Ben distanti dal giro di boa di questo anno beffardo, ahinoi, ci siamo resi conto che alcune delle cose più interessanti che fin qui abbiano fatto vibrare le nostre antenne arrivano dal fondo della penisola. Sarà che a sentire l'inedito della triade Colapesce/Dimartino/Consoli, Luna Araba, si comprende perché la stampa gridi al miracolo a ogni singola nota che provenga dai vari strumenti con cui si dilettano Cesare Basile o Alfio Antico, o sarà invece che la Sicilia e i siciliani si sono rotti i cabbasisi (à la Montalbano) di interpretare solo la parte della terra di confine, con relativo sentore di inclusione/esclusione dal resto dello Stivale e affinità geografica/culturale ad altre terre scartate dall’interesse discografico nazionale, dall'Africa al Medio Oriente.
Mettetela un po’ come vi pare, fatto sta che da Palermo a Catania, passando per Messina e Siracusa, continuano ad arrivare opere lontane dalla solita smania di piacere alla gente che piace, e che proprio per questo funzionano eccome. Non tanto per qualche ipotetico taglio alla Battiato, che oramai suona “originale” solo se a usarlo è Ruggero de I Timidi. Laddove il punto di vista privilegiato di alcune voci siciliane nate negli anni '70 e '80 si è all’improvviso normalizzato, nazionalizzato (anche se mai istituzionalizzato), sull'isola si riesce ancora a trovare, se non sempre nuova linfa vitale, una terra ancora franca. Una manciata di dischi ostinati, eroici, febbrili e pieni di trasporto, che si distanziano dai lavori esili e in costante rimando a “scene” preesistenti, altrove, in Liguria, in Emilia, in Toscana.
Per onore al merito, partiamo dagli autori che a inizio decennio Guido Gambacorta definì “perfettibili e non privi di qualche ingenuità, ma assolutamente autentici”, e che, alla prova del nove, non hanno fallito uniformandosi a una serie di stereotipi itpop che fanno magari la gioia degli universitari, ma non di chi ha le orecchie più allenate. Il nome più prevedibile è Colapesce. Un giornalista del Mucchio, mi scriveva a suo tempo di Egomostro “un percorso dagli arrangiamenti superficiali”. Per proseguire: “Un Meraviglioso Declino era un disco pieno, sia per arrangiamenti che per testi, ora sono rimaste solo le parole in un contorno del tutto prevedibile”. Davvero. Ma già da Infedele traspariva, e tanta, la voglia di scoprire e di scoprirsi. L'idea infine di duo con Dimartino con I Mortali, in uscita il 5 giugno, ha "salvato" entrambi, svelando un'immutata capacità nel saper maneggiare la “poetica banalità” del quotidiano in modo onnivoro.
Dalla pausa de Il Pan del Diavolo nasce Alosi, con il quale Pietro Alosi riscopre la ricerca melodica in salde radici più rock che folk. Dimartino lo avevo lasciato nei panni della pecorella smarrita, con le sue collaborazioni d’élite con Francesco Bianconi e Cristina Donà, e un brano (Come Una Guerra La Primavera) che sembrava voler prendere a piene mani da Dalla, senza del riuscirci. L'ho trovato figliol prodigo di una svolta leggera-per-finta, Afrodite, che, al netto della distanza dai primi album, sotto l'apparenza pop cela architetture più complesse. Nicolò Carnesi ce l’eravamo perso nell’iperspazio tempo fa e lì è rimasto. Completamente andato (in senso buono, si capisce) nel suo tentativo d’aggiornare il cantautorato italiano ai Mumford & Sons e ai Magnetic Fields, per poi sfociare in versi dal vago retrogusto Sorrenti. Una vita prima di Andrea Laszlo De Simone.
Così, al grido di “dateci pure il resto!” c'è chi ha iniziato a chiedersi da quali altre realtà siciliane si potesse andare a piluccare del buono, con buona pace del hype. Perché, se questo è il mondo emerso, c'è anche un sottobosco affatto da meno. Ovviamente c'è chi ha seguito la scia e chi ha fatto il salto del fosso, con soluzioni esterofile: vanno di sicuro capiti, ma non è di loro che parleremo. Accenneremo invece a quei nomi fragili, timidi, ma anche combattivi, ambiziosi, sognatori, colti. La piccola compagine di ragazze e ragazzi, qualcuno rimasto sull'isola, qualcuno emigrato al Nord o addirittura oltreconfine, ma con la Sicilia e la sicilianità radicata nella propria produzione artistica.
Vite diverse, stesso sogno: far musica raccontando le proprie storie con il suono della propria terra. A volte palese, a volte camuffato; a volte vitale, a volte così penoso e tormentato da risultare ostico, soprattutto per l'ascoltatore (da sempre) abituato a stare allegro. “Che musica vuole dire intrattenimento, che ti credi?”, come si è sentito enunciare da una nota etichetta uno di loro, ben prima del capo del governo e della sua intemerata delle ultime ore.
Ci son i vagabondaggi dei palermitani Senhor Mutrio, che già nel titolo del loro ultimo lavoro, Falso d'Autore, celano l'anima di Ballarò sotto l'ammiccamento gitano. Oppure il catanese Salvo Asero, che con Spiritual Panelle usa il mezzo-chitarra per dipingere quadri della sua terra, tanto quanto Vini Reilly dei Durutti Column faceva con l'Inghilterra. C'è poi Sara Romano, con il suo cantato apolide in italiano, spagnolo e siculo.
I Novanta di Manfredi Lamartina riescono a dare un'impronta mediterranea tutt'altro che scontata a generi oramai terribilmente stereotipati come lo shoegaze e il dreampop. Il siracusano Alì e la sua poetica dell'isolamento di Facciamo Niente Assieme sicuramente molto deve alla vita insulare. Il cantato profumato di agrumi di Gianluca Gill, che a Berlino ha portato un po' di mare e di verbosità catanese, un po' come Emanuele Calì, in arte Calgolla, portò i non-sense di Battiato, ma con più originalità.
E ancora i naif Calogero Incandela, Lello Spontini, Giulio Pelio Penna e i cult assoluti Davide di Rosolini o I Fratelli la Strada, e poi basta, se no vi annoio. Fino ad arrivare ai temerari tout-court. Che lanciano veri e propri tributi in dialetto, impavidi o improvvisi, alla Sicilia. Chiddi chi Erumu, ballata d'umore antico di Adèl Tirant; Canzuni pi Giuda ‘Scariota, notturno del ragusano Leonardo Gallato; i lavori e un altro in arrivo di Alessio Bondì o l'omaggio ai messinesi Konsertu di Teresa Capuano, in arte Katres.
Lascia invece da pensare il fatto che, se si mette un accenno della propria terra natia, che so, una Rosa Balistreri, uno scacciapensieri, un rimando al Mediterraneo, in genere viene ancora applaudito per il suo essere genuinamente personale e ambizioso. E quando una voce oramai stranota come quella di Carmen Consoli accenna mezza strofa (o un testo, per ‘A Finestra ci fu un plebiscito) in dialetto catanese, giudici di prestigio non esitano a definirla “una scelta temeraria che appartiene oramai solo al 1% dei grandi artisti italiani” (Flavio Brighenti). Mentre io mi chiedo se il giornalista della Repubblica abbia fatto uno studio scientifico prima di formulare questo suo postulato, alcuni diretti interessati sembrano voler rispondere con una “globalizzazione” del pacchetto offerto. E se globalizzazione vi pare troppo, chiamatela pure “italianizzazione”.
Penso istintivamente a Levante, ma potrei dire Mario Venuti o Giusy Ferreri o Mario Biondi o, per certi versi, quei Marta Sui Tubi o i La Rappresentante di Lista che di sicuro sono scesi a più compromessi dei Bestiame. Celebrando ciò che lo studioso Lawrence Grossberg chiamava già nel 1996 nel suo libro The Audience And Its Landscapes “inautentica autenticità”, quel senso di “falso genuino” che si prova trovandosi davanti gruppi di afroamericani intenti a suonare indie, piuttosto che intonare un gospel. Che potrà sembrare anche un elogio a tutti i cliché di questo mondo, ma è anche la psicologia spicciola dei più sentirsi meglio se parte d'un gruppo riconosciuto anzichenò. In fondo è un modo di essere artisti anche questo, e che non mette minimamente in ombra i meriti sul campo, ma che alle persone più idealiste o cervellotiche (come me) fanno tornare in mente patacche antiche come i catanesi Sugarfree e creano qualche scompenso nella misura in cui faticano a capire il confine tra creatività e voglia di piacere.
Mi viene allora in mente un’intervista di almeno dieci anni fa a Leonard Cohen, quando, parlando del suo trasferimento a ventitré anni da Montreal a New York, disse: “Pensavo di trovare due città molto simili. Mentre in Canada avevamo musicisti innovativi, in un certo senso mi resi conto che la vita da noi era più allegra, più semplice, più divertente e con molte meno sovrastrutture“. E ancora “a New York il mercato era estremamente importante e i musicisti si prendevano molto sul serio, tutti erano concentrati e pensavano ai media e all’apparenza mentre a Montreal non accadeva. Lo scopo in America non era fare bene le proprie cose, era piuttosto diventare riconoscibili come grandi scrittori, popstar o punti di riferimento per la cultura mondiale“.
Nel caso dei cantanti della "nuova" "scena" "siciliana" questo genere di pericoli sono tutti dietro l'angolo. Pare che la sberla che arriva con l’ingresso nel mondo ufficiale possa coincidere già con il superamento dello stretto di Messina e rimbecillirti del tutto per gli anni a venire. Allora l'essere siculi, così come accade a molti altri senza bisogno di sfornare dischi, è divenuto simultaneamente sia una carta in più nel mazzo, ma anche un due di spade quando regna bastoni. Un qualcosa che ispira curiosità, ma lì si ferma. L’ennesima sfumatura che rischia d'essere inghiottita nel mare monstrum della scuola canora all'italiana, per consentirci di cogliere un capogiro di presunta novità, senza però perdere le solite coordinate oramai collaudate da gruppi d’appartenenza, codificate in scale e accordi oramai storicizzati e consolidati da capisaldi di genere. Due palle, insomma. Evitiamo.
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L'articolo Sicilia, la regione che vanta innumerevoli tentativi di omologazione di giorgiomoltisanti è apparso su Rockit.it il 2020-05-14 14:43:00
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