Paolo Benvegnù sapeva cosa vuol dire essere un artista

Il vuoto lasciato dall'improvvisa morte del cantautore si percepisce nel ricordo di tantissimi colleghi, amici e simboli di una scena che oggi non c'è più. Perché Paolo sapeva unire senza uniformarsi, dettando le condizioni per essere artisti davvero. Qualcosa che oggi manca non poco

Paolo Benvegnù in concerto a Santeria nel 2023 - foto di Starfooker
Paolo Benvegnù in concerto a Santeria nel 2023 - foto di Starfooker

C'è stato un periodo, tra la fine degli anni '10 del 2000 e l'inizio del decennio successivo, contraddistinto da una convulsa ricerca di auto-identificazione da parte della “nuova” scena italiana. Presentato come testo/manifesto de La nuova musica italiana, nel caso del singolo del 2008 dei Linea 77, e come simbolico salto nel vuoto, nel caso della celebrazione di Hai paura del buio? messa su nel 2009 e nel 2013, questo mondo era frequentato in gran parte da facce in giro da ¼ di secolo e che, tutt'al più, potevano aspirare a raggiungere l'ascoltatore più generalista, e non certo ricrearsi una credibilità ottenuta già sul campo, in alcuni casi dopo vent'anni d'onorata carriera.

XL, supplemento de La Repubblica con una tiratura di 500 mila copie, fu l'organo di stampa ufficiale di questa (come la chiamiamo?) operazione, ma poco o nulla cambiò nelle nostre vite e in quelle di tanti nomi coinvolti. In quello che fu a tutti gli effetti il viatico, o parte del viatico, per l'ingresso di Manuel Agnelli (unico, a conti fatti, ad averci ottenuto qualcosa in termini di notorietà, possibilità lavorative e forse anche forme di prosciutto) nel mondo della televisione, tra i volti più autorevoli, defilati e con i piedi saldi per terra, ci fu anche Paolo Benvegnù.

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Così, se da un lato scoppiettavano qui e lì dichiarazioni umili (“La musica italiana non è quella che sentite per radio, ma è quella che sentite ai concerti... per chi la sa fare!”) e umilissime (“In futuro si guarderà ai nostri dischi come adesso si guarda a certe cose di Battiato, di Dalla, o di De Gregori!”), Paolo, a chi gli domandava di questo manipolo di trenta e passa artisti a rappresentazione della Vera Nuova Musica Italiana, si grattava un sopracciglio, aggiustava i capelli bianchi arruffati, dava un tiro al suo sigaro e con mezzo sorriso rispondeva divertito: “Non posso accostarmi alla nuova musica italiana senza paragonarmi ad Ettore Scola quando, a 64 anni, veniva definito giovane regista emergente!”. E poi aggiungeva: “Piuttosto che chiedere a me come mi sento a fare parte della 'nuova musica italiana', bisognerebbe chiedere a certi addetti ai lavori come si sentono a essere codardi, senza alcun senso e fondamentalmente idioti!”.

Io, che mi ero affezionato a Benvegnù dieci anni prima, nel 1999, dopo avere letto un'intervista per l'uscita di Armstrong degli Scisma su Muzak (una delle tante riviste che ci siamo persi per strada), non potei fare a meno di ricordare che, quando ancora esistevano, proprio gli Scisma furono definiti da più parti “magniloquenti” e come fosse facile credere che non furono accettati o meglio, furono più amati dal loro pubblico che da certa stampa. Specie quella esterofila, pronta ad apprezzare ogni stramberia anglofona, prendendo invece in antipatia qualsiasi singolarità nostrana. E la band di Paolo e soci non si prestava certo a semplici definizioni, né avanzava poche pretese. Con un impeto sonoro che non aveva nulla da invidiare ai colleghi rumorosi, ma che altre volte strizzava l'occhio a certo pop sghembo e ipertrofico. Il tutto, ruotando attorno al contrappunto tra la voce di Paolo - già abile autore di testi spiazzanti, anche per l'impiego di un vocabolario molto poco rock - e quella di Sara Mazo. Riuscendo a creare piacevoli effetti di spiazzante straniamento in chi ascoltava.

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Perciò, quando nel 2003 si presentò l'occasione di recensire il suo debutto da solista, Piccoli fragilissimi film, mi sentii così in dovere di dare il mio contributo, affinché non si ripetesse il destino risicato degli Scisma, che non solo riuscii a recensirlo sulle pagine di Ritual e di Psycho!, ma feci sì che venisse preso come cavallo di Troia per recensire, su due riviste specializzate in altro, titoli che avrebbero potuto trovare alleati tra i lettori più brillanti ed eclettici.

Il che mi fa arrivare a un'ulteriore riflessione, più importante e che per questo vorrei condividere. Ho sempre pensato che ostentare tanti amici non sia sempre un bene, e che la nostra società sia solo in apparenza a favore a questa cosa, ma la consideri una sottile forma di ipocrisia tollerata. Un buon esempio mi sembrano i dischi interi gonfi di ospiti. Qui la parola "tanti" viene usato quasi come sinonimo di tutti e come sorta di avvertenza: “Attenzione, questo non è un artista come gli altri, non frequenta solo quelli del giro ma va preso per quel che è: lui conosce tutti”. Ecco, per me questo modo di intendere avere amici, è terribile, stupido e sbagliato, e non soltanto per i diretti interessati (che in certi casi sono consigliati male da un meccanismo più grande di loro) ma anche per l'idea dell'amicizia in generale.

Quando uscì Rosemary Plexiglas, il terzo album degli Scisma, primo non autoprodotto e pubblicato per EMI, la mano di Manuel Agnelli nella produzione si sente, ma non suona mai invadente. Quando Vasco Brondi pubblicò come Le Luci della Centrale Elettrica l'esordio Canzoni da spiaggia deturpata, non solo aveva Giorgio Canali in regia, ma era a contatto con altra gente del giro indie italiano ma, salvo per le dietrologie di qualcuno, la cosa non fu affatto determinante. La musica ci offre tanti esempi, così l'arte, la letteratura e il cinema. A Davide Manuli l'essere amico di Vincent Gallo non ha mai impedito di essere un regista indipendente, fatto di puro istinto pasoliniano e cassavetesiano.

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Prima di quella declamata "nuova musica italiana", appartenere o volere fare parte a una conventicola presieduta da un leader carismatico era roba da “Clan di Celentano” e proprio il clan di Celentano già ne aveva smascherato tutte le falle. Dall'inconcludenza alla disparità dei ruoli. Per questo Paolo Benvegnù, che allora aveva 45 anni, piuttosto che fare comunella preferì sfruttare all'occorrenza l'occasione per dire il proprio pensiero ma continuare il suo, facendo uscire 2 dischi in 2 anni: Dissolution ed Herman. Conscio che il passo successivo è proprio quello d'essere amico di tutti. E a nessun vero amico verrebbe in mente di definirsi tale.

Non solo, chiunque abbia buona memoria ricorda la fase dell'adolescenza in cui essere compagni di classe (che, a suo modo, è una scena) perde senso, e trovano valore altri dettagli identificativi: l'intelligenza, la personalità, la musica ascoltata e messa in circolo. Accomunare tutti sotto un unico cappello di artista (o di nuovo musicista) è tipico di giornalisti di cui io mi auguro di non fare mai parte e fastidioso come quando tua madre ti dice: “Vai a giocare con quei bambini, sono come te!”, ma tu lo vedi da lontano che sono diversissimi. Purtroppo, il mondo della musica in questo è un buon esempio dell'essere pessimi: agli artisti sempre più spesso non viene chiesto d'essere sconvolgenti, magnifici o sublimi; no, basta che conoscano qualcuno con abbastanza follower, perché abbia senso definircisi amico, o (nei casi peggiori) che lo conoscano solo quelli dell'etichetta.

Ed è qua, in questo momento del mio pensare, che ho notato quanto di peculiare è accaduto nei giorni successivi alla scomparsa di Paolo, avvenuta la sera di Capodanno nell'anno in cui le cose sembravano iniziare a girare, con una Targa Tenco per il miglior album (È inutile parlare d'amore) e la versione Reloaded di quel Piccoli fragilissimi film da cui tutto in un certo modo era iniziato: al di là di quelli sempre pronti a glorificare il defunto del giorno, più per la moda dell'artista che da trapassato diventa Santo e genio alla cazzo, si sono susseguiti molti ricordi di quelli che erano gli amici, formando uno spettro ampio che ha riportato in vita, simbolicamente, quella scena trasversale fino ai primi anni Zero che ho avuto la fortuna di vivere. Fatta di artisti, e basta: per i quali bisognava esistere alle loro condizioni, in un tempo del quale non sembravano far parte e volere ostinatamente fare parte. Fino a diventare un pezzo delle nostre vite - il lavoro, le tasse, la famiglia, i loro dischi, i loro concerti. Ovviamente Paolo Benvegnù tra questi era tra i più testardi e irremovibili, nonostante fosse un buono, un empatico, ironico e auto-ironico, sempre pronto a mettersi in gioco.

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L'articolo Paolo Benvegnù sapeva cosa vuol dire essere un artista di giorgiomoltisanti è apparso su Rockit.it il 2025-01-07 11:45:00

Tag: addio

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