A Sanremo avrebbero fatto prima a portare una sola grande canzone

Chi fosse preoccupato per l'impatto di DeepSeek sulla musica, dovrebbe leggere i credits dei 30 (anzi 29) brani di Sanremo: 2 su 3 sono stati scritti dagli stessi autori o lavorati dagli stessi producer. Senza accorgercene siamo tornati al tempo degli interpreti, senza più nemmeno il "bel canto"

Grafica di Beatrice Arrate
Grafica di Beatrice Arrate

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C’è questo pezzo del Sole 24 Ore di qualche giorno fa che ha un attacco clamoroso. «Chi ha intelligenza, calcoli il numero della Bestia, perché è un numero d’uomo: questo numero è 666», recita l’Apocalisse di Giovanni. Un numero enigmatico, oscuro, diabolico che ha ispirato tanta musica eccellente, dal prog degli Aphrodite’s Child al metal degli Iron Maiden. Nessuno avrebbe mai scommesso che ce lo saremmo ritrovati tra i piedi alla vigilia di Sanremo 2025, eppure:il 66,6% dei brani in gara alla prossima edizione del Festival della canzone italiana è stato scritto dagli stessi 11 autori. Venti pezzi su trenta (Emis Killa allora era ancora in), per essere più precisi”. 

Così inizia l’articolo a firma di Francesco Prisco, che ha fatto una cosa molto semplice: andare a leggere i crediti dei brani in gara al Festival, dall’11 al 15 febbraio, e applicare a questi nomi le proprie abilità di calcolo. Il dato che emerge è abbastanza clamoroso. In tendenza con quanto avvenuto negli scorsi anni, certo, ma è altrettanto certa l’escalation. L’anno scorso, scrive sempre il Sole, 13 autori avevano scritto dalle due alle quattro canzoni in gara a Sanremo. Quest’anno “il perimetro del club si è ristretto a 11 elementi, main cinque superano la barriera delle tre canzoni firmate”. 

La più prolifica di tutti è Federica Abbate, che compare come co-autrice di musiche e/o parole di sette pezzi in gara. Cinque sono le canzoni di Davide Simonetta, penna dietro ai recenti successi di Annalisa e di Tananai. Davide Petrella, l’autore più di successo degli ultimi anni in Italia, sta su quattro brani, così come Jacopo Et aka Jacopo Ettorre. Novità di quest’anno, Blanco (assieme al socio Michelangelo alle musiche) che dopo aver disboscato il palco ritorna all’Ariston come autore di tre pezzi. A quota due Paolo Antonacci, figlio di Biagio e nipote di Morandi, altro autore di hit assolute, spesso in coabitazione con Simonetta.

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Ci sono poi i producer: Cripo, nome d’arte di Nicola Lazzarin, è presente in quattro pezzi, Zef, da tempo al fianco di Marracash, e Luca Faraone in tre. Infine il curioso caso di Shablo, producer del proprio pezzo e di quello di Rkomi (perché lui alla figura di artista, autore, producer aggiunge quella di manager: turbocontemporaneo). Brunori e i Modà gli unici che si sono fatti tutto da solo, Lucio Corsi e Cristicchi hanno lavorato, di consueto, con il loro ristretto gruppo di lavoro, in una dimensione quasi familiare. 

Fine del lungo prologo, che se non altro può fornire un po’ di contesto all’infinita sfilza di nomi che sentiremo leggere da conduttori e conduttori almeno 90 volte in quei giorni di frullatore musicale. Che poi a pensarci bene, avrebbero potuto fare una cosa alla We are the World, un solo grande pezzo scritto e prodotto da tutti (già ma chi è Quincy Jones?) e cantato a turno dai 30 (anzi 29) cantanti in gara.

Al di là delle battute, vanno fatte delle specifiche. Ogni pezzo fa storia a sé, e in ogni caso non c'è un giusto e uno sbagliato: c'è musica bella, musica brutta e musica "così così", a prescindere dalla quantità di persone che ci lavorano. Per alcuni pezzi sono stati messi al lavoro dei team abituati a fare le cose in concerto, che hanno agito in maniera collaborativa, alcuni hanno fatto le cose in presenza e altri a distanza, alcuni hanno diviso i ruoli a seconda di necessità e talenti: chi si è dedicato alle lyrics, chi a melodie e a top line, chi ha curato il suono. 

Tutto questo c’è sempre stato, secondo i modelli produttivi e le logiche di mercato che si sono susseguite nel tempo. Gli autori esistevano nella canzone italiana degli anni ’50 e ’60 e non hanno smesso di esistere nel dominante rap americano di inizio millennio, con casi clamorosi tipo quello del ghostwriting di Drake. Negli anni, grazie a determinate “ondate” musicali, ci eravamo abituati a nuove prassi e ad apprezzare nuovi tipi di artisti. Prima i grandi cantautori e poi il rap avevano imposto la figura del cantante che scriveva, e dunque “sentiva” le proprie parole, a discapito dell’interprete, su cui si reggeva il sistema ai tempi del “bel canto”. 

Ora siamo tornati almeno in parte all’ancien regime. Solo che del bel canto non frega più nulla a nessuno. Gli interpreti sono quelli che anzitutto funzionano meglio come “personaggi”, gli autori quelli che meglio sanno cogliere tendenze musicali e stilistiche del momento e restituirle sotto forma di canzone a chi può fare i grossi numeri. 

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Questo ha delle conseguenze. Non tutte nefaste, alcune però per lo meno preoccupanti. I pezzi finiscono per somigliarsi molto (e se inseriti in uno shaker come quello di Sanremo, ancora di più), un anno fa questa tendenza era addirittura clamorosa, con quella cassa in quattro che continuava a suonare in testa anche quando il brano era finito. È un po’ come il discorso che fa su politica ed economia Mark Fisher in Realismo capitalista: dopo un po’ non si riesce nemmeno più a immaginare un suono che non sia quello, che possa esistere qualcosa al di fuori (ci sono poche ma lodevoli eccezioni). Prova ne sarebbe quello che ha detto Carlo Conti, che sostiene di non aver guardato nomi di autori e produttori per scegliere i brani in gara. Ancora peggio: vuol dire che i “magici 11” hanno trovato la formula magica e ormai quello che fanno va in automatico, che ci sembra il “migliore” perché combacia con i canoni che abbiamo in testa.

Non è un caso che i pochi pezzi veramente autorali del prossimo Sanremo siano quelli con uno o massimo due autori. A rischio di generalizzare (Tango di Tananai è un esempio di un grande pezzo, lavorato in questa maniera), ma è molto difficile che si possa giungere a un grande livello di profondità quando ci si lavora in cinque o sei, e metà di essi sono quelli che hanno lavorato a brani di tutt’altri artisti con tutt’altre aspirazioni. Allo stesso tempo, ci sono generi che ne escono penalizzati. Non ci sono mai stati così tanti artisti provenienti dal mondo del rap come al prossimo Sanremo, ma nessuno di loro (o quasi) farà rap, in senso tradizionale. Tutto diventa un generico pop, un mischione di suoni del momento e strutture basilari dei brani, metabolizzate da tutti (sia Marra che Gué in tempi recenti hanno detto questa cosa, ed è difficile dargli torto). Fare rime e costruire tutto sull’intreccio tra beat e sul peso delle parole, come da manuale della disciplina, è qualcosa che un hitmaker da radio difficilmente potrà sobbarcarsi.

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Lo ripetiamo non c’è nessuna condanna, le persone citate sono professionisti bravissimi (anche perché se no non avrebbero i risultati che ottengono) e le pratiche citate sono solo l’aggiornamento 44 punto zero di qualcosa che c’è sempre stato. Ma se, come recita un meme di queste ore, DeepSeek ha già tolto il lavoro a ChatGPT, quanto tempo ci metterà a togliere a un pugno di autori che tende sempre più a canonizzare la canzone di alta classifica?

C’è un risvolto positivo, quello che ogni ottimista riesce sempre a trovare. Se tutto si conforma, chi non smetterà di fare le cose a modo proprio avrà maggiori possibilità di essere notato. È un po’ quel discorso della pecora nera, ce ne rendiamo conto, ma siamo convinti che, per quanto ristretti, gli spazi ci sono, e ce ne saranno sempre più. 

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L'articolo A Sanremo avrebbero fatto prima a portare una sola grande canzone di Dario Falcini è apparso su Rockit.it il 2025-01-30 09:51:00

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