Vittorio Ondedei è anche Topazio Perlini e anche Ruben Camillas. Pesarese, è stato dal 2004 al 2020 metà dei Camillas assieme al socio Zagor. Porta in giro senza sosta le canzoni del duo e quelle dei Crema, la sua nuova band. Ha suonato in ogni locale, bar, festival, sagra voi possiate immaginare. Sempre con lo stesso stile.
Gli abbiamo chiesto di raccontarci del suo rapporto con la musica dal vivo, di quell'energia incredibile che continua a trascinarlo su e giù per l'Italia (e anche fuori), di quell'incrocio di facce, teste e cuori che solo un concerto sa regalare per il nostro speciale cartaceo, che distribuiremo gratuitamente al MI AMI Festival questo weekend, dal 26 al 28 maggio. Solo che è talmente bello che abbiamo deciso di condividerlo anche qui.
Ho fatto il mio primo concerto nel 1981. Avevo 15 anni, facevamo canzoni dei Joy Division e dei B 52's. Stavano bene assieme perché ognuno era lo sfondo cromatico ed emozionale perfetto per l'altro. Ero agitato e concentrato come non lo sarei stato mai più. Si dice così, perché ogni concerto accade sempre all'incrocio di tanti elementi – spazio, gente, suono, luci, palco – e non può non apparire sempre come unico.
Se non facessi di tutto perché questa possa essere la sensazione che mi accompagna ogni microsecondo sul palco (e nelle ore prima e in quelle dopo), se non sentissi di correre qualche rischio, lasciando affiorare cose inaspettate o sfidando difficoltà tecniche, scalette ballerine, canzoni improvvisate, invasioni di palco… ecco, senza tutto ciò non potrei dire di fare il musicista.
Mi dispiace di non aver tenuto il conto dei concerti che ho fatto. Si sono sommati uno all'altro, migliaia di concerti, ciascuno unico e solo, eppure tutti amalgamati.
Così che io possa ogni tanto trarne fuori quella volta che abbiamo suonato quattro ore, quella volta che abbiamo suonato la lambada velocissima, quella volta che te sei andato sotto il palco, quella volta che abbiamo improvvisato per la prima volta l'Anca. Un enorme pallottolone di pongo tiepido, che vado ad ingrandire giorno dopo giorno e che ha la mia forma e quella delle persone che suonano con me e che incontro quando suono.
Ho sempre pensato che fare musica significasse suonare dal vivo. Ce le ho ancora addosso le prime esibizioni con chitarra invisibile e l'immagine di me concentrato, riflesso nel vetro della finestra, mentre i Ramones vanno a volume gioioso e sostenuto. Forse non mi sono mosso mai da lì. Forse suono dal vivo per vedermi sempre là in mezzo al pubblico, ad ascoltarmi e guardarmi, attendendo poi la fine per chiedermi com’è andata, cosa ho sentito, com’è stata. Anche se poi un concerto funziona davvero quando il mio io riflesso non lo trovo più, perché si è dissolto nel pubblico che saltava e ballava.
C'è quel momento intenso, quando sistemo cavi e pedalini, tolgo la batteria dalla chitarra e metto la chitarra nella custodia… quando ho fatto questo il concerto è davvero finito, tutto è a posto, ritorno ad essere quasi uno soltanto. L'intensità evapora dolcemente e si scioglie in sguardi, parole, abbracci, strette di mano. E tornano gioiose a mente: quanti monitor di palco ho benedetto o maledetto? Quanti fonici avrei voluto sposare e quanti avrei inviato a scavare buche per piantare banani? Quanti plettri ho perso? Quanti frammenti di pelle, unghie e sangue hanno raccolto i piccoli gnomi che vivono sotto i palchi? Quante volte ho sbagliato accordo? Quanti bicchieri ho rovesciato? Quanti occhi ho incrociato? Quanti stacchi e finali di una canzone sono venuti così bene che mi è mancato il respiro? Quanto bene circola dappertutto?
Se un giorno mi vedrete suonare in una band che è la cover band di sé stessa, bellina precisina ugualina modellatina pettinatina, ecco, se succede, tiratemi sassi grossi. Promesso, eh?!
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L'articolo Quando finisce un concerto... di Ruben Camillas è apparso su Rockit.it il 2023-05-24 15:04:00
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