Quando mi portarono per la prima volta a sentire Franco Battiato era il 1992. Debuttava con successo a Roma, come da abitudine oramai dal 1987. Questa volta però né al Sistina né all'Auditorium ma direttamente al Teatro dell'Opera. Era il 5 giugno, in promozione della sua seconda opera lirica, quel Gilgamesh che a dicembre lo avrebbe portato fino a Baghdad per un concerto che fece epoca. Ci andai quasi per sbaglio per volontà di una zia parecchio eclettica. Avevo circa quattordici anni ed ero in botta fissa per un altro live micidiale, quello alla Brixton Academy di Londra degli immensi Faith No More.
Mi giravo e rigiravo nervoso. Avrei voluto sputare in un occhio a ciascuno dei presenti. Mille o mille e settecento, quanti fossero. Non sopportavo l'umore da ricerca vana di un centro di gravità permanente in cui si proponeva mestamente la grande maggioranza dei paganti. Ero in una fase decisiva della mia formazione musicale e le mie idee sui comuni ascolti musicali erano piuttosto fasciste; i pot-pourri così come il saltare di palo in frasca, da un genere a un altro, alla ricerca del proprio nirvāṇa musicale era sintomatico di insicurezza e quindi una sconfitta.
Non conoscevo ancora la profondità delle liriche del Maestro, ma nemmeno chi fosse, da dove venisse, quel signore (allora) barbuto, seduto a gambe incrociate su un tappeto arabo comperato (si ironizzava) direttamente a Teheran. Per me era pressappoco un invasato che, dopo essere stato per undici anni a cantare Cucurrucucú Paloma / Ahi ahi ahi ahi ahi cantava, ora si proponeva con un melodramma in due atti sul sovrano di Uruk e personaggio principale di alcune epopee religiose mesopotamiche. Lallero, pensavo. Ignorando che, dieci anni dopo, alcune delle band che avrei amato di più, dagli Ulver ai Neurosis, avrebbero fatto altrettanto.
Così come non sapevo che fosse nato in un luogo dove passo quasi ogni anno per raggiungere il luogo dove vado in vacanza: a Giarre-Riposto, in provincia di Catania. Concepito in una notte d'Equinozio nella primavera del 1945 in quella che fino a tre anni prima veniva ancora romanamente chiamata Ionia. "Se un figlio si accorgesse che per caso è nato fra migliaia di occasioni capirebbe tutti i sogni che la vita dà, con gioia ne vivrebbe tutte quante le illusioni" cantava in Energia, contenuta su Fetus (Ricordi, 1970).
Scoperto artisticamente negli anni Sessanta da Giorgio Gaber, che lo propone alla Casa Discografica Ricordi, dopo la canzone di protesta e il cantautorato romantico, partecipa attivamente negli anni Settanta alle correnti di ricerca e sperimentazione europee i cui strascichi artistici (inutile negarlo) si sono protratti fino ai giorni nostri. "Non voglio sentirmi intelligente guardando dei cretini, voglio sentirmi cretino guardando persone intelligenti", disse una volta parlando del nascente fenomeno dei reality.
Controverso più per natura che per necessità scenica, ama rifugiarsi da sempre in un eremo siciliano vicino Milo, alle pendici dell'Etna. La solitudine e la riflessione della sua terra, però, non lo allontanano da una lucidissima e disincantata osservazione - e comprensione - del reale e dell'ultraterreno, filtrata poi con un'incredibile sensibilità nella sua poetica. "Più diventa tutto inutile e più credi che sia vero. E il giorno della fine non ti servirà l'inglese" analizza sardonico ne Il Re del Mondo, contenuta in L'era del cinghiale bianco (EMI, 1979).
Francesco Battiato, per tutti Franco da quando Gaber gli propose di cambiare il nome per non confondersi con Guccini ("Da quel giorno in poi tutti mi chiamarono Franco, perfino mia madre"), è sempre stato considerato il cantante più complicato d'Italia. Non solo la musica, ma anche i testi riflettono i suoi molteplici interessi, tra i quali l'esoterismo, la cromatologia e la mistica sufi. Proprio come David Lynch per il cinema. Battiato per molti è quello che "A Beethoven e Sinatra preferisco l'insalata, a Vivaldi l'uva passa che mi dà più calorie" (da Bandiera Bianca) e quello dei "Gesuiti Euclidei vestiti come dei bonzi per entrare a corte degli imperatori della dinastia dei Ming" (da Centro di Gravità Permanente).
Eppure, qualunque sia la vostra istruzione scolastica, sarebbe bello essere tutti concordi sul fatto che la presenza defilata di un Franco Battiato abbia fatto del gran bene all'Italia; in quanto innovatore assoluto in passato e musicista di classe mondiale in tempi più recenti. A patto che riuscire a stregare uno come Antony Hegarty alla soglia dei 70 anni voglia ancora dire qualcosa e non sia considerata solo una cazzata nella vita di un artista. Certo però deve essere frustrante. Non essere capiti per quasi una vita intera.
"Nel 1982 in concerto a Verona intonai Centro di Gravità Permanente e mi ritrovai quattromila braccia tese: fu allucinante" disse al Corriere della Sera due anni dopo quella mia prima volta, nel 1994. Oppure essere capiti a fondo soltanto da pochi eletti. O peggio ancora essere inseriti in un calderone che comprende di tutto e di più perché tanto sono sempre e solo canzonette. La Cura, La Canzone di Marinella e Serenata Rap. I Treni Di Tozeur, Le Radici Ca Tieni e Rotolando Verso Sud.
Eppure nella lunga carriera di Battiato quasi ogni sua canzone è riuscita a fare anche da collante sociale: per questo motivo non mi stupisco più, ricordandomi che in quella sera di oltre venti anni fa si aggiravano strani tipi con la maglietta di Siouxsie and the Banshees e improbabili studiosi di antropologia con sottobraccio saggi di Bruce Chatwin convinti d'essere a un rendez-vous con Karlheinz Stockhausen.
Se dovessi tornare indietro, magari mi sarei lo stesso frantumato i coglioni sentendo quelle non-canzoni, costruite praticamente solo su armonici naturali. Nonostante fosse di notevole effetto, il risultato della ricerca di Battiato sulle "voci di dentro" e su le nuove possibilità di espressione verso una vocalità più profonda, da adolescente, te le stoppi beatamente laddòve potete ben immaginare. Avrei avuto pur sempre quattordici anni.
Però forse, con un pizzico di sale in zucca in più, invece di stressarmi cercando di trovare il modo di piazzare una bomba nei bagni del Teatro dell'Opera di Roma, sebbene facesse "molto punk", avessi ragionato di più su ciò che stavo vivendo in quel momento, non avrei poi atteso quasi dieci anni prima di andarmelo a vedere per le sue canzoni. L'animale, Venezia-Istanbul, Gli uccelli, E Ti Vengo a Cercare, Prospettiva Nevski, Un'Altra Vita, No Time No Space, Breve Invito a Riviare il Suicidio, perfino Summer on a Solitary Beach e Solitary Road.
Assaporandone così l'anomala empatia tra disadattati, e una particolare propensione a un ascolto di un sé più intimo, più attento.
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L'articolo Si poteva non amare Franco Battiato, l'importante era cambiare idea di giorgiomoltisanti è apparso su Rockit.it il 2021-05-18 16:04:00
COMMENTI (1)
Meglio tardi che mai.