato che lui sia in cerca di una trasformazione costante. E non parlo di un miglioramento, di una anabasi. Parlo della voglia di essere altro da vivere dal di dentro e salutare al momento giusto. Cosi Cave ci insegna che le canzoni sono imperfette, come gli esseri umani, e non si finiscono, si abbandonano”.
Teho Teardo e Cristiano Godano (che in un Rumore di dodici anni fa lo ha anche intervistato) mi parlano da persone più informate sui fatti. Il primo taglia corto: “Dato che collaboro da una decina di anni con un ex Bad Seed, direi che un certo effetto sulla mia vita e quindi musica c'è stato”; col secondo l'analisi è più ricca: “Parliamoci chiaro: sono 35 anni che amo Cave dell'amore di un fan per il suo beniamino. Ma il suo stile è piuttosto lontano dalle corde di Riccardo Tesio, e io non avrei mai potuto pretendere di spingermi in certi territori melodici come Nick ci ha abituato. In virtù di questa consapevolezza il mio songwriting ha cercato di volare oltre, non sempre riuscendoci. Inoltre io compongo con la chitarra, lui col pianoforte, e i risultati sono mediamente diversi proprio per le caratteristiche dei due strumenti”.
Massimo, da fan di vecchia data dei Kuntz, aggiunge: “Che Blixa e gli Einstürzende Neubauten rientrino fra le influenze, celate o no, dei Marlene, ad altezza primo disco, ci sta. Ma credo ci sia un posto speciale per Nick-l'oscuro, che canta il teatro dell'interiorità martoriata, spaccata fra luce e tenebre, a cui, innegabilmente, guardavano con una voce propria. Del resto, ogni personaggio di Cave rappresenta una faccia dell'Io. I Marlene Kuntz fanno lo stesso”.
Nonostante dal libro di Padalino emerge una mole impressionante di canzoni scritte da Nick Cave personalmente rammento solo due episodi coveristici a lui dedicati, gli altri forse li ho persi o non li ho conservati nei ricordi. Nel 2017 i Baustelle portarono in tour una nostra rivisitazione di Henry Lee. Francesco Bianconi lo ricorda come “un piccolo omaggio a un grande artista che è riuscito a essere artista a tutto tondo” e incalzato aggiunge: “Mi ha influenzato? Certo ma non da trasformare mai i Baustelle nei Bad Seeds, musicalmente almeno, esteticamente è un altro discorso, ma legato al mio passato”.
Marti invece ha fatto una cover di Into My Arms ricorda e dei suoi quattordici anni, della folgorazione grazie a una foto di “un ragazzo con i capelli sparati in testa che mi turbava” sul New Musical Express: “Credo che Cave, come Bowie e pochi altri siano esploratori che navigano in acque fuori dalle mappe tracciate, fuori dalla sicurezza, in bilico sul bordo della cascata e questo li rende unici come il loro viaggio. Cave è Ulisse e Omero assieme e sarò sempre in costante attesa di una sua nuova”.
Questo fa scattare Massimo: “È vero, e fu Aristotele a notare la relativa 'semplicità' della vicenda di Ulisse: un uomo vuol trovare se stesso e ci riesce solo dopo varie prove, viaggiando in lungo e in largo per i mari, ma anche nel proprio animo. Nick, a suo modo, è l'Ulisse. Perché il suo canzoniere si configura come un viaggio verso una meta a cui fare ritorno, più metafisica che fisica però, più letteraria che reale a ben vedere”.
Ovviamente non ci sono solo cuoricini. Chiamato in causa, Nicola Manzan mi risponde divertito: “Hai centrato in pieno il bersaglio, nel senso che penso di essere uno dei pochi a non esserne stato influenzato. Ho ascoltato un disco di Warren Ellis con qualcuno di cui non ricordo l'identità e visto qualche live, ma mi sento di dire che boh, non mi ha mai detto niente, sarà che i testi non riesco proprio ad ascoltarli, a leggerli, ad interessarmene. La musica sì, a tratti è bella e piacevole, ma non mi viene mai voglia di ascoltarlo o approfondire, nonostante il successo, specie tra colleghi e addetti ai lavori”.
Gli fa eco Federico Fiumani con un serafico: “A me lui non piace affatto e non saprei quindi cosa dire”. Massimo non si scompone: “Nick piace a molti. E a molti sta sul cazzo. Così com'è giusto che sia. Dopotutto, l'artista emette onde artistiche particolari, che sono recepite solo da alcuni tipi di antenne. Piuttosto, con Siberia dei Diaframma, Fiumani può “non dire” quel che vuole. Ci vorrebbe un articolo come questo per lui, sull'importanza che ha avuto lui nella musica italiana”.
Verso al fine della lettura, quando mi rendo conto dell'incredibile osmosi tra le analisi di Massimo e le scelte stilistiche e fotografiche di Odoya (“Io scrivo. Loro editano e fanno il resto. A ciascuno il suo, senza divismi e cazzate da artisti incompresi”), anche quando non si può piazzare la solita foto vista già miliardi di volte, perché il discorso si inerpica su argomenti altri, dalla letteratura allo Zen passando per tanto cinema, mi passa in mente una domanda: “Chi sa che ne pensa Carlo Verdone di Nick Cave?”. Verdone come amante della musica e come regista che non ha mai celato questa fissa, come sceneggiatore di film dal retrogusto umbratile che un po' riprendono le robuste dosi di humor sottocutaneo a contrasto nero di Cave, ma anche come inviato di Repubblica sul finire degli anni '80 sullo yacht di David Gilmour. Così gli scrivo.
Dopo qualche giorno, arriva la risposta: “Se penso a Nick Cave non posso fare altro che collegarlo al bellissimo film di Wim Wenders, Il Cielo Sopra Berlino. È un vero peccato che sia conosciuto solo da una cerchia ristretta di intenditori e non ne verrà capito il peso neanche da postumo. Molto credo sia attribuibile al comune intenderlo come un artista buio e plumbeo, sinistro e angosciato, sempre più vicino al recitato che non al canto. Quasi al narrativo. Che poi è un po' la condanna per tutti quelli come lui, da Luigi Tenco o a Scott Walker”. Già, ma sai che bello sarebbe poter chiedere a uno come Tenco un parere su Nick Cave...
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L'articolo Il miglior rock italiano è figlio di Nick Cave di giorgiomoltisanti è apparso su Rockit.it il 2021-03-09 14:24:00
COMMENTI (5)
E non vanno dimenticati i mitici GarageVentiNove, colonna dell'underground da ben prima della maggior parte dei progetti citati (non tutti dello stesso valore, va detto)
Bella articolo
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soundcloud.com/ilrumoredell…
Lasciamo qui il nostro omaggio al Re