Disco sucks! Così era ai tempi dei pogrom di album dei Bee Gees. Te lo racconta anche Tommaso Labranca (“Il piccolo isolazionista”) che ai tempi i capelloni non si dimostravano troppo tolleranti verso la disco music. Poi, qualche anno dopo, erano tutti a ballare su “Hung up” di Madonna, costruita su un campione degli Abba. Ma non facciamo una colpa a nessuno, perlamordiddio. Solo che sul “sucks” è meglio mantenere qualche riserva. Perché se radio e televisioni ci hanno provocato nausea e dolori intestinali con la becera italo disco commerciale, esiste ed è sempre esistita – salvo un breve periodo di riflessione – una scena di culto degna del massimo rispetto, e a cui buona parte della musica fatta con campionatori e sequencer deve ancora un sacco.
Qui si parla di italo disco, signori e signore, nel bene e nel male. Ché il vero problema è nascere negli anni sbagliati, quando nell'aria c'è ancora puzza di Gazebo, Righeira, Albert-One, Den Harrow, e i grandi (i capelloni di cui sopra) non fanno altro che raccomandarsi di non accettare italo disco dagli sconosciuti. E guardando video come quello qua sotto, c'è da dire che le loro preoccupazioni erano più che comprensibili.
Fra la fine degli anni Ottanta e la prima parte dei Novanta, quando ancora Gazebo tormenta gli incubi degli italiani dotati di buon gusto e prima che il termine venga completamente dimenticato per un bel po' di tempo, italo disco diventa sinonimo di paccottiglia dance da classifica e di gente che scopiazza l'America senza nemmeno avere prima l'accortezza di pulire le macchie di sugo dalla canotta bianca.
Alle generazioni cresciute con lo spauracchio della italo disco brutta e cattiva è servito un po' di tempo per scoprirne il lato più oscuro e vedere chiaramente un collegamento fra il genere e un compositore visionario come Giorgio Moroder (il vincitore di un Grammy e tre Oscar, l'inventore di Donna Summer e di una delle soft porno track per eccellenza, “I feel love”). Sì, perché alla fine la “colpa” è principalmente sua: è lui il tizio che, nella seconda metà degli anni Settanta, sdogana synth, vocoder, ritmi ossessivi, melodie ipnotiche, e fa capire ad altri dj e produttori della Penisola che quei suoni riescono a scaldare la pista molto più facilmente di un pezzo rock, e che nel DNA degli italiani non sono presenti solamente i geni del liscio e del risotto.
Fra i primi a cogliere la palla al balzo ci sono i fratelli La Bionda, da sempre innamorati della disco music, che dopo gli esordi in chiave folk e prima delle colonne sonore dei film di Bud Spencer si trasformano in D. D. Sound e sfondano a livello internazionale con un groove che nulla ha da invidiare alle produzioni d'oltreoceano.
Almeno agli albori sembra esserci un legame forte fra colonne sonore e la nuova disco all'italiana (il nome italo disco verrà coniato più avanti). Un altro dei nomi fondamentali, infatti, è Claudio Simonetti che, dopo aver venduto qualche milionata di dischi con i Goblin, nel 1978 apre la parentesi Easy Going insieme a Giancarlo Meo, e dà vita a uno dei progetti più riusciti del periodo. E fra svariati esperimenti degni di nota, il buon Simonetti commette anche lo “sbaglio” di comporre e arrangiare il “Gioca Jouer” di Claudio Cecchetto.
Sono gli anni in cui la musica disco, in Italia, esplode in maniera definitiva. Così come oggi tutti devono avere il pezzo prodotto o almeno remixato dal dj electro del momento, sul finire degli anni Settanta i vari Tony Renis o Bobby Solo ripropongono i loro successi in versione dance.
Fra le varie balordaggini fatte per seguire l'onda continuano anche a proliferare nomi che poi si riveleranno fondamentali per l'evoluzione della musica in quattro quarti nei decenni successivi. Fra questi deve per forza di cose figurare Kano, un trio di produttori che mischia pesanti influenze disco funk con vocoder, sintetizzatori e break assassini. È il 1980 e con “I'm Ready” Luciano Ninzatti, Stefano Pulga e Matteo Bonsanto si piazzano nella classifica black dei singoli statunitensi e lasciano ai posteri un tassello fondamentale per il successivo sviluppo dell'hip hop e della house. Ed è un pezzo italo disco, baby, prima che il genere venga stuprato e abbandonato nella giungla musicale della fine del Ventesimo Secolo.
Nei primi anni Ottanta, questa roba si espande a macchia d'olio, precedendo altri elementi iconici del decennio come i paninari o le figurine drogate distribuite fuori dalle scuole (questa abbiamo realizzato col senno di poi - e con non poca delusione - che era solo una leggenda). Sono gli anni di Kasso (sempre farina del sacco di Simonetti e Meo), Cellophane Brain, Alexander Robotnick – che dopo aver sperimentato nel corso degli anni dalla world music alla techno e aver piazzato nei cuori degli amanti della italo “Problèmes d'amour”, è tornato oggi al primo grande amore – e soprattutto di Klein & M.B.O., che con la loro “Dirty Talk” (1982) giocano un ruolo fondamentale non solo per la italo disco, ma anche per la Chicago house, la cui nascita viene da molti identificata con la hit di Boncaldo e Carrasco. Fregandosene delle definizioni, resta il fatto che “Dirty Talk” è una pietra miliare della musica elettronica, ed è stata poi campionata da Timbaland per “Bounce”, inclusa nelle compilation “Back To Mine: Pet Shop Boys” e “Back to mine: Röyksopp”, e rifatta pure da Miss Kittin.
E poi, come spesso succede, nel momento in cui dai un nome a qualcosa la magia iniziale svanisce. Ed è circa il 1983 quando Bernhard Mikulski, polacco emigrato in Germania e titolare dell'etichetta ZYX Music, si ritrova un magazzino pieno di musica da discoteca prodotta in Italia e decide di pubblicare una compila dal titolo “Best of Italo Disco”. Da questo momento, con un nome orecchiabile che lo identifica, il fenomeno cresce enormemente e acquista una popolarità spaventosa, raccogliendo consensi e imitazioni in tutto il mondo. Italo disco diventa così sinonimo di un struttura in quattro quarti ripetitiva e suoni dozzinali. Le classifiche italiane si riempiono dei vari Ken Laszlo, Baltimora, Righeira e Sandy Marton, con i kingmaker come Claudio Cecchetto, il patron di Baby Records Freddy Naggiar, e Mauro Malavasi che contribuiscono al lancio di vari fenomeni da chart.
C'è chi fa bene e chi fa male, e nel frattempo il sound italo coinvolge anche artisti - come Tullio De Piscopo - che danno quel tocco di qualità in più al fenomeno.
Finiscono gli anni Ottanta e finisce - almeno in Italia – la italo disco, che nemmeno troppo lentamente lascia il posto alla eurodance.
Poi ti addormenti per qualche annetto, bene o male per tutti i Novanta, e ti risvegli tipo Rick Grimes di “The Walking Dead” in un mondo fatto di italozombie che se ne vanno in giro per le piste di tutto il mondo. Però te lo dovevi aspettare, baby. Voglio dire, già gli svedesi Lindstrøm & Prins Thomas, all'alba del Ventunesimo Secolo, ritirano fuori la disco in una maniera insieme vecchia e nuova (senti che roba il remix di “Tribulations” di LCD Soundsystem). E gli italiani mica possono stare fermi a guardare. Ancor prima di rispolverare il Cosmic e Daniele Baldelli, un soldato che non ha mai smesso di tenere alta la bandiera della italo disco, ci pensa Francisco, chiuso – speriamo non per sempre – il capitolo Jolly Music con Mario Pierro, a ritornare sull'argomento con un singolo – suonato pure da Erol Alkan – il cui titolo è tutto un programma (oltre che un modo di vedere la vita).
L'album “Music Business”, con ironico packaging a guisa di gioco da tavolo per imparare a svoltare nel mondo della musica, è una bomba dalla prima all'ultima traccia. Roma è sulla mappa grazie a realtà come l'etichetta Pigna e a una sfilza di produttori mica male, fra vecchie volpi e nuovi lupi. Ma se pensi che una discoteca come la Baia degli Angeli – oggi meglio nota come Baia Imperiale – era a due passi dalla Romagna, territorio storico del clubbing nostrano, fai presto a dire Dj Rocca, il leggendario resident del Maffia Club di Reggio Emilia. Ai tempi impegnato con drum'n'bass e breakbeat, Rocca unisce in seguito le forze con Fabrizio Tavernelli per diventare Ajello.
L'estetica italiana torna a bussare alla porte del mondo del clubbing con i suoi ammiccamenti sessuali (vedi ad esempio “Pompeeno” sempre dall'album “Spasm Odyssey” di Ajello), le sue visioni retrofuturibili (tipo Crimea X, side project dello stesso Rocca con Jukka Reverberi dei Giardini di Mirò) e le sue schegge di vita peninsulare a spasso sull'Atala ben ritratte dal romano Rodion (nel 2007 il suo singolo “Electric soca” è stato remixato da due tizi al loro top produttivo, i Crookers).
Edoardo Cianfanelli, in arte Rodion, è accasato presso l'etichetta Gomma (che forse non a caso ha sede nella Monaco di Moroder), di cui l'italo-tedesco Munk (sì, quello che ha fatto pure un brano con Asia Argento) è il co-fondatore. Come Rodion molti altri producer italiani hanno trovato rifugio sotto l'ala protettiva di Gomma, Esperanza e Cécile in primis.
E Londra? La capitale della dance mondiale, il sogno di tutti i produttori dance italiani con la valigetta del Mac al posto di quella di cartone e il low cost per Stansted al posto della nave per Nuova York? A Londra Stevie Kotey (Chicken Lips) ha la sua etichetta Bear Funk, altro bel covo di nostri compatrioti come Fabrizio Mammarella e il veneziano Guglielmo Bottin, in arte – strano ma vero – Bottin.
Più fai digging in questo affascinante mondo e più ti accorgi che lo spettro di Claudio Simonetti – tocca ferro, Claudio! – pare aggirarsi per gli home studio dei nuovi produttori italo disco. Il rapporto fra dance e colonne sonore di cui si parlava sopra è ancora vivo e vegeto, e in più ha pure il piede sull'acceleratore bello pesante, complice forse la contemporanea riscoperta, insieme al sound italo, del cinema di genere italiano dei vari Bava e Di Leo. E così l'immaginario orrorifico che tanto ha dato al nostro Paese si ritrova in un duo come Blakula! – già The Diaphanoids – che si spingono ben oltre Bottin e il suo “Horror Disco” e costruiscono un intero sanguinolento album, inventandosi pure la storia del vampiro haitiano ibernato in Transilvania e scongelato a New York.
C'è un tratto interessante che accomuna più o meno tutti i nomi elencati finora: la subordinazione dell'immagine all'immaginario. Questa è gente che, nel recuperare l'artigianato di misteriosi session men che han fatto il bene e il male del genere disco nostrano, preferisce rimanere pure un po' in ombra. Magari, perché no, anche per evitare le denunce segrete per uso eccessivo del campionamento. Tiger & Woods, duo romano particolarmente caldo al momento e particolarmente dedito ai giochi di parole (“Wiki & Leaks” il titolo del primo album), sono di questa risma.
E potremmo continuare a lungo, perché nascono di continuo nuove leve on the road (il già citato Cécile, Deep88, Luminodisco, Craxi Disco) pronte a ibridare il corpo dello Stato con il tipico ritmo incalzante costruito con cassa, rullante, charleston e clap. Ma sei su internet, baby: digga e divertiti, che hai un mondo da scoprire.
---
L'articolo RETROTERRA: Storia dell'Italo Disco di Enrico Piazza e Francesco Fusaro è apparso su Rockit.it il 2012-01-16 00:00:00
COMMENTI (6)
Articolo incompleto. Neanche un accenno ai Firefly che nel 1981, con il brano "Love is gonna be on your side", scalarono la classifica specializzata di Billboard. E poi non si parla della cosiddetta scuola romana e di Mike Francis...
ascoltatevi sto set italodisco del torinese U.LIE! hotness
soundcloud.com/u-lie/waitin…
Battisti-Mogol!!! non mancano all'appello!!
Molto interessante!
In quest'articolo deve essere assolutamente inserito questo pezzo: youtube.com/watch?v=iNdBSH_…
Chi è l'autore di questo articolo?