Era il novembre del 2015 quando uscì “Mainstream” di Calcutta. Un disco sul quale si sono versati fiumi di inchiostro, che ha riempito tutti i locali d’Italia e il cui titolo, soprattutto, è stato una sorta di profezia autoavverante. Dopo anni di segnali, speranze, auspici e spallate, all’improvviso è sembrato plausibile che quel soffitto di vetro che separava il mainstream italiano da tutto il resto si stesse per rompere. Esattamente un anno dopo è uscito “Completamente Sold Out” dei Thegiornalisti, un altro titolo autoavverante (sono state appena annunciate due date al Palalottomatica di Roma e al Forum di Milano: per una band che un anno prima riempiva piccoli circoli arci, è un bel salto di qualità).
Sono solo due dei casi più lampanti, ma si potrebbe argomentare questo progressivo assottigliamento della distanza tra i gusti musicali del famigerato “grande pubblico” e quello degli appassionati di musica con molti altri esempi. I musicisti che dieci anni fa chiamavamo “indie” firmano oramai per etichette importanti, sono spesso ospiti in tv (o almeno, nelle trasmissioni che danno spazio ai musicisti: Quelli che il Calcio, Che Tempo che Fa, Edicola Fiore e poche altre) hanno buoni passaggi in radio, firmano hit per super star della musica italiana.
Nonostante questo, sarebbe un’esagerazione affermare che l’aria di chiuso ai piani alti sia finalmente cambiata: il pavimento specchiato della Canzone Italiana (quella urlata, melodrammatica, e che canta delle stesse indefinite relazioni amorose da circa 30 anni) è ancora piuttosto solido. Basta dare un’occhiata a quella che, a grandi linee, può essere considerata la cartina di tornasole del successo musicale in Italia, ovvero la classifica ufficiale dei dischi più venduti di ogni settimana.
La band di Tommaso Paradiso non è riuscita ad arrivare nella top 10 (l’ha sfiorata però con l’11esimo posto), Dente ha esordito alla 12, i Tre Allegri Ragazzi Morti alla 20, I Cani alla 27, Bugo alla 26, gli Ex Otago alla 23. Tutto il resto del pop fuori dai canoni sanremesi è stato praticamente non pervenuto. Forse, nel 2017, potrà tentare l’impresa Lo Stato Sociale, forte del suo mezzo milione di fan su Facebook.
(I Selton a Quelli che il calcio)
Si potrà obiettare, e a ragione, che la classifica FIMI non è una metrica così affidabile, e che ci sono molte altre variabili di cui tenere conto per misurare il successo di un artista (figuriamoci il valore!). Ad esempio, l’affluenza ai concerti.
Ma non bisogna dimenticare che se il pop è il risultato di ciò che emerge in superficie e si diffonde a macchia d’olio, il mainstream è ciò che detta la direzione, ciò che è influente.
Uno dei motivi per cui la musica in Italia è divisa da un recinto asfissiante e retrogrado (da una parte le popstar di plastica, dall’altra la “cultura vera” dei cosiddetti “indipendenti”), è proprio perché da moltissimo tempo si pensa alla musica in modo retrogrado. Salvo poi crepare d’invidia quando ci si accorge che in altri paesi il successo e il valore culturale di un disco molto spesso coincidono, e che fare pace con il pop è possibile. Auspicare che qualche musicista valido possa vendere più copie di Fedez e J-Ax non è utopico, è un pensiero giusto e necessario.
Quest’anno Niccolò Contessa de I Cani, Colapesce, Calcutta, Dimartino, lo stesso Tommaso Paradiso, Levante, Alessandro Raina e molti altri sono stati impiegati dalle major italiane per scrivere le canzoni da far interpretare alle popstar che pubblicheranno dischi nel 2017. Tutto fa pensare che, finalmente, assisteremo ad un sensibile innalzamento di qualità nelle radio italiane, almeno per quel che riguarda la scrittura (agli arrangiatori e ai produttori desiderosi di sperimentare e prendersi dei rischi forse ancora non ci siamo arrivati).
Che volto ha, allora, questo famigerato pop da classifica del 2016? Partiamo da ciò che c’è di positivo: le vendite sono state dominate da artisti giovani (tra i 20 e i 30 anni) il che vuol dire che negli ultimi anni c’è stato un bel ricambio generazionale. Il problema anagrafico, semmai, è un altro: tra la generazione dei più anziani e quella degli Amici di Maria manca quella di mezzo, pesantemente sottorappresentata. Tanto che per Paolo Madeddu, il tema portante nel pop di quest’anno è stato proprio l’orgoglio della giovinezza: “Ho la sensazione che l'essere giovani, in sé, l'essere una "generazione", sia tornato un argomento delle canzonette. Come succedeva negli anni ‘60 ai tempi di “Che colpa abbiamo noi”, “Chi vi credete che noi siamo per i capelli che portiamo”, etc.” Una cosa che nel decennio scorso non esisteva, ma che ora è tornato ad essere un argomento forte. O percepito come forte. “È una cosa che si sta diffondendo sia a livello mainstream (intendo Fedez, Lorenzo Fragola, Rovazzi), sia a livello di “pretendalternativo” (intendo Motta, Ex Otago, Cosmo, Calcutta). Forse è un'onda tardiva tanto del renzismo che del grillismo, del resto: mostriamoci giovani, che si vince. Nel momento in cui la forbice tra generazioni viene allargata (da entrambe le parti, perché anche Luca Carboni ha recuperato punti con una canzone in cui dice che è invecchiato) è una fase difficile per chi in teoria vorrebbe fare da ponte. Per cui abbiamo Benji&Fede o Fragola o Fedez che fanno i grossi numeri, ma nessun adulto li prenderebbe sul serio.”
Escludendo però la categoria dei soliti noti (da Pausini in giù fino a Mannoia e Zero) e la categoria infanzia (Benji&Fede, Rovazzi & Co) c’è una sconfinata prateria di nulla.
Le popstar di oggi sono quelle uscite dai talent (non tanto X Factor, quanto Amici), e questo non è un mistero. Il problema è che sono letteralmente tutte uguali: nessuno ha dei tratti distintivi, nessuno porta con sé un immaginario o una storia particolare, tutti cantano lo stesso genere con gli stessi temi, con minime varianti concesse (il perché è presto detto: gli autori più gettonati si contano con due mani, e si spartiscono tutte le uscite). Persino molte voci si assomigliano pericolosamente. Le donne si presentano in genere con il nome (Elodie, Annalisa, Emma, Noemi), gli uomini con nome e cognome (Marco Carta, Alessio Bernabei, Valerio Scanu, etc). Ne deduciamo che i nomi d’arte non vanno più di moda da un pezzo, eppure servirebbero almeno a donare un minimo alone creativo attorno a degli artisti che per il resto sono totalmente anonimi. Qualche artista interessante e con buone potenzialità c’è (Fragola, Gualazzi, Giosada, Michielin, Noemi potrebbero riuscire bene se togliessero Sanremo dalle loro coordinate); c’è da sperare che, come una manna dal cielo, nel 2017 arrivino anche delle canzoni interessanti.
Guardiamo allora al pop che ci piace, e partiamo dai tanti esordi che nel 2016 ci hanno fatto sgranare gli occhi: Birthh ha 19 anni e un talento che entusiasma (non a caso è stata assunta immediatamente nella scuderia degli autori Sony) che ha messo a frutto in un pop compatto, giovane eppure algido. Novamerica, invece, è stato l’autore di un self titled che risplende, tonico e scattante, merito di un vecchio pianoforte di famiglia ritrovato quasi per caso. E poi c’è stato “Requiescat In Plavem” di Krano, il disco in dialetto che ci ha fatto cambiare idea sui dischi in dialetto: un allucinato folk dall’equilibrio precario, perso tra i boschi veneti. Le atmosfere silvestri sono state protagoniste anche dell’ep d’esordio di Wrongonyou, promettente folk singer da poco entrato nell’ala protettrice di Carosello. E poi altri due dischi bellissimi, che probabilmente hanno avuto più eco fuori dall’Italia: il primo è di Mind Enterprises ovvero Andrea Tirone (già chitarrista dei Dyd) che con il suo “Idealist” ha trovato una miscela davvero molto interessante tra pop e elettronica, un disco che chiede solo di essere ballato da qui agli anni a venire. Il secondo è ovviamente “This Life Denied Me Your Love” di Giorgio Tuma, ormai una firma che è impossibile riservi delusioni: canzoni piumate, leggerissime e fragili, per raccontare gli amori negati delle nostre vite.
Tra i cantautori, i migliori lavori sono divisi tra Roma e Napoli: Fabi ha raccontato le città perse mettendoci sensibilità e cervello in un disco che ha ricevuto consensi unanimi, Leo Pari ha pubblicato il suo più bel lavoro di sempre, concentrato in un momento creativo per lui davvero luminoso. Stessa cosa si può dire di Giglio e Francesco Di Bella: il racconto musicale di Napoli sta cambiando, e questi due cantautori hanno contribuito in maniera determinante a costruire un ritratto nuovo, ma che non ne rinnega le origini né il cuore.
Il 2016 è stato anche l’anno dei ritorni: i primi sono stati I Cani e i Tre Allegri Ragazzi Morti, poi i Selton, Dente, Carnesi e Ex-Otago. Tutti album che hanno confermato le capacità di artisti che ormai hanno una fanbase granitica e in molti casi anche una carriera ultra decennale. Un discorso a parte meritano i Thegiornalisti: dopo il successo di “Fuoricampo” (2014) era difficile non solo replicare, ma anche fare meglio. Eppure “Completamente Sold Out”, che per certi versi è un lavoro difficile da digerire, è stato capace di scavalcare la rete e atterrare su un campo da gioco diverso, molto più ampio e popolato da un pubblico eterogeneo e vicino alle correnti mainstream.
Ma se quest’anno c’è stato un disco pop che per noi ha superato in bellezza, creatività, divertimento e poesia qualsiasi altro, quello è “L’ultima festa” di Cosmo. Una raccolta di canzoni capace di trovare “una sintesi convincente tra due lati che sembravano non riuscire a comunicare”: quello dell'immaginario cantautorale fatto di provincia, famiglia, amici, e quello della musica elettronica, che vede il suo compimento ultimo nella catarsi di una festa.
Non sappiamo se da qui ad un anno arriverà a riempire i palazzetti, ma di certo è un disco che ha portato ad un livello nuovo il discorso sul pop italiano.
---
L'articolo Cos'è successo nel pop italiano del 2016 di Nur Al Habash è apparso su Rockit.it il 2016-12-16 12:00:00
COMMENTI