Non suono più da due anni, e mi sento uno schifo

Hamilton Santià, chitarrista dei torinesi Smile - sí, Thom Yorke, non dire che non sapevi -, racconta cosa vuol dire per una band stare senza live così a lungo. Cosa ti passa nella testa e quanto la tua vita diventa più brutta

Quando l’altro giorno il governo ha deciso per la riapertura delle discoteche molte persone si sono giustamente chieste «sì, ok, ma i concerti?». Da qualche mese a questa parte i nostri Instagram sono tornati a popolarsi di immagini provenienti da Inghilterra e Stati Uniti in cui i concerti sono ricominciati. Certo, loro l’hanno presa con quel fatalismo sostanzialmente irrispettoso della vita e della salute pubblica che li contraddistingue decretando un “liberi tutti” che in questa sede non è il caso di discutere. Però, però, però. Con tutta la prudenza - pur stremata - che questi due anni di pandemia ci hanno insegnato, la domanda sorge spontanea. Soprattutto perché ad un certo punto bisognerà iniziare a farsi un’ulteriore domanda: «sì, ok, ma così facendo fino a quando durerà la musica?».

Mi sono fatto questa domanda la prima volta durante il lockdown #1. Quello che speravamo fosse momentaneo, con la gente che cantava fuori dai balconi, le iniziative per tenersi compagnia tutti insieme, i delfini nell’acqua pulita nella laguna di Venezia e così via. Se vi sembra passata una vita è solo perché ho il sospetto che la nostra percezione del tempo - già compromessa dai social - sia andata definitivamente a farsi fottere. Durante questo lockdown le band professioniste hanno iniziato a registrare canzoni a distanza, dare fondo ai propri archivi, mettere in piedi situazioni particolari per garantire un po’ di sostegno non tanto a loro stessi quanto al loro staff.

 

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Le band non professioniste (dove il discrimine non è l’impegno e la ricezione, ma semplicemente la possibilità o meno di camparci, con la propria musica) o non hanno retto, o hanno tenuto duro scrivendo da casa, registrando a distanza, rimandando di qualche mese - poi diventati anni - i propri concerti. Tra queste band c’è anche la mia. Una band con le chitarre, nata nel 2019, che aveva in previsione di far uscire un disco nel 2021 (fatto) e iniziare a girare un po’ con le connessioni che si erano create (non fatto). Da qui la domanda: se non avessimo tenuto duro, che ne sarebbe stato di noi?

La possibilità o meno di fare concerti è fondamentale per questo tipo di band. Non giriamoci intorno. Purtroppo viviamo in un Paese in cui la musica ha sempre meno peso fattuale in virtù di un peso sentimentale molto divertente da vivere ma che non produce molti utili a parte un relativo buzz sui social soprattutto durante la settimana di Sanremo e la priorità sui concerti è ovviamente rivolta al lavoro, all’attività e alle persone che su queste cose ci vivono.

Ma c’è anche un aspetto immateriale da considerare, che è quello per cui i concerti esistono: l’esperienza condivisa tra persone che almeno momentaneamente si trasformano in una comunità di senso. E per le band il concerto è il punto fondamentale di tutta la questione. Ok, il disco. Ok, le canzoni. Ok, le recensioni. La stragrande maggioranza delle band che - da Seattle a Buenos Aires, da Bamako a Torino - imbraccia una chitarra nel 2022 lo fa con l’idea di suonare dal vivo, di connettersi con le persone, di creare un senso a partire dalle proprie canzoni.

Smile, foto di Andrea Bracco
Smile, foto di Andrea Bracco

Non ci giriamo intorno e non facciamo nemmeno i romantici fuori tempo massimo. Il punto è quello. E la prospettiva che prima o poi si possa tornare a stare su un palco col pubblico in piedi e senza mascherina è l’unica cosa che ci fa tenere duro. Anche perché se non ci fosse questa prospettiva, se non ci fosse la possibilità di vedere e sentire che la musica abbia un’effettiva ricaduta per le persone là fuori e non solo dentro la propria sala prove, in quanti anche ai piani alti starebbero ancora facendo tutto questo? Per il demone? Per i soldi? Certo, anche, sì, ma soprattutto perché la musica ha una sua dimensione oltre il disco/file ed è una dimensione esclusivamente sociale nel senso più ampio del termine.

Certo, poi ci vorrebbe anche qualcuno oltre la pandemia che non ti mette un altro bastone tra le ruote come Thom Yorke e Johnny Greenwood, che un giorno si svegliano e decidono di chiamare il loro nuovo progetto sicuramente parallelo e probabilmente estemporaneo con il nome che curiosamente abbiamo scelto per la nostra band: sì, sono il chitarrista degli Smile.

Abbiamo scritto e detto tanto sulla questione imprenditoriale e lavorativa. Abbiamo parlato tanto delle band e dei musicisti. Quello che forse sta mancando è un focus sulla dimensione sociale che i luoghi in cui la musica ‘cresce’ hanno sempre avuto nel disegnare il panorama mentale delle nostre città (e anche delle nostre province). Siamo cresciuti in un mondo in cui uscire non voleva dire solo “andare a consumare qualcosa”, ma fare qualcosa. Fare, sì, perché andare a un concerto è un gesto attivo. Centri sociali, luoghi irregolari, locali più istituzionali, centri di protagonismo giovanile, feste di partito… luoghi che vivono grazie alla gente che li anima.

 

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Tutti ‘palchi’ che non ci sono più e sono stati via via normati, regolati (prima) e poi chiusi, sospesi a tempo indeterminato, pericolosi per la salute e troppo poco importanti dal punto di vista economico per un trattamento di favore. Le città hanno da sempre un tessuto nervoso sotterraneo che ha bisogno di uscir fuori, creare la rottura, cercare la differenza: se questo spazio non esiste più e non può nemmeno più essere creato, la nevrosi si introietta e rischia di diventare paranoia e di distruggere, lasciando le persone sole, ancora più alienate, condannate a lavorare in presenza per sentirsi un po’ vive, andare a fare la spesa tutti i giorni, andare al ristorante una volta in più per vedere qualcuno e basta. Coi soldi che, tra l’altro, sono sempre di meno.


Il valore sociale della musica è qualcosa da recuperare per la salute delle persone, delle comunità e anche della nostra società. In Realismo Capitalista Mark Fisher collegava lo sviluppo di una società condannata alla performance, al consumo e al successo all’aumento della depressione, della malattia mentale. Prima di suicidarsi (nel 2017), stava lavorando sul concetto di “comunismo acido” recuperando le pratiche comunitarie della controcultura per così dire tradizionale e la spinta al puro e disinteressato “star bene” come vera pratica per costruire un futuro. Sganciarsi dalle logiche produttivistiche come gesto politico definitivo.

Ovvio che in uno scenario del genere la pandemia è arrivata a distruggere tutto, decretando sul medio termine il trionfo di tutti i peggiori incubi distopici di cui da anni a questa parte leggiamo su siti, riviste e libri in giro per il mondo. Ma adesso che iniziamo a intravedere qualcosa forse è il caso di ricominciare a farci domande, riprendere gli strumenti e provare a riappropriarsi degli spazi pubblici. Se non altro perché se no non resta niente, e agli scheletri post-industriali che la mia band ha provato a raccontare nel suo disco, si aggiungono gli scheletri delle impalcature dei superbonus non riscattati perché nel paese fermo, zavorrare l’immobile non può portare niente di buono. 

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Il tema di questo pezzo sarebbe dovuto essere «Come sta in Italia la musica con le chitarre». Quello che ho visto e sentito è incoraggiante. Ci sono tantissime persone che non hanno spento gli amplificatori e hanno continuato a registrare dandosi finalmente appuntamento dall’altra parte. Sul palco. Al 100%. Ho solo apparentemente divagato perché per me, per la mia band, per tantissime altre band di amiche e amici con cui ci siamo confrontati in questi mesi, quello che manca di più è la dimensione sociale, quella che usando un bisticcio linguistico mi piacerebbe chiamare togetherness.

Tornare ad andare nei posti senza programma, perché sai che tanto succede qualcosa. Dove non ti importa di spendere 6 euro per una birra annacquata perché quei 6 euro assumono un significato diverso per quello che permettono. Ritornare a respirare, sì, mettendo di nuovo ossigeno vitale alla musica. Perché prima o poi gli archivi finiscono, gli stimoli anche e nella depressione non si trova più la spinta per rovesciare le cose ma non si trova più, appunto, niente.

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L'articolo Non suono più da due anni, e mi sento uno schifo di Hamilton Santià è apparso su Rockit.it il 2022-02-16 08:39:00

Tag: opinioni

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