Ci sono quelle persone così talentuose che sembrano in grado di fare qualsiasi cosa così, di getto. Senza calcoli, senza prove, semplicemente fare e spaccare, al primo colpo. E ciò che sorprende ancora di più è che, mentre noi rimaniamo lì impalati a farci ipnotizzare dalla bravura altrui, il resto del mondo sembra non accorgersene. Sarà anche il gusto geloso di conservare per noi qualcosa di prezioso, come adepti a un misterioso culto a cui pochi eletti possono accedere, e che è proprio grazie al fatto che si muove nel buio del sottosuolo che brilla così tanto agli occhi di chi lo può vedere. Una di queste persone è Alessandro Fiori, un nome comune per chi non l'ha mai sentito prima e, allo stesso tempo, immediatamente riconoscibile per chi ha avuto la fortuna di incappare nella sua musica. Lo scorso venerdì 25 febbraio è uscito Amami meglio, suo nuovo singolo dopo 6 anni e primo assaggio del suo album in uscita ad aprile, Mi sono perso nel bosco, prodotto da Giovanni Ferrario e da Alessandro "Asso" Stefana, già da tempo collaboratore di Fiori.
Vale la pena partire proprio da qui, da questa scombinata canzone d'amore che si presenta con la foto – copertina del singolo come anche del disco – di un cavallo fantasma(?) che salta un tavolino dentro una stanza. Si sovrappongono una serie di immagini del quotidiano, dai popcorn del cinema al Netflix and chill di "Se c'è linеa, ci guardiamo un'altra puntata e finisce anche quеsta giornata", nel perpetuarsi di una routine di coppia in cui c'è un qualche elemento dissonante, ossia il non sentirsi abbastanza amati. "Amami meglio amore, che me lo merito", appunto, mentre il raccontare le proprie fragilità viene coperto da un "motivo di Brian Eno" – quello di Here Comes the Warm Jets e ancora con una certa influenza "roxymusiciana", a giudicare dall'arrangiamento – canticchiato dalla persona con cui ci stiamo aprendo. Eppure non c'è esagerata sofferenza, non viene enfatizzato questo disagio con inutile drammaturgia, rimane un piglio giocoso di fondo che è proprio la cifra stilistica di Fiori. "Mi ami, ok, però dai sforzati un po' di più", sembra dire con tono scherzoso.
È questo suo stile beffardo, furbo, ricco di guizzi e di "fantasia, intuizione, decisione e velocità d’esecuzione" che ha reso speciale il cantautorato di Alessandro Fiori, un qualcosa di abbastanza diffuso da avere una schiera affezionatissima di fan, abbastanza segreto da non sfondare il muro della nicchia e rimanere sotto traccia, ben conservato da chi ne ha visto le mille evoluzioni. Un percorso che parte da lontano: gli studi di violino e pianoforte fin da bambino, le lezioni al liceo musicale di Arezzo in cui conosce Enrico Gabrielli – che suona il sassofono in Amami meglio, mentre l'altro ospite del brano è Colapesce ai cori – e Michele Orvieti, il diploma all'accademia di arte drammatica. E poi il provvidenziale passaggio a Bologna nella seconda metà degli anni '90 per studiare al DAMS, dove si forma il primo nucleo dei Mariposa con Orvieti e Gianluca Giusti, a cui poco dopo si aggiungerà Gabrielli.
Il delirio mariposiano mette una prima medaglia al petto di Fiori, frontman di questa scalmanata banda con un improvvido gusto per il surreale, un frullato di prog, teatro, demenzialità, psichedelia e filastrocche, come dei Genesis imbottiti di Lambrusco si trovassero a suonare in una balera sperduta di provincia. E un po' come per i Genesis, è il frontman che a un certo punto si rende conto che ha una strada sua da seguire, troppi idee che rimbalzano in testa e che, per essere sviluppate, costringono a rinunce importanti. Sembrerà inglorioso liquidare la brillante insensatezza di più di 10 anni di Mariposa così rapidamente, ma la motivazione è la stessa di Fermat di fronte al suo indimostrabile teorema: "non può essere contenuta nel margine troppo stretto della pagina". Perché seguire tutti i fuochi d'artificio che scoppiano nella mente di Fiori diventa un'impresa che non permette grosse deviazioni.
Dall'imbizzarrito pop rock degli Amore, la cui banalità del nome è in totale contrapposizione con l'assurdità del linguaggio, agli Scudetto, il "progetto trap del Novecento" – come viene definito in questa puntata di Nascostify – realizzato con un altro personaggio allucinato e allucinante, ossia Giacomo Laser/Gioacchino Turù (e dio solo sa quanti altri nomi d'arte), da insegnante di teatro alla scuola elementare a pittore, dai Craxi agli Stres, fino alle collaborazioni con Zen Circus, Andrea Chimenti e Paolo Benvegnù, c'è in Fiori quell'eclettismo proprio di chi ha tantissimo da dire e in qualsiasi forma, di chi fa e disfa continuamente, di chi inizia 10 cose contemporaneamente e funzionano tutte. Un trasformismo in cui si riconosce sempre il suo tocco, quella placida e sorniona teatralità del dire le cose più ridicole con la massima serietà e quelle più serie con una leggerezza sorprendente. Una poetica tra il reale e il nosense che nasce prima di tutto da umanità sincera, la smorza con un umorismo elegante e diventa imprevedibile e allo stesso naturale.
In mezzo a tutte queste ramificazioni è la sua discografia solista, quello che esce nell'essenzialità del suo nome, a essere la testimonianza più pura e affascinante della sua musica, un punto saldo di fronte al terremoto creativo che smuove ciò che lo circonda. Quattro dischi pubblicati tra il 2010 e il 2016, un altro in arrivo 6 anni dopo l'ultima volta. Attento a me stesso è il primo di questi, dove Fiori veste i panni di un moderno menestrello capace di unire gioia e tristezza, saltellare tra fiabe e ballate, con incroci tra i barocchismi canterburyani, i maestri del cantautorato nostrano e un sano approccio scanzonato alla vita. Segue Questo dolce museo, in cui abbraccia un suono più intimo ed equilibrato, anticipato dall'omonimo ep. C'è commozione, dolore, malinconia negli obliqui e minimali arrangiamenti dei suoi brani, che si presentano con gentilezza: una storia straziante come Sandro Neri, raccontata senza alcun tipo di filtro, arriva così dritta e dolce che ci si commuove senza neanche volerlo, per poi strapparci un mezzo sorriso come a consolarci.
Subito dopo c'è Cascata, disco realizzato nell'arco di pochi giorni per la collana della siciliana Viceversa Records, con bozzetti di canzoni sorretti da strutture circolari e pulsanti suoni elettronici, con spazio a momenti folk country e scorribande psichedeliche. Ma è proprio quando sembra tendere a passare qualche secondo di troppo in queste acque, come se ci fosse il rischio di uniformare troppo il suono, ecco che ribalta tutto. Arriva l'abissale elettronica di Plancton, cupa e ricca di suspense, una tensione a cui ancora non aveva dato sfogo nella sua discografia e che cerca spunti gettandosi nel buio più profondo. Un disco tenebroso che conserva quella nota scherzosa della sua musica, ma che come non mai viene avvolto da un velo cacofonico e disturbato, fatto di dissonanze beatlesiane e sfoghi allucinati dai Radiohead di Kid A.
Per questo, 6 anni dopo l'ultima volta, un nuovo singolo di Alessandro Fiori è qualcosa che viene celebrato come una festa, che viene accolto tra sorrisi entusiasti e la fame di un album prossimo a vedere la luce. Perché è un artista raro Alessandro, prolificissimo e da cui si vuole ancora e ancora, che finalmente torna a fare ciò che gli riesce meglio, ossia scrivere canzoni, perché già Amami meglio ha tutta quella carica e quell'energia creativa che volevamo. Perché, 6 anni dopo l'abisso di Plancton, anche noi non vediamo l'ora di perderci nel bosco questa primavera.
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L'articolo Rinascere Fiori a primavera di Vittorio Comand è apparso su Rockit.it il 2022-03-02 11:59:00
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