Ai primi di aprile, lontano per pura casualità dai luoghi in cui il Covid-19 ha mostrato il suo volto più feroce – almeno qui in Italia –, non avevo la più pallida idea di cosa stesse capitando a me e a un altro paio di miliardi di persone sul pianeta. Che cosa ci stesse tenendo in casa, fino a quando, con quali prospettive, quali reali rischi stessimo correndo, come ne saremmo usciti, che mondo avremmo trovato dopo. Tutto era una chiacchiera, quella che proveniva da radio, tv e telefono e che contribuiva non di poco alla mia ansia e alla mia miopia, quella che portavo avanti io stesso con i miei cari tra le mura di casa e con amici e conoscenti per via digitale, nella speranza di metabolizzare l'inmetabolizzabile.
Solo due rumori nella mia testa hanno suonato così forte da coprire quel larsen assordante, aiutandomi a mettere almeno un poco a fuoco quello che ci stava collettivamente capitando. Il primo ha rimbombato quando ho appreso la notizia della morte di un ex collega, un uomo di mezza età. Prima le vittime erano solo numeri, ora c'era un volto, ed era quello di una persona buona, a cui avevo voluto bene.
Poco dopo, ai primi di aprile, sarebbe stata una telefonata serale, dopo l'ennessima abbuffata scacciapensieri in famiglia, a rendere ancora più vivida quella percezione. La trovate trascritta qui. Dall'altra parte della WhatsApp Call c'era Roberto Longaretti, musicista e voce della rock – facciamo ad intenderci – band bergamasca Spread, che nel 2018 ha pubblicato l'album Vivi per miracolo (sic!). Roberto nella vita fa il medico di base a Borgo di Terzo, un paese di poco più di mille abitanti a venti chilometri di Bergamo, in Val Cavallina.
In quella conversazione raccontava le infinite giornate tra telefonate e visite a casa dei suoi pazienti terrorizzati dai sintomi del contagio, il dolore di una terra che si trovava all'improvviso al centro del male, la rabbia di una categoria – quella dei medici di base – "mandata al massacro", costretta a lavorare senza mascherine e dispositivi (non pochi, tra gli oltre 170 medici italiani morti in questi mesi sono "generici"). E poi la musica, che non riusciva più a comporre nè ad ascoltare per la prima volta da quando era ragazzino, completamente avvolto da quella bolla di realtà che era diventata la vita nella bergamasca in quei mesi incredibili.
Ho pensato molto a quella conversazione nelle settimane successive, mentre il lockdown proseguiva fino a sembrare di non dover finire mai e poi dopo, quando le gabbie sono state aperte e tutti noi siamo usciti impauriti e ansiosi di esistenza come un animale rimesso in libertà. A renderla così speciale, e così fondamentale per me per capire la spaventosa portata di quello che stavamo vivendo – alcuni più di altri e a più caro prezzo –, non erano state tanto le cose, pur choccanti, che Roberto mi aveva detto.
A rendere così potente quella testimonianza era il tono di voce di Roberto Longaretti. Pur non avendo mai scambiato parola con lui prima di quel momento, sentivo che quello che parlava non era lui, non fino in fondo. La voce arrivava lucida ma troppo asettica per apparire del tutto ok. Momenti in cui le descrizioni erano straordinariamente vive e dettagliate, si alternavano a piccoli black out, di cui Roberto si accorgeva prontamente. Una stanchezza estrema, segno di una mente ben più provata di quello che i suoi racconti potevano fare trasparire.
Ora che le cose non vanno malissimo, pur distanti dal momento – se mai arriverà – in cui saremo davvero in grado di fare i conti con noi stessi circa quello che è successo, ho avvertito di nuovo il bisogno di sentire Roberto. Per sapere com'era andata a lui e ai suoi concittadini, se finalmente avesse le mascherine per cui tanto si era incazzato, se avesse ripreso a suonare. Se, soprattutto, quel velo di irrealtà nel sentirlo parlare fosse cascato; se ora fosse possibile, pur non conoscendolo davvero, riconoscerlo dalla sua voce.
L'ho ritrovata, sin dalla risposta al telefono, del tutto diversa. Felice, questa mi pare la parola giusta. Ho ritrovato Roberto sposato, visto che l'11 luglio ha messo l'anello alla sua compagna, Roberta, che non pochi di voi conosceranno come bassista dei Verdena, e in viaggio di nozze. Prima di partire Roberto, assieme ai suoi Spread, ha voluto mettere in musica l'esperienza degli scorsi mesi, nella canzone Bimba, che oggi "dona" a Rockit. La trovate sopra, registrata in casa da Roberto, e accompagnata da un video molto significativo. Qua sotto, invece, una versione voce e chitarra, tratta dalla nostra IGTV.
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Abbiamo un sacco di cose da raccontarci. Partiamo da quelle belle: dove sei ora?
In questo momento sono in Gallura, nel Nord della Sardegna: sono in auto di rientro da un ristorantino, dopo un buon pasto a base di pesce. Dopo l’inferno, io e Roberta ci siamo trovati catapultati in paradiso.
Il matrimonio era già programmato o vi siete fatti un regalo dopo questo periodo maledetto?
Era già programmato e ha rischiato seriamente di saltare causa Covid. Ma noi non volevamo mollare: ci piaceva idea di non disdire, fosse anche solo per non mettere ulteriormente in difficoltà il ristorante, l'albergo, i lavoratori coinvolti. Abbiamo scommesso che si potesse fare, e l’abbiamo fatto.
Come nasce la canzone Bimba?
Verso la fine d’aprile le cose iniziavano ad andare meglio, e ho avuto qualche serata un po' più libera dagli impegni. Per riflettere, e soprattutto per suonare un po'. In quel periodo mia figlia non riusciva a dormire perché aveva paura del buio, e ho realizzato che era la stessa cosa che stavamo provando tutti di noi di fronte alla malattia, che è qualcosa di ignoto proprio come il buio. Quella sua paura primigenia era il nostro terrore collettivo. Allo steso tempo ho avuto la sensazione che in simili situazioni di dramma c’è sempre un germe di resurrezione, per quanto difficile da intravedere. La notte, d'altra parte, è ciò che c'è prima l’alba: è solo questione di fiducia che arrivi il giorno. Ho preso la chitarra e ho provato a rendere in musica questi pensieri.
Dorme tua figlia ora?
Non sempre, ma le cose vanno molto meglio. La canzone la aiuta: vuole sempre sentirla sul mio iPhone, a volte si addormenta ascoltandola.
Com'è stato il ritorno in sala prove?
Bello, e sicuro. Prima di entrare ho fatto il test a tutti, deformazione professionale (ride). È stato un momento catartico e commuovente, una cosa tipo il 25 aprile degli Spread. Ci siamo detti "ragazzi, evitiamo gli abbracci", ma non ci siamo riusciti. La mascherina, però, l'avevamo tutti. Poi abbiamo suonato 5 ore di fila senza dire una parola, è stato magico.
Torniamo a quei mesi infami. Allora, mentre eri al fronte, ci parlasti di una "guerra". Ora cosa pensi di aver vissuto?
Qualcosa che va al di là di qualsiasi previsione e aspettativa, qualcosa di talmente enorme che ancora oggi fatico a realizzare del tutto ciò che ho vissuto. Però è fondamentale metabolizzare e riuscire a raccontare cosa è avvenuto, l'entità del pericolo. Perchè l'uomo tende per natura a rimuovere i traumi più profondi, ma in questo caso è presto per dimenticare e anzi il ricordo deve tenerci vigili. Perché non è finita, purtroppo.
Per quanto ti riguarda la cosa è risolta, da un punto di vista psichico?
Il giorno che mi sono sposato ho pianto per un’ora assieme a un mio amico chirurgo e altri due amici medici. Piangevamo tutti. No, non è risolta per niente e solo tra qualche mese capiremo cosa abbiamo attraversato e che segni ha lasciato. La vita di tutti i giorni impone una forma di nuova normalità: ogni giorno vanno prese decisioni, in famiglia e al lavoro, ed è inevitabile mettere in un angolo certi sentimenti e certe istanze. Nel mio caso, evidentemente, una forte emozione come il matromonio ha aperto quel cassetto, e per fortuna ho lasciato andare un po’ di cose. Credo che iniziare a rielaborare un trauma di queste dimensioni non possa che fare bene.
Quando ci siamo sentiti l'altra volta la situazione nella tua Val Cavallina appariva abbastanza fuori controllo, con numeri crescenti e notevoli difficoltà a gestire l'emergenza sanitaria. Com'è "andata a finire"?
Ti parlo dei dati dei miei pazienti: per tutto marzo e quasi tutto aprile tra di loro ci sono stati ogni giorno tra i 25 e i 30 casi che presentavano sintomi compatibili con il Covid-19. A fine aprile c'è stata una netta flessione, confermata a maggio. In tutto giugno, prima di rompermi un piede e finire ko, ho avuto un solo caso.
La riduzione com'è avvenuta, e perché secondo te?
Il fade out è stato abbastanza repentino. Questo, a mio avviso, perché è arrivato un punto in cui la stragrande maggioranza della popolazione della valle era già stato infettata, e questo ha rallentato di molto il virus. Una volta che siamo stati dotati dei test sierologici e li abbiamo sottoposti – tramite Ats, laboratori e test privati – a campione a numerose famiglie del territorio, abbiamo osservato che il 65-70% della popolazione della Val Cavallina era stata infettata. Una cifra enorme.
Quanti morti hai "avuto"?
Nella valle sono stati molti. Tra i miei pazienti, quelli legati al Covid sono stati almeno una decina.
Sei in grado di dare un giudizio del tuo operato? Sei fiero di ciò che hai fatto?
Analizzo i numeri: da fine febbraio al 14 maggio ho effettuato 800 visite domiciliari, e curato per polmoniti almeno 400 persone. Tra i miei pazienti i ricoveri in ospedale sono stati solo 10, di cui 5 morti. Ogni decesso, come sempre in questo lavoro, mi pone degli interrogativi e mi fa soffrire, ma se mi chiedi di fare un bilancio personale, soprattutto se contestualizzato alla situazione della provincia, io sono soddisfatto e orgoglioso.
A posteriori – quando ogni valutazione è parecchio più semplice –, secondo te la linea di limitare al massimo gli afflussi in ospedale è stata corretta?
Con i miei pazienti ho avuto la fortuna di riuscire a intervenire in fasi molto precoci della malattia, ed evitare così che fossero necessarie cure più invasive, tipo la ventilazione. Questo ha fatto la differenza. Se un malato di Covid viene individuato presto e curato in maniera adeguata, la mia esperienza dice che ci sono buone possibilità che non si arrivi a criticità che richiedono il ricovero. Questo, per lo meno, quello che ho rilevato nel mio lavoro.
Nelle scorse ore l'Eco di Bergamo ha rivelato come tutto fosse pronto per la chiusura della di Nembro e Alzano, che il comitato di esperti aveva consigliato al governo di decretare ai primi di marzo. Da Roma, però, non è arrivato il via libera alla zona rossa. Che effetto ti fa leggere queste notizie?
Non ho competenze sufficienti a esprimere un giudizio rispetto alle responsabilità decisionali; posso solo rilevare, come testimone diretto, quanto sia stato importante nell’arginare la diffusione del virus l’assunzione di misure drastiche e restrittive. Seppur per certi versi drammatiche, hanno determinato un netto rallentamento dei contagi, percepibile anche solo nell’arco di una settimana: la cosa ha permesso a noi medici di affrontare l’onda lunga dello tsunami. Tutti vogliamo tornare alla vita che conoscevamo, fatta di gesti di socialità, che è alla base dei comportamenti umani, ma se vogliamo scongiurare il rischio di avere nuovi focolai epidemici dobbiamo perseverare nelle norme che includono l’utilizzo della mascherina, il distanziamento, l’igiene delle mani, l’attenzione verso la propria persona e la propria salute, per salvaguardare quella della collettività.
Cosa è mancato al sistema in questi mesi?
Il territorio, inteso come medicina generale, aveva bisogno di una mano e ce l’ha tuttora. Servono investimenti sulla medicina di base: i medici sono pochi e sempre più anziani, molti pronti per la pensione. Abbiamo bisogno di forza lavoro nuova, e di essere valorizzati per quello che facciamo. Come medici di base abbiamo bisogno di essere ascoltati e compresi.
Chi vi deve ascoltare?
Chi deve organizzare il nostro lavoro. Abbiamo incontrato difficoltà sia nel rapporto con nella gestione dell’organizzazione sanitaria sia in quella politica sul nostro territorio, inutile negarlo. Ma noi medici vogliamo collaborare costruttivamente, non fare recriminazioni sterili: è nostro dovere morale e civile superare le discordie e trovare soluzioni, lo dobbiamo al ricordo di quello che abbiamo passato e per fare in modo che non ricapiti più.
All'epoca non avevi problemi a parlare di rabbia, soprattutto per la mancanza di mascherine. Ora qual è il sentimento predominante in te?
La rabbia non passa. Uno non dimentica: non può farlo, è suo preciso dovere non farlo. Sono morti 170 medici. Questo ci deve rendere ancora più determinati nelle nostre richieste di cambiamento della gestione della salute pubblica. Non può succedere che un medico non possa visitare un suo paziente perché non è protetto, e sono convinto che non succederà più. Voglio essere fiducioso: la rabbia rimane, ed è un sentimento che va sfruttato nel migliore dei modi.
Chiudiamo con la musica, come è giusto sia. Gli Spread suoneranno Bimba dal vivo?
Certamente. L'abbiamo già provata in sala prove ed entrerà nel repertorio della band. Arriveranno anche altri pezzi: il materiale emotivo che tutti noi abbiamo accumulato è enorme, pensa che il nostro bassista è appena diventato padre, mentre il chitarrista lo diventerà per la seconda volta. Ci sono anche tante cose belle di cui parlare, e lo faremo. Con la rabbia come motore e assecondare una passione come unico obiettivo.
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L'articolo Roberto, Bergamo e il Covid: la notte è quel che arriva prima dell'alba di Dario Falcini è apparso su Rockit.it il 2020-08-07 10:25:00
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