“Non serve fare grandi proclami o dire troppe parole. Parlano già abbastanza le canzoni, perché dentro si trova chi c’era e chi ci sarà sempre. Viva l’Elisabetta!”.
Nel freddo secco e pungente di Pordenone, all'interno del Capitol, ex-cinema trasmutato da qualche tempo a stilosissima sala concerti, lo show definitivo dedicato ai Sick Tamburo e al loro senso di esserci, in un contesto musicale in cui uno stile personale è sempre più difficile da trovare, dura una notte sola, per la data finale del loro tour Back to the roots (Forse è l’amore). All'attacco senza un attimo di respiro, Gian Maria Accusani e soci, in classico completo nero e noto passamontagna perennemente calato in testa, sono il muro del suono e la tromba dell'apocalisse, che sta lì a ricordarci che il punk rock in Italia è ancora vivo e vegeto, anche all'interno del circuito posto più sul clinale indie.
In apparenza lontani, ma allo stesso modo ossessionati dal Tempo, dal Rumore, dalla vita di Provincia e dalle care Catastrofi, calcano lo stesso palco una serie di ospiti che sarebbe più appropriato definir amici, perché in definitiva questo sono e l'infinito numero di baci e abbracci sta lì a palesarlo a tutti: Tre Allegri Ragazzi Morti, Pierpaolo Capovilla, Motta, Roberta Sammarelli dei Verdena e Mellow Mood. A questi si aggiunge Jacopo, che di anni ne ha 12 e passa buona parte delle due ore di concerto a scatenarsi sul palco. Ma ci arriveremo.
Le motivazioni per cui sono tutti qui sono molteplici. Quella che gira nell'aria ma nessuno dice, per rispetto, per affetto, per quell'elaborazione del lutto con cui quelli come noi hanno sempre avuti un casino di problemi, è un caloroso e amorevole tributo alla mai dimenticata Elisabetta Boom Girl Imelio, il cui nome viene detto solo due volte in tutta la serata, sotto forma di un gioioso urlo: “Viva l’Elisabetta!”. Quella palesata è invece l'ultima data di un tour che ha visto i Sick sconquassare palchi di mezza Italia con una formula alle radici punk della questione, con una serie di versioni vitaminizzate dei pezzi della band. Perché, come giustamente ha detto Gian Maria, con le parole, in certi casi, ci si fa ben poco e l'unica verità è che se si è stati Sick Tamburo una sola volta lo si resta per sempre. Sopra il palco e sotto il palco. Perché se c'è una cosa che è emersa nel corso della serata è stata che come i Sick Tamburo – piacciano o meno – ci sono solo i Sick Tamburo ed è dannatamente difficile replicarli, anche se sembra estremamente facile. Come coi Ramones, ma a Pordenone. Fatemi eccedere.
Musica veloce, cogliere il tempo, innescare il detonatore, rincorrere il futuro fino all'esplosione. Chiedetelo a Davide Toffolo e a Francesco Motta, che si cimentano in Il fiore per te, il primo, e Meno male che ci sei tu e La mia mano sola, il secondo – in divisa Sick per poi smascherarsi divertito. Con di fronte una platea (la serata è sold-out e molti sono rimasti fuori speranzosi di entrare) di fan arrivati da mezza Italia con il loro variopinto ed estetico background musicale fatto di creste puntute, chiodi e t-shirt nere, felpe rosa Propaganda e cappellini con visiera, camicie di flanella a quadrettoni e jeans strappati, che si supportano di buon grado e si scambiano ritmo e rumore sotto un unico comune denominatore.
Così, tutto sommato, mi sa che deve essere stato un clash pazzesco anche per loro due. Un po' perché (si è visto che) senza la tenuta di Gian Maria a guidare il tutto chi sa dove sarebbero finiti entrambi. Un po' perché dai tempi dei rasta con i punk, l'idea ultra-mistica, fumettara e profondamente impolitica degli ospiti assurdi è l'unica in grado di ricomporre tribù agli antipodi. Ma bisogna avere il coraggio di farlo e farlo bene. Se no viene fuori una poracciata. Se no chiedetelo a Roberta, per una notte fuori dalla comfort-zone dei Verdena, com'è cimentarsi con le linee di basso di Oltre la collina o Quel ragazzo speciale. Dai sorrisi immaginiamo si sia divertita molto.
Ma quello che sembra essersi divertito più di tutti è Jacopo, il figlio di Elisabetta e vero protagonista del live. È il più figo di tutti: sale sul palco con Gian Maria e soci fin dal primo brano, Forse è l’amore, ovviamente anche lui con il balaclava a coprirgli il volto. si porta ogni volta dietro la sua asta del microfono, canta almeno metà dei più di venti brani della scaletta, incita il pubblico a battere le mani, salta, balla, fa roteare il microfono (Damiano dei Maneskin chi?), il tutto mentre i suoi compagni di classe probabilmente sono già a letto da un pezzo, visto che il giorno dopo c’è scuola. Ma vuoi mettere essere freschi per affrontare cinque ore di lezione e rinunciare a una festa come questa?
Dopo Un giorno nuovo, la band scende dal palco senza dire una parola, per lasciare spazio a Mellow Mood e Tre Allegri Ragazzi Morti, entrambe band pordenonesi come loro, e Pierpaolo Capovilla, che recita la poesia Lilicka (invece di una lettera), del suo mito Vladimir Majakovskij. Gli sbalzi tra il reggae acustico dei primi, le fiamme rock’n’roll per i loro fratellini dei secondi e lo struggimento del terzo possono stordire, soprattutto rispetto all’assalto spietato portato avanti dai Sick Tamburo nell’ora precedente, ma il senso è chiaro: qua c’è una famiglia allargata che si riunisce, esserci è di un’importanza vitale, perché trovarsi dentro questa ondata di amore che rimbomba tra le pareti dell’ex-cinema è un privilegio non da poco.
E questo risulta evidente sul finale, quando Gian Maria ritorna sul palco e chiama tutti con sé. Poche parole, dette con sincera gratitudine per chi ha voluto onorare questa festa pogando, urlando, agitandosi, facendo il casino giusto che serve in circostanze come queste. Non c’è tempo di lasciar scendere una lacrima che è di nuovo tempo di cantare. Tutti, insieme, in un momento dove la commozione lascia spazio alla baldoria: La fine della chemio. E il nodo che si stava stringendo in gola si scioglie in un coro liberatorio, pieno di vita e di bellezza: “Finché il sole si alza, non si muore, non si muore”.
Alla fine del live, Gian Maria passa a volto scoperto in mezzo al pubblico rimasto dentro al Capitol. “Sono ubriaco non di alcol, ma di stanchezza”, dice sorridendo. D’altronde nei due giorni prima di questa festa conclusiva ci sono state altrettante date, una a Bologna e una a Cuneo, e ha appena finito di suonare per due ore. Eppure è inarrestabile: lui si concede ai suoi fan con una generosità traboccante, abbracciando chiunque gli si avvicini per un autografo, una foto, anche solo una parola di stima. Forse è la botta di adrenalina di fine tour. Forse è il calore di essere tornati finalmente a Pordenone, a casa, e c’è il tempo per tirare il fiato un attimo. Forse, è l’amore.
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L'articolo Per sempre Elisabetta, per sempre Sick Tamburo di Giorgio Moltisanti e Vittorio Comand è apparso su Rockit.it il 2022-12-20 12:04:00
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