“Ti ricordo, bimbo, chi saresti con ‘sta sberla
Senza Sanremo, senza l’estivo, senza Petrella”.
Se per l’estivo c’è ancora un po’ di tempo, seppur nemmeno troppo, il giorno è ormai arrivato per le altre due voci citate nel suo Power Slap da Marra per tratteggiare il tragicomico processo di omologazione cui sta andando incontro la musica italiana. Già, perché oggi non c’è Sanremo senza Petrella (inteso come Davide, per chi non sia del settore: autore numero uno in circolazione ormai da parecchio tempo) e non c’è Petrella senza Sanremo. Ma nemmeno senza Jacopo Ettorre, Federica Abbate, Antonacci, Simonetta e gli altri parolieri e melodisti che da anni hanno preso in ostaggio il consesso più nazionalpopolaredella musica italiana, firmando buona parte dei brani in concorso.
Da questo punto di vista il quarto Festival di Carlo Conti, che torna a dirigere la rassegna alcuni anni e parecchi Tali e Quali Show dopo, segna solo un parziale ridimensionamento dell’ipertrofia voluta da Amadeus. Pochi autori e, mai come quest’anno, poche idee per quanto riguarda i temi da trattare e il modo in cui trattarli.
Quello che invece pare un cambiamento radicale è lo stile del conduttore e direttore artistico, evidente sin da questo 20 gennaio, il Thanksgiving di ogni giornalista italiano che si rispetti,il giorno degli ascolti in anteprima delle canzoni in gara al Festival di Sanremo, il giorno in cui chi scrive dopo tante mortificazioni si riscopre di essere dei privilegiati, o per lo meno ci si può autoconvincere di ciò.
Per gli ascotli dagli studi Rai di Mecenate si passa alla storica sede di Corso Sempione a Milano, passando davanti a immagini storiche di Carosello, dell’Albero Azzurro e Quelli che il calcio. A un certo puntoMarino Bartoletti esce da una stampa alla parete e compare accanto a noi sulle sedie dello studio, anche lui con i fogli con i testi in mano e il notes degli appunti.
Rispetto all’era Amadeusla restaurazione contiana è all’insegna dell’understatement. Lui si presenta vestito casual con le daddy shoes bianche ai piedi, l'unica concessione al giovanilismo imposto dal ruolo è la scelta di sedersi su un tavolo con le gambe penzoloni. Accanto a lui, non parlanti, dirigenti Rai vari, ovviamente uomini, bianchi, non esattamente di primo pelo.
Non c’è nemmeno il dj Massimo Alberti, scudiere musicale di Amadeus, che negli ultimi anni aveva trasformato queste sessioni d’ascolto collettive in dei rodei di provincia. Ora i pezzi partono dalla regia, inizialmente tutti sbagliati. Niente spettacolarizzazione, niente compiacimento. Carlo Conti dichiarerà più volte di voler puntare tutto sulla musica, pochissimo spazio a grandi ospiti, linee comiche e monologhisti in cerca di problematiche da esibire. Questo sembra il mandato e ben venga. Già non perdoniamo a Carlo Conti di averci illuso con la scelta di tornare a 24 artisti in gara, poi prontamente rimangiata (a furor di concessionaria pubblicitaria), almeno Angelo Duro che ce lo risparmi.
Ecco, i 30 artisti in gara. Troppi, troppissimi.Il vulnus di Sanremo, in fondo, è tutto qua, nella sua incapacità di porsi dei limiti. Già al primo ascolto sentire tutte queste canzoni una vicina all’altra dà le vertigini, confonde, fa sembrare tutto uguale. Figuriamoci dopo cinque giorni di shaker.
Per il resto, prima di passarle in rassegna, non possiamo non notare come da un punto di vista musicale ci sia un miglioramento generale rispetto alla disarmante scorsa edizione, dove tutto suonava uguale e plastificato. C’è ancora tanta cassa dritta, troppa, ma non nella quantità molesta della scorsa edizione. Ci sono anche parecchie ballate, mentre manca del tutto il rock. Latita persino il rap, o meglio non ce n’è mai stato così tanto ma solo in teoria. Perché poi tra tutti gli interpreti che vengono da questo mondo, praticamente nessuno ha portato un pezzo rap.
Se da un punto di vista delle sonorità si registra un piccolo passo avanti, da un punto di vista delle lirichela situazione è abbastanza disastrosa (forse la nostra previsione era ottimistica). Praticamentetutte le canzoni parlano d’amore, anzi di pene amorose, amori finiti, sofferenze: lo struggle oggi serve, è fondamentale, ma l’unica lotta concepibile è quella che poi finisce nel letto. “Non sono state presentate canzoni su temi come guerra e immigrazione, ma se ne parlerà comunque a Sanremo” ha detto Conti. Autocensura? Andiamo bene. “Effettivamente nei brani si parla più di micromondo che del macromondo là fuori, forse anche perché il mondo non va bene e ci si rifugia nei sentimenti” è l’analisi del direttore artistico. Un Aventino dei sentimenti mentre il mondo brucia: ottima idea. Non indugiamo oltre, ecco i nostri voti (con un disclaimer: è un primo ascolto, in condizioni particolari, non stupitevi se il giudizio varierà anche radicalmente nelle prossime settimane).
Francesco Gabbani -Viva la vita 5
Fa quasi tenerezza. Tutti che soffrono per amore, ma lui è l’inguaribile entusiasta (che non si è accorto che Jovanotti esiste già) e fa un pezzo felicione dove mette assieme simil-quotes da Coez e un approccio alla Modà ma più olistico. Per quanto riguarda l'attacco del brano, invece, pare di sentire Eros Ramazzotti. Insomma il solito misha-masha irricevibile, con il sorriso a settantadue denti a favore di camera.
Clara - Febbre 5,5
Inizia la grande sfilata delle Abbate e degli Jacopo Et, mentre un Dardust più morigerato che mai sceglie l’ex Mare Fuori per la sua (se non erriamo) sola sortita in questo Sanremo, per tanti anni suo terreno di conquista. La mossa potrebbe avere senso per il producer marchigiano, perché il pezzo funziona, con la cassa dritta e un profluvio di archi sopra. Prima una strofa trap, che parla di “bling bling” e “feste chic”, poi Clara Soccini si trasforma in Paola e Chiara sul ritornello. Forse è il pezzo con cui vuole diventare una popstar, e suona un po' come una minaccia.
Willie Peyote -Grazie ma no grazie 7
Il titolo sembra preso in prestito dal suo concittadino Shade, ma il rap (in realtà ce n’è ben poco qua) di Willie è di ben altra sostanza. Anzi, dentro a questo mazzo di artisti o autoproclamati tali lui sembra Gramsci. Unica vera canzone, assieme a Rocco Hunt, a smettere di guardarsi l’ombelico. Il ritornello semplice e efficace, le citazioni a Jalisse ma anche agli Articolo 31 buone per qualche titolo e meme. Solo che poi ti parla di vittimismo della classe dirigente, politicamente corretto e “manganellate nelle piazze” e per un attimo ti pare di fare parte di questo mondo assieme a un miliardo di altri umani.
Noemi -Se t’innamori muori 6
Scritta da Mahmood e Blanco, che in questo festival è attivissimo come autore. La prod è di Michelangelo, che ormai da alcuni anni è onnipresente al Festival, con ottimi risultati. Se la Brividi del duo era un duetto classico della tradizione sanremese aggiornata all’epoca della fluidità di genere, qua gli aggiornamenti non sono stati scaricati. È un brano classico e basta, ben scritto e che Noemi canterà alla grande. Forse non c’era bisogno di due così per un pezzo così, ma male non può fare.
Lucio Corsi -Volevo essere un duro 10
E invece è soltanto Lucio. E meno male. Perché è perfetto così. Pezzo che non fa nessuna concessione al contesto. Pezzo alla Lucio Corsi (+ Tommaso Ottomano) in purezza, arioso e più orchestrale del solito, con le chitarre che prendono la scena solo alla fine. Disegna immagini bellissime (la gara di sputi, su tutte), un brano rodariano, sognante, senza tempo. Pezzo “antitrap” che distrugge senza alcuna violenza la retorica del successo, perché l'unica cosa che conta è la nostra fantasia.
Rkomi - Il ritmo delle cose 7
C’è Shablo alla produzione, che si fa concorrenza da sola tipo Fantozzi quando si alzava le puntate da solo all’asta. Ma soprattutto c’è un Mirko ritrovato, che dopo l’esibizione abbastanza fuori luogo di un paio di anni fa, arriva con un suono super interessante, forte di passaggi elettronici affatto banali e un ritornello molto ben scritto. Anche il testo si fa notare nella pochezza della concorrenza: si parla di caos nella testa e caos del mondo, si cerca una chiave al tutto.
The Kolors - Tu con chi fai l’amore 5,5
Chi scrive ha un debole per il modo sapiente e paraculissimo di fare tormentoni di qualità (rispetto alla media, per lo meno) dei The Kolors. Quindi le aspettative erano alte, anche perché assieme a Stash c’era il Dream Team: il solito Petrella, Calcutta e Zef, producer di Marra. Invece niente echi di 80s come al solito e grandi synth avvolgenti, ma la solita maledetta cassa dritta. Sarà un successone, per via del ritornello e di una struttura pop super riconoscibile (lo special il passaggio migliore). Tamarrata che non fa prigionieri, ma non fa per noi.
Rocco Hunt -Mille vote ancora 6,5
Il testo è suo, la musica la solita ammucchiata, da Zef al duo killer Antonacci-Simonetta, che torna in alcune delle cose migliori di questa edizione. Si parte con la chitarra latineggiante, si arriva presto al rap, quello vero (caso raro), che l’artista non frequentava da un bel po’. Con messaggi non scontati – “lo Stato è assente come noi” –, tra i pochi a prendersi la briga di farlo. Dopo Geolier il cantato in napoletano è del tutto sdoganato in questa rassegna, e se il risultato è questo "let's celebrate".
Rose Villain - Fuorilegge 5,5
Il primo festival da Big Big di Rose, che a questo traguardo è arrivata attraverso una marcia a tappe forzate negli ultimi anni. Il ritornello suona un po’ dardustiano, ma manca di top line. Un pezzo dalla doppia anima come quello dello scorso anno, nel tentativo di fare incontrare il presunto urban, il nuovo pop e la canzone italiana. Alla fine il piede pare stare in troppe scarpe per convincere davvero.
Brunori - L’albero delle noci 7,5
Sfidiamo chiunque a chiudere gli occhi e non pensare che sia De Gregori a cantare nei primi 30 secondi del pezzo. Non che sia un insulto, tutt'altro. E infatti il pezzo di Dario è bello, bellissimo, come sempre. Con un grande ritornello e una struggente dedica alla figlia, a come una nascita possa cambiare un uomo fatto e finito. Un pezzo pieno di futuro che parla anche della sua terra: “Sono cresciuto in una terra crudele dove la neve si mescola al miele”. Pare fatto apposta per l’orchestra, anzi è fatto apposta per l’orchestra probabilmente.
Serena Brancale - Anema e core 6
Ci sono Jacopo Et, Federica Abbate, Nicola Lazzarin, Manuel Finotti. Mancano Takagi e Ketra, ma il loro spirito aleggia su tutto il pezzo. L’afflato world music iniziale si spegne dopo poco, poi il pezzo entra in un vortice di cassa dritta (one more time), ritornello da radio, slang rappusi e fiero meridionalismo. Troppa roba, probabilmente. Però lei spacca e live immaginiamo sarà divertente.
Irama - Lentamente 6,5
Anche qui appare Blanco come autore, cui è affidato il compito durissimo di trovare un senso all’ennesima partecipazione di Irama a Sanremo. Quello che viene fuori è una croonerata ai tempi dell’autotune, con un po’ di ululati sul “tu-u-u” iniziale (ecco a cosa serviva Blanco). Il fusso di voce è ininterrotto, mentre il piano scorre sotto. Ovviamente c’è amore e c'è dolore. C’è un po’ di pesantezza di fondo, tipica dell'artista di Monza, ma anche talento e meno retorica di altre volte.
Marcella Bella - Pelle diamante 5
“Forte, tosta, indipendente”. “Stronza forse, ma sorprendente”. “Una mina vagante, sono una combattente”. Che la nuova wave dell’empowerment femminile sia affidato da anni a Sanremo a una generazione di artiste ultrasettantenni (lei, Bertè, Rettore, Ricchi e poveri) qualcosa dovà pur significare. O forse no.
Achille Lauro - Incoscienti giovani 7
Ci sono Antonacci e Simonetta che cuciono addosso a Lauro un pezzo da “Tananai del GRA”. C’è l’epica romana (“L’amore è come una pioggia su Villa Borghese”), l’indigenza e le zingarate. Comunque è indubbiamente una bella canzone, che ci ritroveremo a cantare, con gusto retrò e un’ottima produzione. Solo alla fine arriva un sax a caso, abbastanza orribile, prima dell’enigmatica frase “noi due orfanelli alla roulette”.
Elodie - Dimenticarsi alle sette - 6
Anche qua la cassa parte dopo poco il via ed è parecchio dritta, sostenuta dalla voce sempre precisa di Elodie. Se il testo non si capisce letteralmente dove voglia andare a parare, e forse è un bene, la melodia cresce con il passare dei minuti. La cassa dritta ha rotto il cazzo, soprattutto per artisti che non ne avrebbero bisogno
Tony Effe - Damme ‘na mano 5
Poteva andare peggio, e questo dice molto della situazione in cui siamo. Il brano inizia con il chitarrino, presto diventa uno stornello dark romano. Tempo di pensare a Califano e Tony Effe lo cita nel testo. Cliché di romanità e canzone romana a profusione (“damme na mano, sinno me moro”). Il massimo del maschilismo che si concede è questo: “La domenica ti lascio solo vuoi andare a cena ma c’è la partita”, poi c’è un passaggio vagamente hard e il finale parlato. Tante polemiche e alla fine salta fuori Mannarino.
Massimo Ranieri - Tra le mani un cuore 6
Scritta da Tiziano Ferro e Nek, e potrebbe bastare qua. Dice le stesse cose di Tony Effe, ma con il linguaggio di un gentiluomo del Novecento. C’è pure un sax molto lounge. Romantico, parla di amore e sofferenza tanto per cambiare. Non esce dalla sua confort zone, e ci mancherebbe lo facesse a 80 anni.
Sarah Toscano - Amarcord 5
Jacopo Et, Federica Abbate, la cassa dritta, la nostalgia, l’amore che fa soffire. Perfetta per Tik Tok, ma purtroppo o per fortuna noi siamo esseri umani
Fedez - Battito 5,5
Attesissimo, dance più archi (la formula vincente di questo Sanremo), vengono citate sostanze chimiche e fatti vari riferimenti alla depressione. “Prenditi i sogni pure i miei soldi basta che resti lontano da me” il passaggio che verrà ripreso da mille siti di news accalappia clic. Rimane un pezzo che non lascia molto, nel bene e nel male.
Coma Cose -Cuoricini 7
La cassa dritta pure qua, le sporche effettate. E molto, molto pop, con echi di Hello Kitty in lontananza. Dopo aver cantato la redenzione, i dubbi e il tripudio dell'amore su quello stesso palco, Fausto e Cali si divertono e basta con questo pezzo sfacciato dal ritornello killer. Ricchi e poveri 8.0.
Giorgia - La cura per me 6,5
Ancora Blanco e Michelangelo come autore e produttore, che si aggiudicano il premio “non piangere salame 2025” con il verso “trovarti dentro gli occhi di un cane smarrito”. Il loro merito, soprattutto rispetto al recente passato, è scrivere un pezzo da Giorgia per Giorgia. Dal vivo renderà molto. Non un capolavoro, ma probabilmente spiccherà.
Olly - Balorda nostalgia 6
Molta R Moscia, molto pop nei temi e nelle sonorità. Un altro brano per chi vuole fare il salto, abbastanza addomesticato ma comunque efficace (e almeno non zarro). C’è la fine di un amore e ci sono gli strascichi che lascia. A chiudere il pezzo un momento Vasco Rossi, così, de botto. Da riascoltare. Anche per la classifica potrebbe riservare sorprese.
Simone Cristicchi - Quando sarai piccola 6
Con lui, inutile negarlo (anche se non è affatto corretto), si fa fatica. Per approccio teatrale, eccessi retorici, per quel calcare la mano con i violini che fanno atmosfera a inizio brano. Il pregiudizio è sbagliato, ma lo accompagna. Senza risolvere i problemi menzionati prima, questo è un brano meritorio, che ribalta la prospettiva e parla di una mamma che diventa anziana e del ruolo del figlio che cambia. Una cosa diversa, originale, al di là dell’esecuzione.
Emis Killa - Demoni 5
Autotune e cassa dritta immancabili. Citazioni rap da generatore automatico: “Baci che sanno di Fentanyl”, “il cartello di Cali”. Tra i mille modi di parlare d’amore, uno dei meno interessanti.
Joan Thiele - Eco 7,5
Con Joanita ci sono Mace e Emanuele Triglia e potrebbe già essere a posto così. Il pezzo è Mina che fa la colonna sonora di un film di Tarantino. Il ritornello con il “bang bang” è da appassionati del genere. In generale un brano elegante, raffinato, stilosissimo, stratificato in una competizione dove vince il fast food. Non vediamo l’ora di risentirlo e carpire cose che a un primo ascolto non possono arrivare.
Modà - Non ti dimentico 5
Testi e musica sono di Francesco Silvestre e si sente. I Modà fanno simpatia ma sui 30 di Sanremo sono come i nipoti al saggio: devi ascoltarli per forza anche se non ne puoi più da ore.
Gaia - Chiamo io chiami tu 6
Ritornello facilissimo e tik-tokkabilissimo, al limite dell’illegale, con una prod che sarebbe stata perfetta per Mahmood. Le radio si sfregano le mani.
Bresh -La tana del granchio 6
Ballatone d’amore (di un inadeguato cronico), tanto per cambiare. C’è tanto mare, sin dal titolo, e tanta genovesità (nelle immagini e nella "scuola"). Bresh propone un approccio alla scrittura originale – “Se il mare si è salato è perché un marinaio ci ha pianto sopra” – a metà tra Gino Paoli e una vignetta di Rat Man. Potrebbe crescere con il tempo, come naufragare nel mare magnum di un'edizione monstre.
Francesca Michielin -Fango in paradiso 6
Firma il pezzo con Raina e Simonetta ed è tra i più crudi a parlare di delusioni d’amore. Ma comunque parla di pene d’amore. Lei lo canterà benissimo, prevediamo. Potenzialmente da classifica.
Shablo - La mia parola 7,5
Con Guè (anzi ghè, come dice ormai solo Carlo Conti al mondo), Tormento, Joshua Bale. Pezzo Street Rap vero, con beat "black and proud" che vira sul gospel e tre voci magiche che si incastrano. “La voce del blocco suonerà più forte” si sente al culmine di un anthem che rimanda al culto del rap italiano e non concede nulla alla platea per la quale sarà eseguito. Un grande modo di fare Sanremo e una hit bellissima.
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L'articolo Sanremo 2025: le pagelle delle 30 canzoni in gara dopo l'ascolto in anteprima di Dario Falcini è apparso su Rockit.it il 2025-01-20 17:27:00
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