Simona Gretchen: storia del mio suicidio

Due dischi, il successo della critica. Poi puff, sparita. A dieci anni da “Post-Krieg”, – l’album che ha segnato il punto più alto della sua carriera e l’inizio della fine – Simona Darchini ci racconta come e perché ha ucciso il suo alter ego artistico. Per non rimanerne intrappolata

Simona Gretchen in una foto di qualche anno fa
Simona Gretchen in una foto di qualche anno fa

Vi capitasse di aver sottomano ambedue gli album pubblicati da Simona Gretchen, confrontate le vesti grafiche, le copertine: vi sembrerà quasi d'avere di fronte i lavori di due artisti diversi. L'una celata, assorta e melanconica (colei che canta Fockus), l'altra dinamica, sensuale, persino aggressiva a suo modo (l'interprete di Hydrophobia). Esistono quindi due Simona Gretchen? Una di Gretchen Pensa Troppo Forte (2009, Disco Dada) e una di quel Post-Krieg (2013, Disco Dada/Blinde Proteus) del quale il 21 di questo mese ricorre il decimo anniversario? Ci sentiamo di rispondere negativamente a entrambi i quesiti. Anche perché, solo pensando a queste identità, ce ne vengono in mente almeno altrettante: quella di Trovarobato (Iosonouncane, Dino Fumaretto, bla...), per i bel 7” del 2011 con un dilaniante inedito e una cover dei Velvet Underground, e quella creatrice dell'etichetta Blinde Proteus.

Allora vien da sé pensare che Simona Gretchen sia stata invece una di quei rari protagonisti della novella indie che altri non ha mai interpretato che se stessa, con spregiudicata ed ammirevole incoscienza. Precedendo, prima, di almeno tre anni l'avvento di Maria Antonietta (next big thing nel 2012) e superandola, poi, in meno di due in quanto capacità d'ingegno nel rinnovarsi. L'andamento anarchico che ne ha tracciato l'attività pubblica, fosse essa rappresentata da canzoni e dichiarazioni, è quello tipico dei casi in cui vi è identità tra Artista e Persona. Suscettibile pertanto di mutamenti e complicazioni ma mai di conversioni e contraddizioni in quanto, come dice a volte David Lynch, le persone non cambiano: si rivelano.

 

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Simona Gretchen è cresciuta e maturata come capita a ciascuno, con la semplice ma assai cruciale differenza che nel suo caso la metamorfosi è avvenuta in neanche cinque anni (va là, come i Germs!) e indipendentemente dalle allettanti luci dei riflettori e dai volti incuriositi di decine di persone, tra critici e non. “Potevo suicidarmi o fare qualcosa. Il fondo era già stato toccato, non potevo farci niente, così ho fatto qualcosa. A volte ho il dubbio di aver fatto la scelta sbagliata, ma la storia non si fa con i se. C’è voluto qualche anno ma alla fine qualcosa di buono sono riuscita a farlo, e mi riferisco a Post-Krieg”. Così dice Simona e riesco a capirla.

Perché nonostante tutti i premi vinti alla stessa età dei Måneskin ma senza il culo parato dei Måneskin e gli attestati di stima di tutta la scena indie prima di te (tanto che il Mucchio le fece intervistare Michael Gira), Simona Darchini ha ucciso Simona Gretchen (riferimento palese a “Gretchen am Spinnrade, ovvero Goethe & Schubert al loro meglio”), lasciandole lo spazio solo di qualche concerto - tra cui quello più noto con i Diaframma a Bologna. “E' semplice: se sono convinta valga la pena sottoporre ad altri qualcosa lo faccio. In caso contrario non lo faccio. Mi trovo più a mio agio nel rumore che nel silenzio, ma da quando mi par di stare allo zoo e di non esserci nemmeno finita spontaneamente l'ho rivalutato”.

Se quindi state lì a chiedervi se c'era più una volontà suicida alla Monicelli che alla Ziggy Stardust, la risposta è ancora un'altra: “C’era più una volontà alla Germs, come tu hai notato. Ma provo a seguirti, e ti dico: non ero un'estimatrice di Monicelli, e da quel poco che so avevamo idee molto lontane. Quando l’ha fatta finita nel modo in cui l’ha fatto lo sono diventata, da un certo punto di vista”. Ecco perché Simona è una persona, più che un personaggio, che agli occhi degli addetti ai lavori è sempre stata un po' percepita come un UFO: Simona Gretchen non era riducibile a un cliché (lo si può far coi personaggi, non con le persone) perché le sue mosse erano inaspettate e gli esiti di queste lo erano ancora di più.

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Ci provarono all'inizio, forse, di rimbalzo al primo album: misurandone la personalità con l'occhio alla rinascente scena indipendente italiana, fatta di Vasco Brondi e Dente, col metro del taglio di capelli e del colore dei vestiti, che alla fin fine si prestavano bene ad avvicinarla a “una Ginevra di Marco meno noiosa” o, dovendone far per forza la figlioccia di qualcuno, “una Cristina Donà degli anni Zero” o ancora una erede del “livore vocale di Nada”. Definizioni che invece il tempo e i fatti hanno reso parodistiche, non solo inadeguate. Soprattutto in relazione a Post-Krieg. Che a distanza di dieci anni risulta essere ancora un fulmine a ciel sereno. Non è facile parlare di un disco così, principalmente perché le sue influenze e le esperienze che ne hanno contribuito al suo suono erano tante già allora e il rischio è di ridurre tutto a una semplice e sterile lista di nomi, ma anche e soprattutto perché è forse il primo disco (ampiamente detto) post-harcore pensato, progettato, realizzato e rivendicato da una ragazza di 25 anni. Scusate se è poco.

Con i lungimiranti innesti di batteria di Paolo Mongardi, allora ancora negli Zeus! e da poco nella Fuzz Orchestra, di violino di Nicola Manzan, di piano di Silvia Valtieri e di tromba di Paolo Raineri dei Junkfood, tra i primi a usarla in contemporanea con i Riviera e molto prima dei Bruuno. “Ero consapevole di ciò che facevo e di cosa stessi creando. E non volevo che amici intorno. Sono grandi musicisti, mi capita ancora di far sentire a qualcuno come hanno contribuito alla riuscita del disco”. Diverte così notare come tutti i cronisti dell'epoca rimasero (nel vero senso delle parole) senza punti di riferimento nel descrivere Post-Krieg.

Proprio come avvenne per il grunge prima del grunge o lo sludge prima dello sludge. Rileggendo ora le recensioni è tutto un arrampicarsi sugli specchi di hard rock, blues, stoner, wave, avant, kraut e chi più ne ha più ne metta, siglato da un voto, alto, in calce; oppure bellissimi voli pindarici ai quali bisogna riconoscere una certa azzeccatezza, come quello del nostro Giovanni Continanza che scrisse: “Suoni oscuri, tesi, affilati, tesi come lame. Si dischiudono mondi, apocalittici come le liriche, infernali come i suoni di basso, come sospesi prima del baratro”. Un po' come dire “pensate se i Black Widow avessero fatto un nuovo disco dopo un mese trascorso ad ascoltare Black Flag”.

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Esercizi di stile, parole a caso, paragoni per assurdo, roba che fa gongolare a quelli come Stefano Morelli, ma almeno il ghiaccio si rompe e possiamo andare avanti. Tanto più se la diretta interessata non se n'è mai sentita offesa: “Guarda, a quel che ho letto, da chi mi ha recensito direi di essere stata capita. Forse suona triste, e anche un po' strano, visti i frequenti attriti fra le due categorie, ma lo ammetto: mi sono sentita molto più compresa nei miei intenti, e a volte persino umanamente, da chi ha scritto recensioni di quel disco che da tanti che avevo intorno”. Lontana mille miglia dalle presunte avanguardie trendiste e modaiole, in un anno segnato da I Cani di Glamour e Cosmo di Disordine, dai redivivi Massimo Volume, Virginiana Miller e Baustelle, tra i FASK di Hybris e i Gazebo Penguins a un passo dai The Pills, una giovane ragazza ravennate classe 1987 si pone idealmente vicina alle sue origini core e post-rock, ridefinendo e attualizzando a suo modo un genere di musica ritenuto a torto oramai sterile, incidendo quello che a detta di molti è il disco indipendente più interessante e sottovalutato di quell'anno.

Mezz'ora di musica che colpisce e sorprende. Simona canta e suona il basso e le sue schegge di efferato cinismo penetrano come burro nel ventre molle di un'Italia che ha appena incoronato Chiara Galiazzo nuova “icona” femminile del bel canto. Un corpo estraneo in un paese a orchestrazione sanremese che premiava Marco Mengoni come suo Re appena cinque giorni prima. Andatelo a sentire oggi sul suo Bandcamp e poi ditemi se i semi lanciati da quel disco non sono una boccata d'ossigeno allora come adesso. Ciò che infine è interessante, lo dicevamo prima, è l'identificazione completa del fattore umano con quello artistico. Tanto che a un certo punto Simona stessa inizia a produrre, a nome Blinde Proteus, ciò che le piace e con il suo spiccato senso del bello: quindi Ornaments, The Death Of Anna Karina, Chambers ed altri. “Blinde Proteus è un regalo che mi sono fatta. Ho prodotto o contribuito a produrre ciò che dice molto di me, dei miei gusti, del mio background… quelli veri, intendo. E' anche un po' la mia risposta - ok, forse un filo aggressiva - a chi mi considerava una specie di cantautrice fra le nuvole. Non a caso ha preso forma nello stesso periodo in cui ho lavorato a Post-Krieg, che per me, come credo avrai intuito, era e resta l’unico vero lascito degno di nota di Simona Gretchen”. Un tragitto musicale, insomma, che è anche in toto autobiografico o anche di più, forse: un diario umano e creativo. Avreste i coraggio di esporre così pubblicamente il vostro e poi farvi da parte?  

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L'articolo Simona Gretchen: storia del mio suicidio di giorgiomoltisanti è apparso su Rockit.it il 2023-02-13 10:48:00

COMMENTI (1)

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  • Stefano99 8 mesi fa Rispondi

    Grave "perdita" dal punto di vista musicale. Lei è bravissima e non è giusto sciupare un talento così in un periodo nel quale i talenti veri sono rarissimi. Spero ci ripensi.