Una cosa va subito detta: accostare i due concetti, ancor prima che i due termini, ovvero quella cosa ampiamente detta post-hardcore e ambient, potrebbe sembrare di primo acchito un ossimoro. Ci son molteplici ragioni in merito. In primo luogo c'è una vistosa riluttanza da parte dei musicisti stessi ad essere accostati alla definizione ambient, nella misura in cui si restringe tale definizione ai liquefatti retaggi progressive e al minimalismo esacerbante che ne caratterizzano alcuni degli stilemi sonori, e limitando così il genere a un paio soltanto dei suoi possibili profili udibili. C'è poi una ragione, così potremmo dire, di “grammatica espressiva”: il concetto di post-hardcore, soprattutto nelle sue prime declinazioni, applicabile tanto ai Fugazi, quanto agli Shellac, tanto ai Cap n' Jazz, quanto per dire, ai Drive Like Jehu, nasce con il tratto caratteristico di formazioni dedite a una veicolazione elettiva di contenuti concreti ed, per dirla con un termine fastidioso, emozionanti, posti in primo piano rispetto a ogni qual si voglia sovrastruttura squisitamente “colta” di un brano.
Questa scelta si pone in aperta contrapposizione al radicato snobismo del tradizionale repertorio ambientale, infarcito di solipsismi, discrezioni, gradualismi, sensazioni e sensazionalismi. Tra le influenze vengono nominate sia realtà krautrock come Can e Neu, così come le colonne sonore di Morricone ma non l'ambient. Tutt'al più il field recording, oppure la drone music, ma non l'ambient. Significativo ciò che disse Steve Albini in un'intervista a Marc Jannot sul Chicago Magazine del ottobre 1994: “Ho letto Simon Frith, il suo Il Rock è Finito, dove dice che tutte le persone fino a trent'anni possono diventare Brian Eno, dopo i trenta chi insiste è uno stupido. A me di essere come Brian Eno non è poi mai interessato. Ho fatto di meglio: ho formato gli Shellac”.
Capirete quindi la sveglia che ci è arrivata alla notizia che Nicola Manzan, mente da oltre quindici anni dietro il progetto Bologna Violenta, una delle rappresentazioni post-hardcore di casa nostra più incline al noise-rock, quando non direttamente al harsh-noise, stava per far uscire un disco a suo nome, questo, di ispirazione palesemente ambient. Oddio, qualcosina era emerso dall'ultimo Bancarotta Morale (2020) ma poca roba se qui si parla di trasporre in musica le cartelle cliniche di alcuni ex degenti del padiglione Lombroso, nel ex Ospedale Psichiatrico San Lazzaro, a Reggio Emilia. Dopo averlo ovviamente visitato, neanche a leggerlo nel press-kit. Cosa non da poco, visto che per quasi un secolo il padiglione è stato un luogo di tormento e costrizione, e ancora rievoca la particolare atmosfera che lo ha caratterizzato per tantissimo tempo.
Certo di questi tempi, chiusi nelle clausure delle proprie case o dei propri studioli, non è strano fare uscire progetti strumentali (cfr. Black Scenario Vol 1 dei Morgue Ensemble alias Simone Salvatori degli Spiritual Front) o affidare la propria musica a luoghi insoliti e caratterizzanti, se disabitati anche meglio (cfr. Ventotene e Santo Stefano nella raccolta Visto Per Censura dei Contrasto), ma tra tutte le proposte La Città del Disordine, in uscita il prossimo 7 maggio, da l'impressione di essere la più concreta, la più autentica, la più adulta, sicuramente la meno - passatemi il termine - raffazzonata o figlia delle circostanze. “L’idea nasce dal progetto Ispirazione Museo promosso dai Musei Civici del Comune di Reggio Emilia e AUSL Reggio Emilia / Biblioteca Scientifica Carlo Livi, pensato per il Museo di Storia della Psichiatria - mi sintetizza lo stesso Nicola - con l’obiettivo di valorizzare una delle sedi più emblematiche della Rete museale civica, ovvero il Museo di Storia della Psichiatria, attraverso la produzione di un'opera musicale dedicata, in collaborazione con un editore della scena musicale indipendente”.
Sul perché si siano rivolti a lui è presto detto: “In pratica è un disco con musiche ispirate direttamente alle cartelle cliniche dei pazienti che lì hanno soggiornato. Mi hanno fornito le cartelle cliniche di 17 pazienti ricoverati alla fine del 1800 e ne ho scelte otto da mettere in musica. La Biblioteca Scientifica Carlo Livi, che conserva l’archivio del manicomio, ha più di centomila cartelle cliniche, ma la responsabile (giustamente) mi ha fornito quelle che sono state ritenute le più complete, o le più interessanti, o le più conosciute”.
Ci sono storie come quella di Carolina D. dove i pizzicati si fondono con un tema malinconico, ritenendo essa stessa di non esser malata, quindi vedendo il suo ricovero come una ingiusta condanna, con un finale, triste e lento, che ci ricorda gli anni in questa condizione di ricovero forzato; ma c'è pure quella di Concetta G., unico brano simile in qualche modo a quello che fatto con Bologna Violenta, epurato da ogni accenno provocatorio o grottesco e tanto meno sarcastico. Perché se Bologna Violenta sembra abbracciare da sempre, in maniera più o meno diretta, il sentiero della mano sinistra, ovvero la parte luciferina e/o diabolica e/o crowleyana della narrazione del reale, La Città invece sembra più vicino al sentiero della mano destra, soprattutto nei tratti del rispetto del libero arbitrio altrui e di ogni forma di vita, nonché della fragilità come valore costitutivo dell'essere umano, per non parlare della disciplina della mente o dello sviluppare una coscienza di Sé attraverso la liberazione dai condizionamenti mentali.
Non vi aspettate quindi svolazzi psicotici alla Christopher Komeda perché non ve n'è traccia. Nicola però qui si fa umile, o forse solo più realista, e mi modera: “Mi sento di dire che forse ti sei spinto un po' oltre, ma non così lontano dalla mia idea, che era quella di ricreare e di restituire un'immagine che fosse la più umana possibile, senza andare a cercare il lato più orrorifico della faccenda. C'erano persone che venivano ricoverate per quelle che oggi sono considerate “semplici depressioni” e che poi passavano anni rinchiusi in manicomio, non riuscendo a trovare una reale via d’uscita alla loro condizione. Penso al caso di Arturo A.. Quindi sì, in questo disco c'è il mio tentativo, spero riuscito, di dare dignità alla vita di queste persone che erano diverse e che forse in molti casi, con terapie farmacologiche e assistenza psicologica, sarebbero riuscite a superare i problemi mentali senza un soggiorno in un luogo così duro. La loro diversità era spesso l’espressione della loro fragilità; se questa condizione spesso poteva portarli ad essere 'un pericolo per sé per gli altri', in alcuni casi questo non succedeva e la reclusione nel manicomio non poteva che enfatizzare i lati più fragili, rendendo la loro vita decisamente triste e buia”.
Ne viene fuori così un lavoro che non è semplice esercizio di stile e che quindi supera con facilità il concetto (stereotipato) di musica ambientale, pur essendo profondamente imperniato di/in un luogo. A tratti sembra di essere al cospetto della musica perfetta per la lettura di un libro di Saramago, come Cecità, per dire. “Penso che in alcuni punti il mio disco sia decisamente didascalico, come nel caso di Isabella Z. M., in cui un carillon suona la marcia nuziale di Wagner che riporta di sicuro alla mente un matrimonio, mentre in altri è molto descrittivo, cercando di suggerire all’ascoltatore il carattere dei pazienti, la loro vita fuori e dentro al manicomio, contraddistinta a volte da una profonda tristezza, o dalla serenità per una guarigione raggiunta”. Nel booklet del disco ci saranno le storie degli otto pazienti raccontate brevemente, seguendo spesso lo schema compositivo dei brani mentre “A livello grafico – mi svela Nicola - avevo molto materiale d'archivio e abbiamo cercato di inserire molte immagini dei luoghi, delle opere artistiche dei pazienti, le loro foto e degli estratti dalle loro cartelle cliniche”.
Avviandoci verso la fine della nostra chiacchierata ammetto che una cosa mi ha sempre colpito nel mondo della musica: l'ipocrisia di come la stranezza e la pazzia siano sempre visti come pregi, tutti sono matti, tutti indistintamente sopra le righe, quando però poi si ha a che fare con il matto vero, da Daniel Johnston a Wildman Fisher passando per Tiny Tim o Yonlu, non frega più niente a nessuno e anzi vengono anche derisi. “Beh, non posso che darti ragione. E non mi sento per niente a mio agio con un determinato modo di rapportarsi ad artisti come quelli da te citati: quando ho avuto modo di ascoltare la loro musica e di capire come venivano visti da una certa fetta di pubblico ho provato del sincero imbarazzo nei confronti di chi si prendeva gioco di loro, di chi, magari pur intuendone e magari apprezzandone le doti, non ha trovato di meglio da fare che in pratica schernirli, trattandoli più come fenomeni da baraccone che altro.
E ancora: "Ho sempre l’impressione che di base ci sia il pensiero 'meno male che è successo a lui e non a me, però dai, anch'io a mio modo sono pazzo, anche perché lo ascolto e lo apprezzo, quindi alla fine gli sto dando dignità anche se lo sto prendendo in giro'. Mi mette molta tristezza questo modo di fare. Bisognerebbe focalizzarsi più sull’opera in sé, non sulle problematiche personali dell’artista. La malattia mentale può portare a un punto di vista interessante ed intrigante, ma va rispettata in quanto tale”. Forse è proprio per questo che candido mi anticipa: “Vorrei che i concerti avessero un carattere sobrio, senza una spettacolarizzazione dell’argomento trattato, magari semplicemente fornendo agli spettatori le guide all’ascolto dei brani, per far sì che la loro attenzione sia focalizzata sulla musica. Se poi vorranno comprare il disco, potranno farsi un'idea ancora più precisa di quella che era la vita nel manicomio”. Non ci resta che aspettare.
---
L'articolo L'ospedale psichiatrico musicale di Nicola Manzan di giorgiomoltisanti è apparso su Rockit.it il 2021-04-23 08:57:00
COMMENTI (1)
L’ascolto di quest’opera presuppone rispetto ed attenzione..e non è poco