Perdonate il ritardo, eravamo impegnati con il nostro festival e tutti gli altri sono rimasti indietro. Anche se un mese dopo, è importante raccontarvi come è andata l'edizione 2013 del RomaPop Fest. Una due giorni curata nei mimimi particolari, comun denominatore il pop migliore che ci sia, e quest'anno line up tutta italiana. Ovviamente due giorni splendidi. Di Filippo Cicciù.
Dimenticate per un attimo l'accezione più tristemente mainstream e sdolcinatamente fastidiosa della musica popolare. Il pop contemporaneo può anche non scalare le classifiche e non andare in prima serata ma quello che si è ascoltato al RomaPop Fest è stato sicuramente qualcosa di assolutamente orecchiabile ma anche prezioso e intensamente godibile. Del resto, “cercare di definire cosa sia il pop nel 2013 è un'impresa tanto ardua quanto inutile” spiegano Nur e Priscilla di Frigopop che hanno organizzato queste due bellissime serate. “Diciamo che ci piacciono le melodie: quando una canzone ti prende per il collo e non la smette più di farsi cantare allora noi ci arrendiamo ben volentieri”.
RomaPop va in scena da quattro anni grazie alla passione sconfinata delle ragazze del blog Frigopop che nei ritagli di tempo trovano la voglia di organizzare il festival diy più pop d’Italia. Idealmente associato ai vari popfest organizzati in Europa e USA, il RomaPop di quest’anno è colorato di azzurro come i palloncini che svolazzano per la sala dei concerti e come la tinta che fa da sfondo al magnifico artwork che campeggia sul muro dietro al palco.
(Dumbo Gets Mad)
Un nutrito pubblico prevalentemente di venti-trentenni ha affollato il Revolver Club che, da anonimo locale sperduto nel traffico e nei capannoni di via Tiburtina, si è trasformato nel tempio dell'indie pop più raffinato. Per due serate si sono ascoltati gruppi tanto diversi tra loro quanto vicini a un livello di qualità musicale indiscutibile. Dal garage ruvido, scarno ed essenziale dei romani WOW, notevolissimi, fino all’atmosfera rarefatta e dolcemente onirica dei Videodreams passando per i ritmi tirati ma assolutamente beat dei Demoni che però convincono solo nel finale con un ottimo pezzo come “L’estate è violenta”. Menzione d’onore per Gun Kawamura, artista giapponese di stanza al Pigneto- una delle zone più multietniche e vivaci di Roma- che per una mezzoretta scarsa inchioda il pubblico alla sua chitarra mentre sussurra immobile sbilenche strofe in giapponese. Psichedelia folk in ideogrammi o cantautorato artistoide impazzito, Kawamura è tutto questo è molto altro. Seduto sul suo sgabello imbraccia la sei corde e indossa occhiali scuri, se lo guardi distrattamente pare semplicemente un freak ma appena lo ascolti ti convinci che è definitivamente il Syd Barrett nipponico.
(Brothers in Law)
I Dumbo Gets Mad confermano sul palco quello che si intuisce ascoltando i loro ultimo “Quantum Leap” e cioè di essere uno dei gruppi italiani più interessanti in circolazione. Suonano melodie che fanno ondeggiare il pubblico in sala, il loro pop è un frullato elettrico di psichedelica e soul impreziosito di ritmi funky e coretti cantati in falsetto. Convincono anche con un brano “sgarbato” come “Tahiti Hungry Jungle”, che mischia le liriche di “212” e “Liquorice” dell’astro hip pop Azealia Banks, ma sono sicuramente più a loro agio se si mantengono su atmosfere più distese e avvolgenti come quando chiudono il set con “Plumy Tale”. Anche i Brothers in Law non deludono le aspettative: colpisce come la loro strumentazione essenziale- due chitarre e qualche pezzo di batteria- riesca a sputare fuori un suono pieno, aspro e potentissimo. Schegge impazzite di new wave anni ’80 con echi di Jesus and the Mary Chain e Joy Division ma anche spinte estremamente contemporanee e atmosfere dance-pop molto tirate. Bravi. Paletti suona il basso e ogni tanto percuote una gran cassa che si trova sul palco. Chiude da headliner la prima serata del festival e assieme alla sua band di ottimi musicisti fa vibrare il locale con melodie deliziose e liriche dense di sentimento e amore. Peccato che in tanti abbiano deciso di saltare il concerto per andare a infilarsi nell’ultima corsa notturna della metropolitana. I pezzi sono quasi tutti potenzialmente ballabili ma i pochi rimasti più che cedere al movimento corporeo dedicano attenzione alle parole in italiano che escono dalle casse. Le canzoni di Paletti sono imbevute di sentimenti ma non cedono mai al sentimentalismo. Sono liriche curate che si appoggiano a una musica dolce ed estremamente melodica. In scaletta trova posto la cover di “Una cellula”, brano tratto da un disco cult come “Fetus” di Battiato che nella versione di Paletti è completamente spogliata del suo involucro elettronico-psichedelico mentre resta in evidenza la sua anima più melodica, esperimento riuscito.
(His Clancyness)
Sabato l’atmosfera è più calda, c’è più gente in sala e a chiudere il festival ci sono His Clancyness da Bologna, Testaintasca e Marcello e il mio amico Tommaso che giocano in casa. Jonathan Clancy non ha bisogno di troppe presentazioni, il suo è sicuramente uno dei concerti più intensi di tutto il festival, fin dalle prime note si intuisce che il livello è quello di un gruppo di musicisti impeccabili che si è fatto le ossa anche su parecchi palchi europei e negli Stati Uniti. L’ispirazione del gruppo ha radici classicamente rock ma l’atmosfera che si diffonde è squisitamente pop e a tratti può ricordare i lavori di Kurt Vile. La qualità è raffinata, la sala si riempie non appena il gruppo comincia a suonare ed è impossibile non essere rapiti da canzoni come “Machines” o “Summer Majestic”. Il concerto si chiude con un esplosione sonica al culmine di un crescendo che lascia nel locale un senso di soddisfazione palpabile tra i presenti.
L’atmosfera cambia radicalmente con il set dei Testaintasca. Il quartetto romano-pugliese suona (molto bene) puro rock’n’roll estremamente ballabile, festaiolo e sfrontato. L’EP di cinque tracce appena pubblicato non rende l’energia incandescente che questa band riesce a sprigionare dal vivo. Le liriche in italiano riescono ad essere tanto invettive incisive quanto caciarone, hanno la forza ubriaca dei migliori pezzi di Vasco Rossi e uno stile personale. La gente balla davvero e canta, si divertono tutti, compresi anche loro sul palco. L’ultimo gruppo è di Roma e si chiama Marcello e il mio amico Tommaso. Sul palco sono in sei e si presentano con violoncello, oboe, chitarra e clarinetto ad accompagnare le voci e le poche percussioni. Si fanno apprezzare da subito con una cover di “The Luckiest Guy on the Lower East Side” dei Magnetic Fields. Per tutto il resto del concerto cantano in italiano su melodie orecchiabili che ricordano Beirut ma anche l’atmosfera delle canzoni di Gino Paoli negli anni ’60. Con gioia adolescenziale e molta ironia raccontano essenzialmente tutto quello che può essere l’amore. Storie romantiche che possono nascere in spiaggia d’estate ma anche nella corsia di una piscina comunale. Alle due e mezza stanno suonando l’ultima canzone del loro concerto con impianto spento improvvisando a cappella e ballando con il pubblico sotto il palco. Il RomaPop di quest'anno non poteva chiudersi in maniera migliore.
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L'articolo Roma Pop Fest 2013 di Filippo Cicciù è apparso su Rockit.it il 2013-05-17 00:00:00
COMMENTI (1)
Ciao Filippo, grazie mille per la tua recensione (nonostante il ritardo)! Solo una piccola correzione: le foto sono mie (Prescilla Gringott, una delle organizzatrici del Festival) non della cara Rosy, che comunque ha seguito e fotografato l'edizione :) ti ringrazio!
Ancora grazie,
Priscilla