Per quanto possa sembrarvi assurdo, in questo preciso momento ci sono delle persone che si stanno guadagnando da vivere compilando delle playlist da pubblicare sui servizi di streaming musicale (il lavoro più bello di sempre, praticamente). Sono persone specializzate in curatela dei contenuti, strategie di marketing applicate allo streaming e ovviamente musica - professionisti che vengono sostanzialmente pagati dalle aziende per creare delle playlist che piacciano, che coinvolgano gli utenti e che riescano a dare un'idea quanto più possibile precisa e divertente dell'identità del brand che stanno riproducendo in musica.
Non è un lavoro semplice: per costruire una playlist che non necessariamente rispecchia i propri gusti personali ci vuole una discreta quantità di ricerca e di passione, per mantenerla e far sì che arrivi a più persone possibili ci vuole ancora più costanza. Ma una volta che la playlist o il canale diventa un punto di riferimento per gli utenti ed è seguito da migliaia di persone, si può rivelare uno strumento potentissimo. Una potenzialità di cui si è recentemente accorto anche il mondo della discografia più tradizionale (per capirci quella che fino ad oggi ha visto in Spotify e simili più un intralcio che uno strumento utile) che ha tentato di avvicinarcisi nella maniera più semplice possibile: con i soldi.
Il termine "payola" ha origine nei primi anni '40 e sta ad indicare la mazzetta che i discografici allungavano ai disc jokeys per suonare i brani del proprio catalogo: viene dall'unione delle due parole "pay" + "victrola", una marca di fonografi che evidentemente allora andava alla grande. Si trattava ovviamente di una pratica vietata, ma che in qualche maniera è sopravvissuta fino a giorni nostri. Niente di nuovo sul fronte occidentale, quindi: il mese scorso Billboard ha raccontato del ritorno di questo tipo di corruzione musicale rinominandolo "playola" proprio in onore delle playlist, il formato che sembra ormai aver scalzato l'album e il singolo nelle abitudini di ascolto degli utenti.
Secondo le fonti di Billboard, le etichette discografiche pagano circa 2.000 dollari per comprare una playlist con decine di migliaia di followers, fino a sborsarne 10.000 per quelle ancora più seguite.
(La playlist del presidente Obama su Spotify)
Ok, le playlist saranno anche il trend del momento, ma non avranno mai la popolarità di un programma in radio, o di uno spot che passa in tv. Allora perché le etichette discografiche sembrano determinate ad averne il controllo assoluto, tanto da comprare canali interi da curare su Spotify?
Uno dei motivi è legato alla rapidissima diffusione dei pezzi, perché le playlist online sono elementi che diventano facilmente virali: se a un utente piace una traccia ascoltata in una playlist di un personaggio o di un canale popolare, con tutta probabilità la inserirà anche nella propria, un suo amico noterà l'aggiunta e l'ascolterà - e così via in una catena potenzialmente infinita di condivisioni. Il secondo motivo è che comprare uno slot in una playlist popolare di Spotify è infinitamente più economico che comprarne uno nelle radio nazionali, e probabilmente può dare anche risultati migliori in termini di promozione su un target specifico.
Compilare playlist su internet è stato considerato finora un atto puro e non interessato, un'espressione genuina della nostra passione per la musica, un po' il corrispettivo contemporaneo di quando negli anni '80 si registravano le proprie canzoni preferite su una musicassetta per regalarle alle persone più care. Io stessa ho passato anni interi a confezionare dei curatissimi .rar (completi di copertine) da inviare ai miei amici per dare la giusta colonna sonora ad un momento delle nostre vite, a delle mode, a degli umori passeggeri. A volte le mettevo anche a disposizione del pubblico postandole sul mio blog. Se all'epoca quelle playlist avessero avuto un enorme successo e qualcuno avesse voluto offrirmi 10.000 dollari per ospitarle su un altro sito, o al servizio di un'azienda, avrei rifiutato? Probabilmente no, non ci avrei visto nulla di male.
Se la pratica del "playola" si diffonderà ulteriormente, per molti significherà l'ennesima ingombrante incursione dello sporco danaro nel mondo della musica, un mondo che vorremmo sempre indipendente e libero da qualsiasi logica di mercato. Giustissimo. Ma se guardiamo la questione da una diversa angolazione, potrebbe essere la prova che tutte le preoccupazioni legate alla diffusione di musica liquida che ci hanno perseguitato negli ultimi anni sono infondate, almeno in parte: la verità è che stanno nascendo delle nuove figure professionali legate alla musica in streaming, e di fatto ad oggi il playola è l'unico modo in cui un curatore può vedere retribuito il proprio lavoro.
Per regolamentare queste pratiche, qualcuno immagina un futuro non troppo lontano in cui Spotify (e tutti gli altri servizi di streaming con lei) riesca ad ideare un nuovo modello di revenue share rivolto non solo ai musicisti, ma anche ai curatori di playlist con più influenza online. In questo modo si riuscirebbe a svincolare le playlist dagli interessi delle major, e lasciare che i curatori possano dedicarsi a quel che gli riesce meglio: selezionare musica che piaccia a più persone possibili.
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L'articolo Playola: la bustarella al tempo della musica in streaming di Nur Al Habash è apparso su Rockit.it il 2015-09-14 14:09:00
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