(Gli Afterhours dal vivo - Foto da internet)
Gli Afterhours hanno suonato a Pordenone, era una delle prime date del tour di presentazione dell'ultimo "I milanesi ammazzano il sabato". Un concerto intenso, certamente non privo di difetti ma sicuramente emozionante. Anche questa volta ne valeva la pena. Maria Guzzon racconta.
Io e Betta abbiamo perso il conto di quanti concerti degli Afterhours siamo andati a vedere insieme. Oggi ci torniamo, il disco nuovo macina nel lettore solo da un paio di settimane, e di nuovo c'è anche il posto (quando mai in un palasport? e speriamo che almeno non si senta troppo di merda), e gli anni passati dall'ultima volta, e il ragazzo che mi accompagna. La maglietta invece è la stessa, quella con scritto che l'anima brucia più di quanto illumini. E per fortuna è ancora vero: si possono dire molte cose, ma non che gli After abbiano smesso di bruciare - anche se poi "Dentro Marylin" non la suonano e pescano soprattutto dagli ultimi tre dischi, anche se la formazione è cambiata, anche se Agnelli non fa lo stronzo, ringrazia spesso, sorride molto.
Il palazzetto di Pordenone è pieno per un po' più della metà, la scenografia è scarna (solo la sfilata di coltelli della copertina del disco disegnata su un telone in fondo), noi non siamo in vena di infilarci sotto al palco e alla fine ci sistemiamo ai piedi dei gradoni, di lato, si vede bene e si sta abbastanza comodi, che le settimane di lavoro ci portano al sabato sera già spaccati.
E loro iniziano ad ammazzare questo sabato esattamente come nel disco, con "Naufragio sull’isola del tesoro" ed "È solo febbre" in sequenza, pietre pesanti che smuovono l'ondeggiare di teste e di mani che applaudono forte. La prima parte del concerto prosegue compatta, tesa, i pezzi si inseguono senza sosta, quasi in un parallelo tra canzoni più o meno recenti - "Punto G" e "Tutti gli uomini del presidente" cantata da Dell'Era, "La verità che ricordavo" e "Pochi istanti nella lavatrice", trascinanti e rabbiose.
Speravo in un live incazzato, e va bene così, ma la carica che si accumula mi lascia una sensazione spiacevole, non trova sfogo, tanto che quando la tensione si scioglie nell'intro rarefatto della title-track dell'ultimo lavoro c'è qualcosa che non quadra del tutto, i nervi si sono tirati tropo e adesso bruciano come dopo una corsa, a fermarsi quando ormai avevi preso il ritmo. E se proprio c'è da trovare un difetto (una pecca relativa al concerto considerato nel suo insieme, che però ti viene in mente solo il giorno dopo mentre ci ripensi, e sul momento è solo l'ingarbugliarsi del respiro negli stacchi tra i brani, è avvertire un cambiamento d'umore) è proprio quello di non azzeccare sempre tempi e ritmi nella scaletta, che ha momenti altalenanti e spesso non conserva la capacità di emozionare anche quando la velocità cala. Si sente che alcune sfumature hanno ancora bisogno di rodaggio, come in "Tarantella all'inazione", che stasera forse è il pezzo meno riuscito. Si sente che è difficile mescolare registri diversi, passare da "Bye bye Bombay" all'ironia cattiva di "Tema: la mia città", anche se entrambe funzionano, e il pubblico sta al gioco.
Poi, si potrebbe parlare dell'impatto sonoro, potente a dispetto dell'acustica, di come sia tutto quasi sempre al posto giusto, scuro ma preciso, di fiati e violino - ombre che danno spessore al quadro - dell'ossimoro che rende incazzati e felici al tempo stesso, a gridare ma con un sorriso in volto. (Betta invece sdrammatizza sparlando del taglio di capelli di Manuel, delle scarpe e soprattutto della cintura -orribile! - e meno male che c'è lei, altrimenti anch'io la prenderei troppo sul serio).
Lo spettacolo è lungo, intenso. Sulle ultime note di "Orchi e streghe sono soli", finito il tempo degli accendini (sì, cazzo, ci sono anche quelli che sventolano fiammelle), comincia il solito rito: gli After abbandonano il palco, e partono applausi ritmati, richiami, tanto lo sappiamo che tornate fuori. E loro ci fregano. Ci spuntano alle spalle, in mezzo al pubblico, ci regalano una versione acustica dolce e tagliente di "Voglio una pelle splendida", non si incazzano se il ritornello lo cantiamo noi. Come il fidanzato con cui stai da dieci anni, di cui ormai conosci tutti i difetti, e non hai neanche più voglia di litigarci. Come se per la prima volta si ricordasse del tuo compleanno nel giorno giusto e si presentasse con un mazzo di fiori. E a te viene un groppo allo stomaco, nel renderti conto che 'sto disgraziato riesce ancora a trasmetterti passione, tanto. E ti commuovi, anche se forse non ce n'è motivo (e non sai bene se ridere, abbracciarlo o prenderlo a sberle). È così che mi sento, e canto anch'io, assieme ai fan di vecchia data, ai ragazzini accalcati sotto al palco, alla famiglia con due bambine seduta dietro di noi sugli spalti. Senza un finale che faccia male. Immagino che sia questo, il finale.
Invece si prendono solo il tempo per attraversare il corridoio e tornano sul palco, per altre sei canzoni (fanno anche "L'estate", acida e dolorosa, una delle mie preferite). "Quello che non c'è" parte spiazzante, con l'armonica di Gabrielli, si gonfia cupa come un temporale e il cielo si apre nel delirio strumentale che conclude il pezzo e il concerto. A luci accese abbiamo tutti il viso stanco, anche gli After mentre salutano. Elisabetta mi rivolge uno sguardo d'intesa, che ricambio: non è solo un'altra tacca sul muro, anche stavolta è valsa la pena dei chilometri della pioggia e della fatica, è stato bello, "da copione", quasi troppo (potrebbe diventare un'abitudine, e come ogni abitudine conforta, spaventa, e un po' dà sui nervi). Guardo la gente uscire, aspettiamo prima di avviarci. Alla prossima.
---
L'articolo Afterhours - Palasport - Pordenone di Maria Guzzon è apparso su Rockit.it il 2008-05-17 00:00:00
COMMENTI (1)
Commento vuoto, consideralo un mi piace!