Fatto un festival, ve ne raccontiamo un altro: quello più importante in Europa. 128 band, 8 palchi, 170.000 spettatori da tutto il mondo. Il Primavera Sound di Barcellona è ormai il miglior esempio di come coniugare spirito e proposta con una location fenomenale che basta solo il mare dietro e hai già fatto mezzo festival. Tre band italiane anche nel programma. Rockit era lì a seguire tutto. Enrico Piazza, Alessandra De Ascentiis e Marcello Farno raccontano.
Enrico: Se è vero che le previsioni non ci azzeccano mai, è altrettanto vero che rompono comunque il cazzo, specie quando ci butti un occhio prima di partire per Barcellona e ti accorgi che gufano pioggia e freddo. È che non se ne può più: qua piove dal gennaio '97, e sospetto che Il Corvo non la raccontasse giusta. E non è che quest'anno, per cambiare, abbia una gran voglia di arrivare in Spagna e beccare un'altra spiaggia, un altro mare ma lo stesso tempo di merda. Ma si diceva che le previsioni non ci azzeccano mai. Appunto. Arrivo a Barcellona in una bella e soleggiata mattina. Non che si sudi eh, ma si sta bene. Così bene che prima di raggiungere il Parc del Fórum vado in spiaggia. Ciao.
Alessandra: Per gentile concessione di Ryanair stavolta si atterra a El Prat, facile facile. Dall’aereo le luci della costa catalana sono uno spettacolo, se non fosse che l’atterraggio non è ancora iniziato e io sto già pensando che il pilota sia un terrorista dell’ETA. Ma proprio a sto giro? Ansia da catastrofe, esatto, derivata da una vena di scetticismo dura a morire: domani inizia il weekend che aspetto da mesi, il mio primo festival internazionale. Rileggo i nomi sul cartellone, divisi da un’interlinea così sottile che quasi si trasformano in un'unica, lunghissima parola: è la mente che fa fatica a immaginare tutta quella roba, tutta insieme, nel giro di soli tre giorni. Sulla rambla già mi aspetta il primo bicchiere di sangria, rigorosamente servito al Bosco delle Fate. Ok, sta accadendo per davvero.
Marcello: Parto con un pieno preventivo di t-shirt, camicie e dosi di magone infilate a forza nel bagaglio. La line-up del festival si preannuncia così gonfia e delirante che ci vogliono ore di discussioni e calcoli prima di mettere a punto una bozza quantomeno degna di setlist. Sono a Barcellona già da lunedì, mi prendo il tempo necessario a tessere ramblas e avenidas, guardare da fin sopra i terrazzi di Gaudì il panorama che si apre sconfinato su questa città al contempo così mediterranea ed europea, proiettata su degli standard di proposta culturale altissimi, venuti su in un paese dove l'economia ristagna e i tassi di disoccupazione salgono alle stelle. Piuttosto che stare a crogiolarsi e tesser lodi alla speranza, però, qui la gente sembra volere a tutti i costi vivere il presente in un modo che non sia autistico. Prendo appunti. Intanto già la corsa agli happy hour spacciati aggratis dagli sponsoroni dell'evento diventa sport olimpico. E anche la fauna indigena proto-radical non sembra poi così malaccio. Sarà l'aria, sarà che non bastano nemmeno quattro folate di vento a cancellare questo cielo così terso e gravido di vibra buona.
E: Grosso.
Non è solo questione di lineup, delle centinaia di nomi sparsi su un'infinità di palchi. E non mi riferisco nemmeno alle 55mila persone che mediamente popolano una singola giornata del Primavera. È che il Parque del Fórum è proprio uno spazio enorme, macini chilometri spostandoti da uno stage all'altro, con la musica che ti fa muovere i piedi.
Bello.
Di nuovo: non è solo merito del cartellone imponente. Mettiamola così: ho il mare alle spalle, una ruota panoramica di fianco e i Tame Impala di fronte. Dell'Amaro Lucano se ne può anche fare a meno. Qua il punto non è se preferivi i Beatles o gli Stones. Perché gli Impala gasano comunque, è come si ci fossero i Pink Floyd e gli Who. Sullo schermo in fondo al gigantesco palco Heineken gira un vortice di psichedelia, i ragazzi san suonare e far star bene tutti. E a completare il tutto c'è il tramonto su Barcellona. Capito adesso cos'è il Primavera?
A: Con l'apprensione tipica dei principianti usciamo di casa in netto anticipo. Migliaia di fermate di metro ci vomitano su un vialone hipsterato che percorriamo con le ginocchia oliate dall'entusiasmo. Braccialetto verde tropicale, siamo dentro. Dopo ore di attesa al sole vediamo una coppia di ragazzi correre verso il Ray-Ban: è il segnale, qualcosa sta iniziando. Sono i Poolside, che mi fanno scoprire il primo principio dei festival musicali: i gruppi che ti daranno più soddisfazione sono quelli di cui non avevi mai sentito parlare. O anche quelli che avevi appena scoperto, come quelle quattro maschiacce delle Savages: frontwoman che è una sorta di Ian Curtis finito sul set di “Ragazze Interrotte”, suono pieno e oscuro e reazioni d'amore incondizionato dal pubblico. Poi qualcuno, su qualche palco che non ricordo, dice qualcosa come: "This is just the beginning. You have the whole weekend to enjoy music!". Ed è lì che capisco quanto sarà difficile andar via domenica.
M: Mi precipito dentro eccitato a cercare di capire, collocare sin da subito palchi, postazioni beveraggio e cessi chimici. Non c'è nemmeno il tempo di prender confidenza con l'ambiente che sull'Heineken partono già i Wild Nothing, e le prime delusioni escono allo scoperto. Jack Tatum e compari suonano senza sangue addosso, e quel "Nocturne" che m'aveva raso al suolo più di una volta in questo lungo inverno, dal vivo rende solamente la metà. Per fortuna che poco distanti i Blue Willa accendono le prime sirene italiane di questo Primavera. I ragazzi hanno personalità da vendere, e lei si muove sul palco a metà tra una Kate Bush e una Siouxsie qualsiasi che al punk preferisce cupe bordate noise. Dici disturbanti e dici bene. Passo il resto della serata tra Jessie Ware sul Pitchfork (il palco più figo, intimo, col mare dietro) e Bob Mould in ATP. Poi all'1:40 sboccia il primo incantesimo: i Phoenix sono protagonisti di quello che, a detta di quasi tutti quelli che incrocerò nei giorni successivi, si dimostrerà essere IL Live di tutto il festival. Estatici, perfetti, di una bellezza che poche volte trovi centellinata altrove. E se il 50% lo fanno le canzoni, l'altro punto percentuale è tutto per loro, che sul palco, armati fino ai denti, corrono lungo un filo sottilissimo che sta tra la maestosità di certe scelte (anche scenografiche) e la delicatezza di riuscire a toccare corde così fragili rimanendo sempre umani, dentro la folla, come Thomas Mars in uno degli innumerevoli stage diving che lo vedono catapultato sotto. Se siano lacrime o occhi stanchi francamente non lo so. Scopro John Talabot a darmi la medicina della notte, accanto a un altro migliaio di persone che ne chiedono ancora e ancora, fino allo sfinimento. A Barcellona l'alba sembra non voglia arrivare mai.
(Blue Willa)
E: Avrei dovuto portare anche il cappello di lana. Perché di giorno c'è il sole, ma la sera il vento che arriva dritto dal mare inturgidisce i capezzoli. Che poi come effetto, se applicato sulla moltitudine di bellezze spagnole e sulla minoranza ben rappresentata di bionde nordiche, non è nemmeno così male. Ma io i miei capezzoli li tengo ben al caldo, per cui chiudo la giacca e apro la seconda giornata del festival con Matthew E. White, quel campagnolo bifolco barbuto che ha fatto un album d'esordio in bilico fra folk, soul e classic rock assolutamente pregevolissimo. E pure sul palco se la cava bene, visibilmente emozionato per la grande folla entusiasta. Micro tappa allo stage Pitchfork per vedere Solange – che non sarà la sorella ma è pur sempre una bella figliola con una gran voce – e poi si tira dritti fino al Primavera Stage per James Blake: bassi come se piovesse, mentre l'enfant prodige britannico canta con la timidezza del velluto, si muove fra macchinette e tastiere, in un live pieno di grazia e potenza. Wow.
A: Non sono una grande amante della ressa, ma oggi suonano i Blur, pertanto farò uno sforzo. Damon Albarn è solo un miraggio dalla mia postazione, in compenso scopro l'esistenza dei "muscoli da concerto", che sono quei muscoli della schiena che usi quando cerchi di guardare sul palco in punta di piedi, allungando fortissimo il collo. Rinuncio alla vista e decido di godermi l'entusiasmo della folla affamata di classiconi, mentre tutti gli inglesi presenti diventano supermolesti in segno di patriottismo. Una cosa è certa: con i loro coristi e quel mood da bravi ragazzi bianchi, i Blur sono le popstar indiscusse di questa edizione del festival. Sforano i tassativi 60 minuti di esibizione (privilegio concesso solo a loro e ai Wu-Tang) e vanno avanti a suonare per un'altra mezz'ora. Sono le 3 del mattino, stravolta e felice trotterello fino al Primavera Stage, curiosa di vedere cosa combinano dal vivo The Knife. Mentre performano "Silent Shout" capisco quanto io li abbia sottovalutati. Rumorosi, discreti, oscuri, delicati, raggianti, feroci: una contraddizione in termini studiata con scrupolosità chimica. Le loro frequenze mescaliniche arrivano sotto la pelle, tenendoci tutti completamente dentro la musica. Stare fermi è impossibile.
(Blur)
M: Il venerdì ha un tatuaggio grosso così con sopra la scritta smells like teen spirit. E quindi nostalgia, e quindi anni '90, e quindi oltre ai baronetti Blur, onore dei brividi e dei pianti anche con Breeders, Shellac e Jesus & Mary Chain. Dei primi due però, o gli uni o gli altri, che la contemporaneità è sempre una brutta bestia. Scelgo di fare a metà, e sono applausi a scena aperta sia per le sorelle Deal che per i trattori di Steve Albini & co. Nel pomeriggio invece faccio fatica a trovare qualcosa che sconvolga veramente i piani: Merchandise così così, Dope Body deludenti, e dal canto nostro, la seconda rappresentanza italiana sul palco Adidas, gli Honeybird & The Birdies, per quanto sembrasse stare bene e divertirsi, non so se fosse la band più adatta a tenere in alto la bandiera di ciò che accade ed è realmente deflagrante nei nostri confini. Più storie da PIIGS che da Europa vera e propria insomma. Il buio e la luna crescente all'orizzonte sono invece sfondo ideale per i Jesus & Mary Chain, che fanno il loro solito live nazista, come negli 80s, muti, freddi, rigorosi e perfetti. La folla rimane spezzata, divisa a metà, non capisce bene o forse sono loro, si chiede, a dover ormai rimanere ad uso e consumo semplice di lettori mp3, pc e stereo. È una questione di epoche diverse, riassumendo. Chi invece 19 anni li compie quella sera stessa è ½ dei Disclosure che live impressionano per come ormai, con una facilità da veterani, tengano in pugno il prossimo biennio di spaccio di killer tracks. Sul Ray-Ban Dan Snaith aka Caribou aka Daphni fa ballare solo con roba africana, tanto che arrivano anche i gabbiani a una certa e diventa giorno che nemmeno te ne accorgi.
E: C'è troppo da fare per pensare al domani, all'aereo che mi aspetta, al rientro in Italia, ai saluti e alle ultime tapas sul lungomare prima di lasciare Barcellona. E poi questa sera si va a teatro, l'unica location del Parque che ancora mi mancava: l'Auditori Rockdelux ospita Apparat e il suo live di “Krieg und Frieden”. Funziona così: luci spente, il producer berlinese dietro una console, trio d'archi, tastiera e uno schermo gigante su cui scorre una storia raccontata per immagini. Una vera e propria opera elettronica, con il pubblico in religioso silenzio fino alla fine, quando parte una cascata di applausi. Commovente. E dopo questo bell'intermezzo passato sui comodi seggiolini dell'auditorium – come si addice a chi vent'anni li ha già avuti dieci anni fa – è il momento del ritorno al primo grande amore adolescenziale: sul Primavera Stage tocca ai Wu-Tang Clan. Ecchettelodicoaffare. Mancano 20 minuti all'inizio e il pubblico già li incita con un corale “Wu-Tang, Wu-Tang”. E finalmente loro rispondono. Sono invecchiati, all'appello mancano Meth e Rae e i presenti faticano a tenere una strofa intera. Ma 'sticazzi. Sono i Wu-Tang. E suonano “Enter the 36th Chamber” quasi per intero e vari pezzi di “Liquid Swords” di GZA, omaggiano il compianto ODB e gasano con hit come “Triumph”, con RZA mattatore che chiama a gran voce il pogo. E noi del pubblico, per quasi un'ora e mezza, siamo tutti dei cazzo di monaci shaolin. Si chiude l'ultimo giorno di festival. E lo si fa nel migliore dei modi. Nick Cave è sempre Nick Cave, e riesce a ipnotizzare l'enorme distesa di teste di fronte a lui. Voglio restare qui per sempre.
A: Per i nostalgici di Woodstock, credo che nessuno abbia saputo reinterpretare in chiave fricchettona il festival più di quei due burloni di Adam Green & Binki Shapiro. Lei bionda e naif come una modella di Abercrombie, lui folgorato e talentuoso come un Jim Morrison della prima ora. Cantano tutto l'ultimo album mentre un sole tiepido taglia obliquo le ultime ore del giorno: poesia pura. Dev'essere un sabato particolarmente orientato alla contemplazione, perché subito dopo i Dead Can Dance ci regalano un'ora di virtuosismi musicali, lasciandoci a ondulare in trance neanche fossimo un gruppo di devoti in pellegrinaggio a Medjugorje. L'interpretazione dell'album è talmente precisa da sembrare finta: ogni suono, ogni intonazione è esattamente identica a quella registrata. Lei, vestita come in una rivisitazione storica, avvolge tutti con una voce che è forse la cosa più anacronistica sentita in questi tre giorni, a metà tra la lirica e il celtic folk. Iniziano a cantare che è giorno, finiscono che è notte. Tanto per non mischiare i generi andiamo a sentire i Meat Puppets, quasi del tutto eclissati dal mega concertone di Nick Cave sul palco accanto. Loro, per dispetto, ci regalano venti minuti di jam session da restare a bocca aperta. Intanto inizio a contare sul palmo della mano quante ore ho ancora a disposizione. Decido che mezz'ora di esibizione degli Hot Chip posso permettermela, ma il magone inizia a farsi sentire e gli occhi luccicano sempre di più.
M: Pensavo a questo ultimo giorno da quando Alessio, mesi fa, mi aveva detto che il live dei My Bloody Valentine sarebbe stato meglio di qualsiasi altra droga al mondo. Intanto il sabato inizia finalmente coi tempi giusti, coi sorrisi e la calma stampati in volto, i piedi che biascicano tra un passo e l'altro. Ruota panoramica, giro tra gli stand delle etichette, dell'artigianato DIY, un'altra media chiara. Da 20 metri sospeso in aria i Mount Eerie acquistano ancora più senso che fermi a terra. I Foxhound sono invece gli ultimi italiani ad esibirsi, e confermano tutto quello che già avevano mostrato mercoledì sera, durante uno dei primi live del Day 0. Carichi a molla, col basso che dirige tutta l'orchestra, le chitarre affilatissime e pulite, e una grazia che sembra quasi di sentire una session band italo-disco. La brezza invece rende ancora più fatati i Melody's Echo Chamber, seguiti a ruota sul Pitchfork da quel loser di Mac DeMarco che sul palco, a furia di songwriting lo-fi e superfuzz, conquista tutti. Alle 2:30 però si alza il sipario, calano tutte le luci e, signori, si è pronti a entrare in un'ora di puro hangover emozionale. E sono lacrime, sangue e viscere, rifiltrati da una band che, oggi come 20 anni fa, riesce ancora a incarnare lo spirito del tempo. Un mare di delay infinito. Si cerca in qualche modo di non smettere di guardarsi le scarpe anche di fronte a DJ Koze. Qualcuno ci riesce, altri stremati abbandonano la barca. Io, in mezzo, rimango a prender fiato, poggio la testa su di te, lancio gli ultimi sguardi a questo cielo catalano. “Com'è che si diceva?” “Es fantàstico”.
(Foxhound)
E: Il pilota dell'aereo annuncia che il cielo è coperto e la temperatura esterna è di 4 gradi centigradi. Buon segno: significa che fa veramente freddo e non sono io a essere in fin di vita dopo tre giorni di Festival. È stato intenso. È stato estremo. È stato bello. Sono stato attento a scattare foto senza usare i filtri di Instagram, così da sfatare i luoghi comuni su uno dei migliori festival d'Europa. In testa ho tanti ricordi, nelle orecchie un mare di suoni, negli occhi un po' di caccole perché è mattino presto e non ho dormito, sulle spalle ho una giacca a vento perché sarà anche il 26 maggio ma si gela. Ma va bene così. Perché è vero che non esistono più le mezze stagioni, ma per quest'anno io la mia Primavera l'ho avuta comunque. Ed è stata bellissima.
A: Arriva l'alba e con lei le prime gocce di pioggia di tutto il weekend: sì, abbiamo avuto un gran culo. Intanto penso a come fare per evitare di suicidarmi una volta arrivata a casa. Predispongo il rientro perfetto: doccia megagalattica, pisolino di dieci ore, merenda con birretta, Deezer a nastro per almeno una settimana. Devo avere un aspetto terrificante e sono praticamente afona ma non importa, tre giorni così non si ripeteranno facilmente. E non è merito "solo" della musica, del melting pot, della Spagna o della birra: è quella vibrazione perfetta e compatta di migliaia persone, la cosa che non riesco a togliermi dalla testa.
M: Abbiamo dato e preso tutto quello che si poteva e si riusciva. Tanti rimpianti, live persi e il dono di un'ubiquità ancora non risolto. Ma un festival gigantesco, per portata, nomi coinvolti, location e, naturalmente, attitudine. Perchè il Primavera Sound è oggi il vero scoglio oltre il quale tutti gli altri festival si infrangono. Il punto di arrivo o forse di partenza per. E puoi chiedere a chi cazzo vuoi, ma non ci sarà uno che non ti dirà che da esperienze come queste non se ne esce rigenerati. Nuovi forse. Certamente migliori. Solo fotta o sorrisi, al massimo disagio doc, sopra i volti di chi c'era. Alla faccia del lavoro, delle banche e dalla crisi. Non c'è posto per l'inquietudine qui dentro. E l'America è lontata un miglio, dietro. #bestfestivalever. Punto. E basta.
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L'articolo Primavera Sound 2013 di E. Piazza, M. Farno, A. De Ascentis è apparso su Rockit.it il 2013-05-22 00:00:00
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