Nel novembre 2019 i Coldplay – dopo 122 spettacoli attraverso cinque continenti per il solo A Head Full Of Dreams Tour –annunciavano che non sarebbero più andati in tour, finché non avessero trovato una soluzione per progettarne uno a emissioni zero. La settimana seguente i Massive Attack, dopo aver espresso il proprio supporto agli attivisti di Extinction Rebellion, consegnavano al Tyndall Centre For Climate Change Research dell’Università di Manchester i report del carbon footprint di quattro anni di tour e sessioni di registrazione, così da fornire dati che contribuissero allo studio dell'impatto dell’industria musicale sulla crisi climatica e alla progettazione di soluzioni per renderla ecosostenibile.
Ma, anche se molti musicisti e diversi dei maggiori festival di musica mondiali si stanno interrogando sull'impatto ambientale che hanno avuto fino ad ora e su quali strategie sia possibile attuare per ridurlo – nel nostro piccolo, lo stiamo facendo anche noi con il MI AMI –, il tema non costituisce ancora una delle priorità inderogabili e condivise dell’industria della musica (già mesi fa parlavamo qui della sua trattazione, nell'insieme ancora molto timida e priva di profondità, come tema all’interno della musica italiana). In aggiunta, la crisi che ha colpito il settore negli ultimi mesi rischia di indebolirne ulteriormente l'urgenza: un ritardo che, oltre a rivelare un distacco ancora molto profondo dalla tutela ambientale a livello sia politico che culturale, è ancora più imperdonabile a fronte della semplicità di alcune delle azioni attuabili.
Ne abbiamo parlato con tre personalità del settore, attive in percorsi di sostenibilità a vari livelli, a cui abbiamo anche chiesto consigli e pratiche ecosostenibili, applicabili quando il mondo della musica potrà ripartire: Andrea Pontiroli, tra i soci fondatori di Santeria – realtà milanese divisa fra i locali di Santeria Paladini 8 e Santeria Toscana 31, fra i primi a Milano ad abbracciare una filosofia plastic-free –, con cui abbiamo discusso anche dei problemi endemici dell’industria dei live e di come una prospettiva sul lungo termine non possa escludere considerazioni di carattere ecologico e ambientale; Katia Costantino, torinese trapiantata a Londra, che si occupa di sostenibilità ambientale applicata ai festival con il progetto EcoReverb; Gwenndolen Sharp della no-profit francese The Green Room, con cui si siamo confrontati circa le pratiche per ridurre l’impatto di un tour musicale.
Sostenibilità in un locale
Andrea Pontiroli, CEO e socio fondatore di Santeria S.r.l. Lavora nell’organizzazione di spettacoli dal 2003, dal 2005 al 2013 è stato direttore artistico del Circolo Magnolia. Autore di “Un concerto da manuale. Soluzioni semplici per organizzare spettacoli” (Nda Press, 2012), è inoltre insegnante di organizzazione eventi al corso di Marketing Management e Comunicazione della Musica di Santeria Milano.
Qualche giorno fa hai dichiarato che questo è un momento per ripensare il locale sul lungo termine, e non soltanto sulla spinta dell’emergenza COVID-19. Ci vedo anche una risonanza con la vostra scelta di eliminare la plastica monouso dai vostri locali dello scorso aprile, quando avete aderito al progetto “No Plastic More Fun” di Worldrise, no-profit attiva nella conservazione dell’ambiente marino. Un investimento economico, con un ritorno non immediato.
In questi ultimi mesi, abbiamo pensato fosse opportuno cercare di guardare il dettaglio, cosa che il lavoro quotidiano non sempre permette di fare. Il lavoro nel mondo degli eventi ci ha fatto capire che in questo periodo potevamo lavorare per arrivare allo spreco minimo di ogni singola voce: ci siamo chiesti cosa si potesse migliorare dal punto di vista estetico, organizzativo, di riduzione degli orari di lavoro. Abbiamo fatto dei piccoli investimenti e, dove possibile, alcuni piccoli lavori. Per quanto riguarda la parte ambientale, lo scorso anno avevamo fatto un ampio investimento per la riduzione della plastica monouso. Dico riduzione, perché quando parliamo di plastica dobbiamo considerare anche le derrate alimentari e le forniture tecniche, che arrivano in un involucro contenente anche plastica. Però, l’eliminazione della plastica dal servizio al cliente ci ha dato la possibilità di fare un piccolo passo nella direzione in cui vogliamo andare. Che il pubblico ha riconosciuto, affezionandosi ancora di più a Santeria. È stato un investimento modellato sul lungo termine: acquisire materiali in PLA biodegradabile, comprare lattine e borracce, aumentare il numero di bicchieri e la quantità di acqua erogata, andando così anche a perdere la marginalità che avevamo sulle bottigliette. Tutto questo ha avuto un impatto e lo avrà anche in futuro. Siamo stati stringenti nel far rispettare queste norme anche a chi viene come ospite, incontrando peraltro meno problemi con gli artisti stranieri che con quelli italiani. Ora stiamo anche lavorando a un progetto per quanto riguarda i camerini.
Ho visto che sei infatti recentemente diventato ambassador del progetto EcoRider, lanciato sempre da Worldrise.
Abbiamo iniziato a collaborare per la transizione verso il plastic-free di Santeria. Ora proseguiamo con il progetto EcoRider: la band ci manda il suo rider e noi glielo restituiamo, certificato come eco-rider, dopo aver sostituito tutte le richieste con richieste sostenibili: eliminazione di plastica monouso in backstage, raccolta differenziata, nessuno spreco alimentare attraverso richieste più misurate e con consumo locale e stagionale. Eravamo pronti a uscire con il progetto prima della pandemia, con già una quindici di artisti aderenti, lo stiamo lanciando adesso. In questo, ho avuto resistenze da molti artisti o da promoter, che lo vedono come uno sbattimento. “Perché in alcuni posti non si riesce a trovare…”. Che cosa non trovi, un bicchiere di carta? Un bicchiere in plastica dura? Stoviglie non in plastica? Che nel 2020 agenzie e tour manager ti rispondano così fa ancora parte di un retaggio culturale.
Lo penso anch’io. Quando ho parlato con Katia Costantini, che abita in Inghilterra, mi ha colpito che lei lì lavori come responsabile per la sostenibilità ambientale e della riduzione dell’impatto dei festival, mentre qui soprattutto come hospitality manager. Mi sembra un riflesso evidente di una sensibilità ancora inferiore verso questo argomento.
Credo che quello che dici sia esatto. Io non ho mai fatto tante interviste come dopo l’adesione al progetto per il plastic free. Ne ho fatta una per Millionaire, in cui dicevo "scusate, ma io ho solo sostituito dei bicchieri in plastica con dei bicchieri in PLA, offro acqua in lattina e faccio delle borracce". Non mi sembra di avere scomposto l’atomo. Abbiamo fatto un’azione semplice, dimostrando con un business plan pubblico che in realtà nel lungo termine ci guadagnavamo: avevamo fatto un conteggio sui coperti comprensivi dell’acqua, che erano leggermente aumentati. Ovviamente ci sono un investimento e un lavoro iniziali e bisogna farsi carico di una scommessa. Ma dire che costa è una scusa e noi siamo ancora un po’ indietro su questo.
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Dal tuo punto di vista, quanto incide l’assenza di incentivi economici in questo?
Secondo me non possiamo sempre aspettare di avere un incentivo per realizzare una cosa. In questa fase c’è chi continua a pensare sia necessario richiedere aiuti allo stato per gestire l’emergenza, un’altra linea è invece quella di sfruttare questo tempo per eliminare tutto ciò che grava sul nostro settore. Io ho avuto la fortuna di lavorare al Circolo Magnolia: da subito avevamo impostato i pannelli fotovoltaici, le pompe di calore, i bicchieri riutilizzabili. Anche solo per provarci. È ovvio che nel 2010 avremmo potuto investire 150.000€ in altro e non in pannelli fotovoltaici. Però è una scelta. E quella di aspettare l’incentivo è una grandissima scusa.
Quali sono le azioni che un locale potrebbe già iniziare ad attuare per essere più sostenibile?
La mancanza di raccolta differenziata fa parte solo di un sistema di pigrizia, mentre io penso vada fatta anche dietro le quinte. Ho lavorato per anni nei camerini, dove è sempre presente il classico saccone nero: mettete quattro sacchi diversi ed è finita. Non credo ci siano soluzioni facili: è necessario mettersi lì e fare due conti o farli fare a qualcuno se non si è capaci: si vedrà che, a rendere, ci sono mille soluzioni. Per esempio, realizzare i bicchieri in plastica dura: hanno più durata e permettono un guadagno, perché si possono cauzionare ma molti vogliono poi portarlo a casa per avere un ricordo del locale. Bisogna solo provarci: è ovvio che più gente lo fa, più sarà facile provarci. E più un comportamento sbagliato ci risulterà sbagliato: ho avuto anche gente che cercava di portare le bottiglie d’acqua di nascosto nei camerini. Il livello non può essere questo.
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Qualche settimana fa su Facebook hai condiviso un post in cui evidenziavi i problemi sistemici dell’industria musicale, evidenziati dalla "crisi Covid". Quali sono i principali?
Il macroproblema è la mancanza di marginalità. Da una parte, legata all’organizzazione dell’intero settore, che ha portato ad un aumento spropositato dei cachet, unito a una mancanza di rappresentanza sia a livello di tutela sindacale che di rappresentanza presso le istituzioni; dall’altra, derivante da un problema di norme, accumulatesi nel corso degli anni. Le prime leggi sugli spettacoli a cui facciamo riferimento sono degli anni Trenta, con il TULPS (Regolamento per il Pubblico Spettacolo, ndr), che parla ancora di adunanze. Con le modifiche temprate negli anni, la situazione è peggiorata: è emersa l’assoluta mancanza di conoscenza da parte delle istituizioni del livello organizzativo dello spettacolo, un settore in forte crescita ma sempre sottovalutato in Italia. Al momento sto lavorando ad un progetto per KeepOn, coordinando un tavolo di locali con l’obiettivo di istituire una commissione per scrivere una legge sullo spettacolo, che prevede una liberalizzazione del mercato, cioè non chiede fondi. Il mondo degli eventi non chiede di essere sostenuto, chiede solo di poter stare in piedi con le proprie gambe. E per farlo bisogna lavorare in un mercato più leggero, a partire proprio dal sistema di intermediazione del diritto d’autore. Che incide nella marginalità di operatori, locali, festival, organizzatori, fino ai catering o ai supermercati.
C'è, e ci sarà sempre più in futuro, anche un tema di capienze?
Eccome: ne esistono diverse, il che crea molte incertezze nel settore, perché apre a troppa interpretazione da parte di chi deve dare i permessi. Poi la mancanza di un codice ATECO per il settore e il fatto che siano stati aboliti i voucher per il lavoro a intermittenza: pensa anche a un festival come il MI AMI, che deve assumere in poco tempo un sacco di persone e che si trova o a passare per l’intermediazione di lavoro o a usare i contratti a chiamata, aumentando i costi in entrambi i casi. Ci sono lavori che non sono da tutelare in prospettiva, ma nel momento stesso in cui avvengono: sono lavori estemporanei, che vanno tutelati con un contratto di tipo estemporaneo, che non aumenti i costi in maniera verticale. Ancora: ci sono regole che si sono aggiunte negli anni, come quella del divieto di somministrare alcolici dopo le tre di notte, che vede chi la rispetta venire sorpassato da chi non lo fa. Che peraltro evita di fare scontrini per non lasciare prova, facendo anche un danno all’erario. All’estero un festival può proseguire anche tutta la notte, da noi alle tre deve chiudere per permettere di chiudere il bar. Il che non ha sicuramente un nesso con gli incidenti stradali: chi beve non deve mettersi alla guida, che siano l’una o le tre. Infine, l’aliquota IVA, diversa in base alla tipologia di spettacolo, che sia un DJ set o un concerto. Che ricade sull’utente finale, ma che dà anche una marginalità diversa all’organizzatore nel momento in cui vende un biglietto, perché cambia molto se è al 22 o al 10. Per farti un esempio, nel caso dei DJ set l’ISI (Imposta sugli Intrattenimenti) incide fino al 16% del biglietto. E così via: esistono molte norme che, se tolte, andrebbero a eliminare quel gap di marginalità. Perché la verità è che il nostro è un settore di persone indebitate.
Sostenibilità ai festival
Katia Costantino, torinese e residente a Londra dal 2013, collabora come environment assessor per la no-profit inglese A Greener Festival, che delinea strategie e azioni pratiche per ridurre l’impatto ambientale dei grandi festival di musica (fra quelli a cui ha collaborato: Primavera Sound, Terraforma, TODays Festival di Torino). Nel 2019 ha fondato Eco.Reverb, società con cui opera come Sustainability Project Manager. Fa parte del coordinamento di La Musica Che Gira, di cui ha curato soprattutto la parte ambientale.
Partiamo dall’inizio: tu in Inghilterra lavori come environment assessor, professione non molto nota in Italia. Come sei arrivata a questo lavoro?
Nel 2011 ho conseguito un master in sostenibilità ambientale a Torino e nel 2013 mi sono trasferita in Inghilterra. Volevo unire musica e ambiente in un lavoro vero e proprio: in Inghilterra sono entrata in contatto con A Greener Festival, no-profit che aiuta i festival a muovere i primi passi verso la sostenibilità, dando loro indicazioni e assegnando anche un premio a quelli più virtuosi. Dal 2016 collaboro con loro come environmental assessor, che potremmo tradurre come perito ambientale. in Italia, continuavo invece a lavorare come hospitality manager. Nel 2016, i tempi non erano maturi: ogni volta che proponevo l’introduzione di bicchieri riutilizzabili o progetti di mobilità sostenibile per gli artisti si apriva uno scenario complicato: lo spettro dei costi necessari per la gestione sostenibile dell’evento è la voce più importante che limita una presa di posizione. Negli anni comunque la coscienza critica e l’interessamento verso le tematiche ambientali sono aumentati. L’anno scorso ho aperto il mio progetto EcoReverb, per affiancare festival, eventi, club o qualsiasi tipo di attività nella progettazione di un evento sostenibile.
In cosa consiste concretamente il tuo lavoro? Quali sono gli aspetti su cui vai ad intervenire e rispetto ai quali hai un confronto con gli organizzatori dell’evento?
Per definire le aree di intervento mi baso soprattutto su report quinquennali che escono in Inghilterra. Purtroppo in Italia non vengono ancora realizzati, mentre sarebbe importante mappare il territorio per avere una cartina più chiara per agire. Quando un festival mi contatta, il primo passo è cercare di misurare cosa abbia fatto nelle edizioni precedenti. Vado a vedere il pregresso, recuperando tutte le informazioni relative a vendita di bottigliette di plastica, uso di bicchieri monouso, quantità di plastica utilizzata. Ma è solo uno dei punti: sembra che l’azione principale realizzabile da un festival sia l’eliminazione della plastica, mentre gli ambiti di intervento sono diversi. Io li raggruppo in cinque aree: energia, perché un festival è energivoro. Dall’illuminazione alla corrente che ti serve sul palco, è un ambito che suscita diverse domande: come creiamo energia? I generatori che utilizziamo sono di vecchia generazione oppure vanno a biodiesel o con batterie al litio? Quando non ci servono possono essere spenti o è necessario tenerli in attività per non perderne il ciclo? Il secondo punto è la riduzione dei rifiuti: la questione centrale non è solo riciclare, ma proprio evitare di creare rifiuti. Il terzo punto è l’acqua: pensa ad esempio ai festival con campeggio, spesso collocati in aree rurali o di campagna, dove non c’è una rete idrica che può raccogliere le acque sporche. Un’altra voce fondamentale sono i trasporti, che sono la voce più impattante in un evento. Infine gli acquisti: soprattutto a livello alimentare, è importante sensibilizzare l’audience proponendo anche più diete vegetariane o vegane, che a livello produttivo hanno un impatto minore. I festival sono un luogo dove i messaggi vengono percepiti, anche perché in genere l’audience è giovane.
(Uno dei nostri contributi come MI AMI: la piantumazione di 200 alberi nel Giardino delle Vergini, oasi di biodiversità dell’Idroscalo di Milano, realizzata lo scorso novembre con il supporto di Rilegno)
Una volta che hai ultimato la mappatura delle politiche ambientali del festival, come procedi?
Cerco di capire le aree su cui posso andare ad agire, sempre tenendo in considerazione il contesto in cui avviene il festival. Penso ad esempio al TOdays Festival di Torino, dove ho lavorato l’anno scorso: è un evento che avviene in città, alimentato dalla rete elettrica cittadina. Lì il settore energia non è quello preponderante, quindi abbiamo definito azioni volte ad evitare l’uso di bicchieri monouso, attraverso l’introduzione di bicchieri riutilizzabili e di colonnine per l’erogazione gratuita dell’acqua. Anche il Terraforma mette a disposizione acqua pubblica e gratuita, anche se alcune norme, penso ad esempio alla Legge Gabrielli, limita queste pratiche per motivi di sicurezza. In questo momento per me è fondamentale creare un progetto specifico per gli eventi italiani: abbiamo un contesto diverso, pesante dal punto di vista normativo e che a volte incontra difficoltà anche a livello economico per intraprendere una strada sostenibile. In Italia mancano investimenti green e budget di sostenibilità da cui attingere per iniziare un percorso: molti organizzatori sono scoraggiati dallo spauracchio che i prezzi aumentino ed è per questo che dobbiamo puntare soprattutto sul fornire loro i dati del beneficio sul lungo termine. Credo si potrà iniziare a parlare di sostenibilità negli eventi quando capiremo che abbiamo bisogno di investimenti e che anche i governi devono coglierne la centralità. Abbiamo bisogno di creare sinergie, capendo che questo è il futuro e che non si può più prescindere. E poi, l’audience è sempre più orientata: quando decidiamo di comprare un biglietto per un festival, guardiamo com’è. Soprattutto all’estero, sono molto apprezzati gli sforzi verso eventi più sostenibili.
Trovi che in Italia l'interesse verso queste tematiche sia minore?
Sicuramente non è agli stessi livelli. Lo scorso anno Glastonbury, vietando le bottigliette di plastica, ha evitato di metterne in circolo 1 milione in una settimana. Quando noi abbiamo introdotto il bicchiere riutilizzabile al TODays, evitando di utilizzarne 11.000 usa e getta, non tutti vedevano il senso di pagare per un bicchiere da portarsi a casa. Se si vuole attuare un cambiamento, bisogna che le persone inizino ad essere responsabili: pago 1€ per un bicchiere riutilizzabile, ma è anche il mio contributo per l’ambiente. È anche una questione di mentalità: più si parla di queste tematiche, mediante interviste e workshop, più si contribuisce a far capire che forse non è così oneroso. I grandi cambiamenti hanno bisogno di situazioni un po’ destabilizzanti: penso che questo momento di stallo possa essere utile per una riorganizzazione del settore musicale che metta l’ambiente al centro. Si parla di sostenibilità ambientale, ma anche economica e sociale. In Italia mancano Sustainability Event Project Manager, così come la condivisione dei casi studio: se come festival parli dei benefici che hai avuto dalle tue scelte sostenibili, fai in modo che le persone riescano a vederne i vantaggi. Che si possono copiare, creando un effetto domino.
Quali sono le azioni sostenibili attuabili più facilmente dai festival, soprattutto quelli più piccoli?
La prima è l’eliminazione delle cannucce, che evita un costo sia di materie prime che di stoccaggio, insieme all’introduzione del bicchiere riutilizzabile. Se si tratta di festival con campeggio, l’eliminazione di stoviglie monouso, con la possibilità di portare un proprio kit lavabile di piatto e posate, oppure l’uso di piatti biodegradabili agli stand del cibo. Inoltre, l’apertura al dialogo con autorità locali, per incrementare la raccolta differenziata e la tracciabilità del rifiuto. Incrementare l’uso della mobilità sostenibile, attraverso partnership con aziende di bike o car sharing, che non sono un costo vivo per il festival. Penso al Primavera Sound, dove ho lavorato, che attraverso partnership ha inserito mezzi elettrici per la crew e per recuperare gli artisti all’aeroporto. Infine, chiamare degli esperti per la stesura di environment action plan, così da capire quali sono le azioni su cui lavorare e calcolare l’impronta ecologica. La sostenibilità fatta bene è questo: uno studio prima, uno durante e uno post evento, con calcolo dell’impronta ecologica. Che di anno in anno verrà abbattuta, intervenendo sul settore che ha impattato maggiormente.
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Ti sembra che da parte degli artisti quello dell’ecologia sia un tema sentito?
L’esperienza all’estero mi dimostra che ci sono molti artisti sensibili alla tematica. I Massive Attack hanno dichiarato che non avrebbero più fatto tour utilizzando il trasporto aereo, ma soltanto il treno. La stessa attenzione è stata dimostrata da Coldplay e Billie Eilish. Un anno ho lavorato a un festival e nel rider dei War On Drugs era esplicitato che la band non voleva alcuna bottiglia di plastica nel backstage. Se tu sei open-minded, non puoi essere indifferente a tematiche legate al conflitto sociale, ambientale e politico. All’estero la sensibilità è maggiore anche perché ci sono più associazioni che lavorano in questo senso, presenti comunque anche in Italia. Mi ferisce quando artista di calibro internazionale, o il suo management, chiedono tantissime bottiglie d’acqua e a fine evento le trovi tutte aperte con un sorso bevuto. Queste tematiche stanno diffondendosi sempre di più, però molti non ci pensano o non ne sono a conoscenza. Anche per questo, sto lavorando a una lista di best practises da far sottoscrivere agli artisti, con il claim #SingingInTheTrash, e dai festival, con il claim #IWishYouWereGreen. Un decalogo a cui potranno aderire per la gestione del loro evento.
Che cosa può fare il pubblico per incidere su questa tematica?
Scegliere festival con politiche ambientali rispettose. Rispetto anche solo a 5 anni fa, le aziende si stanno attrezzando per rispondere alle esigenze di mercato: oggi un bicchiere compostabile costa poco più di quello di plastica, ma ha un impatto decisamente minore. E vale a tutti i livelli, dal grande festival alla sagra di paese: si possono contattare gli organizzatori, mandare loro mail per invitarli a non usare più piatti usa e getta. È un momento delicato perché si può fare tanto per andare avanti, ma forse l’emergenza ci fa tornare indietro.
Sostenibilità di un tour
Gwendolenn Sharp è la fondatrice di The Green Room, no-profit francese che si occupa di strategie per supportare l’industria musicale nella transizione verso l’ecosostenibilità.
Che tipo di percorso hai e quando hai maturato il tuo interesse verso la sostenibilità ambientale?
Dopo aver studiato letterature comparate e cooperazione culturale internazionale, ho iniziato a lavorare come Production & Program Manager per un festival artistico in Polonia, a Katowice, una delle città più inquinate del mondo. È stato lì che ho scoperto le impressionanti richieste nei rider degli artisti: viaggi con jet privati, cachet enormi, assurdi soprattutto se comparati agli stipendi medi della realtà locale. Non era la norma, ma mi colpì molto. Anni dopo, presi parte a una convention in Giappone, poco dopo i fatti di Fukushima: entrai in contatto con artisti che avevano completamente ripensato i propri metodi di lavoro, maturando un senso di responsabilità nei confronti dell’ambiente e della propria comunità. Per me, cresciuta a stretto contatto con la natura, in una famiglia attentissima agli sprechi, iniziò ad essere sempre più difficile conciliare i miei valori con la mia vita professionale. Avvertivo l’esigenza di un percorso più coerente. Dopo aver lavorato in diversi progetti di cooperazione culturale, frequentai un master in Management dello sviluppo sostenibile, per poi trascorrere tre mesi come volontaria in un eco villaggio in Tunisia. Nel 2016 rientrai in Francia e fondai The Green Room.
Di cosa si occupa The Green Room?
The Green Room è un’organizzazione no-profit, che sviluppa strategie per supportare il cambiamento ambientale e sociale dell’industria musicale. Progettiamo tour a basse emissioni, realizziamo report, sviluppiamo azioni per aumentare la consapevolezza intorno al tema e studi operativi sulle pratiche artistiche. Partecipiamo a eventi professionali sia in Francia che all’estero. Inoltre, siamo parte di JUMP, un progetto di Creative Europe che supporta le idee innovative dell’industria musicale, e conduciamo la campagna Green Your Touring!, per diffondere casi studio, buone pratiche e soluzioni per musicisti e tecnici on the road.
Riesci a darci una stima dell’impatto ambientale di un tour?
È difficile, perché dipende dalle dimensioni della band, dal mezzo che usa per spostarsi e da altri aspetti. Possiamo calcolare l’impatto di uno specifico tour, ma è un approccio che non vale per chiunque e che richiede molto tempo e fondi. In Inghilterra, un ottimo lavoro in questo senso è stato fatto da Julie’s Bicycle, ma gli ultimi studi ora sono un po’ datati, mentre negli USA una grande fonte è Reverb. Stiamo poi aspettando le ricerche del Tyndall Centre for Climate Change dell’Università di Manchester, che analizzerà i dati di tour e sessioni di registrazione forniti dai Massive Attack. Credo ci sia davvero bisogno di un maggior numero di studi europei, legati specificamente sui nostri contesti e alle realtà locali. Come The Green Room non abbiamo purtroppo i mezzi per condurre studi così ampi, ma è uno dei nostri obiettivi futuri, perché è fondamentale per capire a che punto ci troviamo e così progredire.
Quali sono gli aspetti che andrebbero tenuti in considerazione quando parliamo di riduzione dell’impatto di un tour musicale?
Un tour va considerato nella sua globalità, dalla produzione alla comunicazione a tour finito. L'aspetto climatico va valutato per ogni fase: possiamo lavorare con la band sulla scelta dell’alloggio, aggiungere elementi di carattere ambientale nella fase di fundraising, coinvolgere tutti i partner degli artisti fin dai primi stadi, creare rider tecnici e di ospitalità a basse emissioni. È importante tener conto delle barriere psicologiche spesso generate da proposte di questo tipo: un tecnico o artista possono anche essere convinti, ma, se la produzione non li segue, attuare un cambiamento diventa difficile. Gli artisti non possono raggiungere questo obiettivo da soli. Inoltre, sono i più esposti sui social media e alcuni potrebbero non sentirsi a proprio agio comunicando contenuti di carattere ambientale.
Quali sono le azioni che una band può già intraprendere per rendersi più sostenibile durante un tour?
Noi consigliamo di iniziare anche da azioni semplici, il resto verrà da sé: usare borracce per gli artisti e per la crew, richiedere cibo locale, stagionale e se possibile anche vegetariano o vegano. Condividere la backline con altre band, viaggiare in treno, supportare progetti ambientali mettendoli in evidenza attraverso i propri canali, ripensare la produzione del merchandise in chiave più sostenibile. Anche la comunicazione è un tema chiave: gli artisti possono iniziare a parlare di questi argomenti con i propri promoter, con l’etichetta o con il team di produzione, o prendere parte a campagne ambientali e movimenti come DJs For Climate, Bye Bye Plastic o Music Declares Emergency. E possono invitare anche i propri partner e i loro fan ad agire.
Che cosa possono fare i fan per avere a loro volta un comportamento più sostenibile?
Come gli artisti possono lanciare un cambiamento nei comportamenti, anche i consumatori possono influenzare l'industria della musica. Dall’utilizzare la bici o il trasporto pubblico per prendere parte all’evento, a portare la propria borraccia laddove possibile, all’essere più consapevoli dell’impatto dello streaming, fino al vero e proprio boicottaggio delle organizzazioni artistiche finanziate da compagnie petrolifere. O ancora, prendere parte a progetti di compensazione, attraverso donazioni a progetti ambientali significativi.
Dal tuo punto di vista, quanto è importante il contesto culturale in cui si innestano questi progetti per renderli efficaci?
In Francia, e direi nella maggior parte delle dei Paesi europei, il tema è ancora molto lontano dal diventare una priorità. Alcuni governi locali sono pronti a supportare questi sforzi e a erogare fondi a progetti culturali con questa visione, ma è molto lontano dall'essere la norma. Abbiamo bisogno di più supporto finanziario a livello locale, nazionale ed europeo. Va poi tenuto molto presente che il tema ambientale si unisce a un più ampio tema di equità sociale a livello globale: le persone più colpite dal cambiamento climatico sono infatti quelle che già sono più vulnerabili, che già devono affrontare temi complessi come le migrazioni e la dipendenza economica dai mercati occidentali.
Quanto è importante che gli appartenenti al settore si riuniscano in comitati, per richiedere ai governi leggi che diano maggiore supporto a iniziative musicali attente all’ambiente?
Molto. Non solo per gli organizzatori, ma per tutti gli stakeholder. Noi ad esempio facciamo parte di REEVE, un network di eventi ecosostenibili di Nantes, che unisce diversi organizzatori di festival di vario genere, rappresentanti dei governi locali e cittadini. Inoltre, seguo con attenzione il movimento Music Declares Emergency. Nel 2016, ho collaborato come consulente per Terra 21, un’organizzazione specializzata nell’analisi dell’impronta ecologica e in politiche di Responsabilità Sociale d’Impresa. Insieme abbiamo coordinato un’iniziativa che univa diversi attori culturali durante il Climate Change International Summit di Nantes. L’obiettivo era aumentare la consapevolezza nelle organizzazioni civili e spingere affinché anche il mondo della cultura abbia un ruolo nel fermare l’emergenza climatica.
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L'articolo La musica del futuro non potrà ignorare il proprio impatto sull'ambiente di Giulia Callino è apparso su Rockit.it il 2020-06-15 08:28:00
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