Vi sarà capitato, durante l’ascolto di un disco pop o rap degli ultimi anni, di andare a spulciare nei crediti, per vedere chi fossero i producer all’opera dietro le quinte. E vi sarete di certo accorti che quei nomi avevano una sola cosa in comune: erano spesso tutti maschili. Magari avrete trovato la cosa semplicemente curiosa, ma di poco conto; una pura coincidenza, quella di non aver mai letto il nome di una producer donna. “Sarà così perché sono poche”. Ma è davvero così?
Ho affrontato il discorso con Elasi, che mi ha sottoposto il problema da una prospettiva diversa. Mentre era alla ricerca di musicisti con cui collaborare per la realizzazione dei remix dei brani del suo ep Campi Elasi, le venivano in mente solo colleghi maschi. Possibile che in Italia – fatta eccezione per qualche nome, come Caterina Barbieri o Marta De Pascalis, che però lavorano all’estero – le musiciste di elettronica o producer vengano così poco considerate? Elasi si è messa a ragionare sulla questione assieme a Plastica, aka Matilde Ferrari, per arrivare a questa conclusione: “Se cerchi bene, noi produttrici italiane non siamo poche, dovremmo solo fare più network per capire come far fronte all’attuale mercato italiano e aprirci nuove possibilità all’estero”.
Le due hanno quindi deciso di fondare Poche, un collettivo informale e aperto, che ha l’obiettivo di far risaltare la moltitudine delle producer professioniste nel panorama elettronico nostrano. Sarà – e in realtà già è – prima di tutto uno spazio di lavoro, di confronto e di ricerca, per arrivare a uno scambio continuo di idee e progetti, alla programmazione di collaborazioni e di eventi. “Il modo migliore per far nascere una scena di produttrici elettroniche in un paese che non ha ancora avuto modo di accoglierla è fare rete con ciò che meglio sappiamo fare: creare musica”, ha spiegato Elasi.
Sono stato invitato a un incontro virtuale con alcune delle artiste che hanno preso parte al progetto Poche. In poco più di due ore si è creato un tavolo di discussione, dove le criticità evidenziate da ognuna venivano raccolte e condivise quasi in toto dalle altre. La sensazione che si respirava era che tutte avessero bisogno di uno spazio comune, dove sfogarsi e dove cercare insieme delle alternative allo stato attuale della scena musicale. Oltre a Elasi e Plastica erano presenti Whitemary, Giulia Tess, Paula Tape, Ginevra Nervi ed Ehua, tutte attive nel mondo dell’elettronica e del clubbing, musiciste che si sviluppano in direzioni diverse ma che hanno fatto della ricercatezza del sound il loro punto di forza.
Il primo argomento affrontato riguarda quello che potremmo definire il problema del parafulmine: in ambito musicale, ma in generale in ambito artistico, una donna per essere notata deve essere brava in modo eclatante, deve essere il fenomeno di cui tutti parlano. Al contrario, spesso a un uomo è concesso un livello vario di preparazione e di originalità. In questo modo viene identificato il parafulmine che deve portare la medaglia/distintivo di fenomeno, di eccellenza, ed essere la rappresentante femminile in un determinato genere musicale. In Italia potrebbe essere Caterina Barbieri, troppo brava per essere ignorata. “Per noi c’è sempre bisogno di mostrare la novità e la bravura oltre la norma”, dice Paula Tape.
Giulia Tess ed Ehua lavorano a Londra da molti anni ormai, e hanno potuto riportare su un gradino più normale la visione che abbiamo della lungimiranza inglese, per capire che i problemi non sono confinati nella sola Italia. “Qui in UK vige una maggiore meritocrazia. Si va più a scavare, c’è maggior apertura nei confronti di più livelli di qualità. Una cosa estesa quasi a tutti. Tuttavia, anche per le producer che emergono ci sono degli enabling subject, ovvero dei grandi produttori che fanno loro l’endorsement”. Dunque, anche dove possiamo notare una mentalità molto meno affetta da pregiudizi, viene evidenziata la dinamica dell’uomo famoso abilitatore che apre il cancello a una collega.
Ma questo gioco di “raccomandazioni”, che a prima vista può apparire un po’ triste, potrebbe essere un esempio per la discografia italiana. “A questo punto, in Italia sarebbe giusto che le popstar che hanno raggiunto un buon livello di fama diventino loro stesse enableing subject, bisogna che si impuntino con le loro etichette per uscire da questo circolo vizioso”, prosegue ancora Ehua. Quindi, se chi ha la fortuna di essere dentro il sistema esigesse la presenza di produttrici, metterebbe una prima toppa a un problema di rappresentanza paritaria quasi patologico della discografia.
C’è stato un momento, nel corso della chiacchierata, che ho trovato particolarmente agghiacciante, anche perché si tratta quello che ha avuto il maggior riscontro nell’esperienza di tutte loro sei. La domanda è partita da Whitemary ma le risposte sono seguite a ruota. “Quante di voi hanno represso la propria femminilità o estetica femminile per paura di essere giudicate prima per quello e poi per la musica?”. Tutte hanno dovuto farlo, chi più o chi meno, e la scena elettronica italiana ne esce con le ossa più rotte del previsto. C’è chi in passato non ha voluto mettere la propria faccia nella foto profilo di SoundCloud per paura di non essere ascoltata, chi si è dovuta sentir chiedere se le tracce le avesse fatte davvero lei oppure se le avesse prodotte il suo ragazzo, le testimonianze hanno iniziato a fioccare e sono terminate su un punto comune: persino nei blog e nei gruppi social dedicati al clubbing, luoghi dove chi fa quel tipo di musica dovrebbe sentirsi in una zona di comfort, molte di loro hanno subito delle shitstorm senza senso e “commenti poco edificanti di natura sessista”, come riporta Ginevra Nervi.
Lo spunto finale di riflessione è arrivato ancora una volta da Whitemary. “Io mi reputo anche parte del problema. Per molto tempo ho tollerato atteggiamenti che non erano per niente tollerabili, pensando a stare comoda nella mia cricca di amici tutti uomini.” Dopo aver manifestato i problemi più evidenti, provare a tirarsi completamente fuori dalla serie di pratiche che contribuiscono all'oppressione è la cosa probabilmente più impegnativa. “Oppure ancora, quando insegnavo in una scuola di canto, pur sapendo di prendere tre euro in meno dei miei colleghi maschi della mia stessa età, non dicevo nulla, e me lo facevo andare bene. Ho fatto presente questa cosa soltanto sul momento di licenziarmi”. E su questo purtroppo si sfonda una porta già troppo spalancata.
Quando l’intervista è finita, ho avuto la sensazione che mi si fossero srotolati davanti mesi e anni di eventi e situazioni che un sistema – non solo discografico – sano non può più permettersi di tollerare e perpetrare. Poche non vuole essere la soluzione, ma un tentativo di dimostrare che per cambiare qualcosa che non funziona si deve creare una rete sana, nella quale scorrano idee concrete. “Al posto di sognare strane utopie è meglio fare massa, per far capire che poche non siamo, e valiamo davvero”.
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L'articolo Poche, l’elettronica è questione di genere di Gabriele Vollaro è apparso su Rockit.it il 2021-04-20 09:30:00
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