Andrea Visani non sa che l'ho già intervistato, nemmeno troppo tempo fa. Ora lo scoprirà, e immagino che non gliene fregherà nulla. L'ultima volta – con tutte le difficoltà di chi ha scelto di non indulgere mai nella nostalgia quando fa musica – avevamo parlato del disco che compose 25 anni prima, quando ancora si faceva chiamare Deda e con il socio Giovanni Pellino detto Neffa fece la cosa più bella mai fatta nel rap italiano. Adesso – trovandolo decisamente più a suo agio – sto per chiedergli come nasce e dove lo porterà Deserto, le 18 tracce che un mese fa ha pubblicato assieme al collettivo Oké per Original Cultures.
A questo nome, oltre ad Andrea (percussioni elettroniche e sequencer), rispondono William Simone (batá, congas, percussioni elettroniche, FX) e Andrea Calì (rhodes e synth). Quella di Oké è una cosa molto bolognese, ma dai portici il loro sguardo si allarga non di poco. Tra i brani di Deserto – 16 inediti più Il Venditore Di Elastici, tratto da Rosso Napoletano, album fusion di Tony Esposito del 1974, e A Night In Tunisia, standard anni '40 di Dizzie Gillespie, caricato a millecento di groove per l'occasione – ci sono echi che arrivano da ogni latitudine, ma è Nord del continente africano, tra le sue tribù e i suo "serir", che pulsa il cuore di questo disco, disponibile in digitale e in splendidi vinili (qua le info).
I suoi suoni sono quanto di più analogico possa offrire oggi il digitale, un mix prepotente di "library music, cosmic jazz e afro-house". Dice tutto, senza dire nulla che si possa comprendere fino in fondo, la frase dello scrittore americano Keith Miller usata come epigrafe: "A forest is mystery but the desert is truth".
Merito anche delle collaborazione di cui si avvalgono i tre, una band nata per portare dal vivo i propri ritmi in serate che non finiscono mai e che ora si ritrovano costretti a fermare la propria musica su fisico e digitale, e lì tenerla almeno per un po'. Tra i feat. Venus Rodriguez, Nico Menci, Pasquale Mirra, Davide Angelica, Salvatore Lauriola, Valeria Sturba. Tra loro super musicisti della scena jazz emiliana, che riportano a casa un album che è fatto per farci volare via.
Questa, d'altra parte, è da sempre una delle missioni che si pone Original Cultures, la label che pubblica la release. OC – i cui fondatore e animatori stanno tra Bologna e Londra, ma con il cuore un po' anche a Essaouira – è ben di più che un'etichetta: è un ambizioso progetto non-profit nato nel 2008, con l'obiettivo di connettere tra loro diverse realtà e diversi ambiti artistici (dalla musica alle arti visive) e che in questi anni ha dato vita a iniziative folle, cosmopolitiche e infine fighissime.
Una filosofia con cui si trova da sempre parecchio bene Andrea Visani, che da un pezzo non è più Deda e che molti conoscono con un altro nickname: quello di Katzuma, con cui da più di 15 anni va in giro a suonare tutto ciò che è black music – di cui ha una collezione di vinili abbastanza spaventosa –, dal funk al jazz, fino a disco music e house. Non è un caso se molte delle soddisfazioni di questa "seconda fase" della sua vita siano venute dall'estero, con la pubblicazione dei suoi lavori in Canada, in Giappone e in Inghilterra e le collaborazioni con padrini dei mix come Al Kent a John Morales.
"Stare dietro a più progetti mi aiuta a non annoiarmi. Appena una roba inizia ad avere troppa identità, tendo a cercare qualcosa di nuovo. È un modo un po’ dispersivo di dedicarsi alla musica, ma almeno continuo a divertirmi. Che non è poco", mi aveva raccontato la volta scorsa Andrea Visani (che qualche mese fa ha prodotto la traccia di Frah Quintale La calma). Ora gli muovo qualche domanda su Deserto, seconda release a nome Okè dopo l'esordio nel 2016, chiedendogli di portare i miei complimenti anzitutto a Andrea Casciu, autore degli artwork che rendono ancora più prezioso un disco che è un viaggio entusiasmante in tempi in cui persino la gita fuori porta ci pare un sogno.
A volte ho la sensazione che la gente si infastidisca quando si parla di "world music". In questo caso la definizione ti sta bene?
Direi di sì. Se pensi il concetto di “world music” come musica globale che prende ispirazione da luoghi diversi, credo che possa funzionare per inquadrare Deserto. Però nel disco ci sono sonorità abbastanza differenti tra loro: momenti tipo colonna sonora barra library music, robe più afro-house e altre ispirate al jazz elettrico degli anni '70.
Fare world music mentre siamo tutti in casa nostra e l'orizzonte è il supermercato lungo la statale assume per te un significato particolare?
Devo ammettere che avere un’opinione sulla situazione attuale mi riesce abbastanza difficile. È chiaro che questo periodo ha avuto un impatto negativo gigantesco sul mondo della musica in generale. Non potendo fare i live, la fruizione della musica diventa una faccenda solo individuale e quindi impoverita. E il 99% dei musicisti ne sta pagando le conseguenze, non solo in termini economici. Anche un progetto come “Oké”, che nasce come esperimento live, ne risente tanto. Mentre finivo Deserto pensavo a che bomba sarebbe poterlo portare dal vivo, magari con una formazione allargata di 5 o 6 persone.
So che i pezzi nascono da delle specie di jam infinite tra voi, a cui segue poi un lavoro di produzione tuo abbastanza enorme. Ci racconti un po' di questo processo?
Spesso partiamo da delle sessioni di improvvisazione, da cui otteniamo un pò di elementi, che poi io uso come se fossero dei sample. Poi quando la traccia ha preso forma, se serve aggiungiamo parti nuove o rifiniamo quelle esistenti, magari chiamando ospiti e amici a collaborare. Dopodiché io applico nuovamente questa formula al contrario, incrocio le dita e vedo che succede. (ride)
Dove hai imparato a lavorare così? È un modo che ti piace in assoluto o hai fatto di necessità virtù?
Produco coi campionatori da tantissimi anni. Quando ho iniziato a fare le cose di Katzuma, attorno al 2005, la mia idea era portare questa tecnica all’estremo, campionando da decine di tracce diverse per ottenere un brano totalmente nuovo. Questa è stata una palestra perfetta per imparare ad arrangiare e a sfruttare i vari suoni che avevo a disposizione.
C'è qualcosa di attuale che è stato fonte di ispirazione per il tuo lavoro?
In questo istante sto ascoltando una traccia intitolata Giraffe di Zepp001. Stamattina mentre venivo in studio ho ascoltato Horace Silver, poi l’ultimo disco di YG. Spotify è un parco giochi. Per quel che riguarda gli ascolti che hanno influenzato Deserto: un sacco di musica africana e molta library music.
Dovessi dire il posto del mondo che musicalmente ti ispira di più al momento?
La Silicon Valley con gli esperimenti di intelligenza artificiale e musica.
Da cosa derivano i titoli delle canzoni? Come nascono le immagini e i riferimenti geografici?
I titoli sono l’ultimo dettaglio. Ed è un operazione che trovo molto gratificante. Nel caso di Deserto, però, il concept era già chiaro mentre finivamo le tracce. Avevamo scelto una paletta di suoni abbastanza dettagliata e l’idea del viaggio tra dune di sabbia e oasi era chiara. Quando suoniamo dal vivo abbiamo spesso delle immagini proiettate dietro di noi, roba presa da documentari sulla natura: quindi per dare i titoli faccio un po’ un ragionamento inverso e mi immagino che tipo di immagini possano stare bene con una determinata canzone. Oppure c’è qualche elemento della traccia che mi sembra dominante, per esempio in Secret Baile of The Maharajas, in cui suoniamo il ritmo baile-funk brasiliano in un contesto cosmic indiano. Poi per gli ultimi brani a cui non avevo ancora dato un nome, mi ha dato una mano la mia ragazza che è un’appassionata di titoli (e vaporizzatori) come me.
Tu arrivi dall'hip hop, "pratichi" ogni tipo di black music e dance, mentre i tuoi soci arrivano dal jazz e dalla world music appunto, quasi musica popolare. Sulla base di cosa si trova una quadra?
Calcola che William, il percussionista, è un conoscitore di folklore cubano, ma anche di techno e in generale di tutta la musica che ha groove. E anche Andrea Calì ascolta un pò di tutto, oltre al jazz. Quindi alla fine ci capiamo quasi sempre.
Come è andata con la produzione per Frah Quintale, cosa ti ha portato a collaborare con lui?
Mi avevano colpito delle sue cose che avevo sentito in radio. Quindi quando ci siamo conosciuti, un paio di anni fa, gli ho proposto di fare qualcosa assieme. Poi sono passati i mesi, ma durante il lockdown lui ha scritto La Calma e abbiamo pensato di farla uscire in versione “live in studio”, visto che non ci era possibile incontrarci per rifinirla meglio. Prima o poi mi piacerebbe farne una versione remix.
Apprezzo molto la risposta che hai dato all'ultima domanda di questa intervista a SoundWall. Ti capita spesso di dire "che figata" sentendo una produzione italiana che passa alla radio (commerciale) oggi?
Guarda in realtà poi non è che ascolti così tanta radio. Comunque sì certo mi è capitato. Frah Quintale è un esempio, ma ce ne sono tanti altri. Però, visto che ti è piaciuta la mia risposta precedente, ne approfitto per contraddirmi. Trovo che dopotutto le radio – parlo ovviamente dei grandi network – in Italia abbiano mantenuto un attitudine abbastanza conservatrice. Il meccanismo della heavy-rotation domina ancora, tanto anche se si è spostato su cose un pò più urban e questo credo contribuisca ad appiattire la gamma di cose che vengono prodotte.
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L'articolo Oké, un'oasi di groove nel deserto di Dario Falcini è apparso su Rockit.it il 2020-12-10 10:58:00
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