Lo scorso 15 marzo, di fronte agli uffici Spotify di tutto il mondo, si è tenuto ilDay of Action of Justice at Spotify, la prima manifestazione globale per protestare contro il colosso svedese dello streaming musicale. A lanciare questa iniziativa è stata la Union of Musicians and Allied Workers (UMAW), sindacato di musicisti nato negli Stati Uniti e che, nel corso dell’ultimo anno, ha ottenuto un seguito sempre maggiore.
La richiesta principale dell’UMAW è la più banale: essere pagati decentemente. Spotify genera delle royalty che si aggirano intorno allo 0,004 dollari per ascolto attraverso un calcolo complicatissimo, come spiegato da Jeff Price, il fondatore dell’agenzia di raccolta dei diritti d’autore Audiam, all’interno di questo approfondimento: "The complexity of Spotify royalties is, frankly, insane". Per metterla in prospettiva, sul sito dell’UMAW fanno questo paragone: per generare un ricavo di 1'078 dollari, equivalenti all’affitto mensile medio negli Stati Uniti, una canzone dovrebbe totalizzare mensilmente 283'684 ascolti.
L’UMAW chiede che la cifra pagata da Spotify per riproduzione arrivi a un centesimo, come già fanno altri servizi di streaming come per esempio Amazon Music o Tidal. La quota di Spotify sul mercato musicale on demand è di circa un terzo, perciò un aumento di questo tipo avrebbe un effetto importante nella retribuzione degli artisti.
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Un altro punto importante dell’UMAW è di cambiare il sistema con cui Spotify ripartisce le royalty, passando dalla modalità pro-rata a una user-centric. Cosa significa? Facciamo un esempio per rendere almeno l’idea a grandi linee: mettiamo che io sia andato talmente in fissa con Musica leggerissima di Colapesce e Dimartino da ascoltare solo quella canzone per tutto il mese di marzo. Quello che l’UMAW chiede è che le royalty generate dagli ascolti vada suddiviso tra gli artisti che il singolo utente preferisce; quindi, seguendo l’esempio, il 100% delle royalty generate dal mio abbonamento andrebbe a chi detiene i diritti di Musica leggerissima. L’attuale sistema pro-rata, invece, non tiene conto delle preferenze d’ascolto degli utenti, ma ripartisce i profitti in base alla percentuale di riproduzioni che ogni artista fa sul totale degli ascolti. Secondo le stime attuali, il 90% dei profitti va solo a 43'000 degli artisti presenti su Spotify, mentre il restante 10% viene diviso tra milioni e milioni di artisti.
Oltre a ciò, l’UMAW chiedemaggiore trasparenza negli accordi tra Spotify e le major, rendendoli pubblici, e di non affossare gli stessi artisti che dice di sostenere con battaglie legali o prese di posizione che vanno a impoverire ulteriormente i musicisti. All’interno del sito del sindacato, viene citato il caso che ha visto protagonisti Spotify e altri giganti dello streaming per contrastare l’aumento del 44% del pagamento delle royalty stabilito nel 2018 dalla Copyright Royalty Board di Washington DC.
Tra i membri dello UMAW c’è anche un musicista italiano: si tratta di Marco Buccelli, batterista napoletano che vive a New York. "UMAW è nato circa un anno fa. È andato tutto in maniera molto organica: un gruppo di musicisti ha individuato la necessità di creare un sindacato che difendesse i diritti dei musicisti e dei lavoratori dello spettacolo. Personalmente sono entrato in UMAW un paio di mesi dopo la sua fondazione", ci ha spiegato Marco.
"Il 15 marzo scorso, molti musicisti e attivisti nelle grandi città statunitensi e non solo hanno portato le richieste davanti agli uffici Spotify. Nell’ultimo anno, non abbiamo mai ricevuto risposte", continua Marco. "Per me è stato comunque pieno dal punto di vista lavorativo, ho preso parte a un buon numero di dischi, mi ritengo molto fortunato".
Quella che potrebbe sembrare una reazione alle proteste dell’UMAW è arrivata nei giorni scorsi: Spotify ha lanciato il sito web Loud and Clear, con cui l’azienda svedese promette maggiore trasparenza rispetto alla ripartizione dei guadagni generati dallo streaming. Purtroppo, l’operazione è solo "uno specchietto per le allodole, una vuota corporate move", come l’ha definita Marco. "Questo sito non risponde a nessuna delle nostre richieste".
Attraverso una narrazione approssimativa, Spotify descrive il funzionamento del proprio sistema di pagamento: per esempio, nella sezione Revenue Generation over the Years in Spotify, si parla di 13'400 artisti il cui catalogo, nel 2020, ha generato più di 50'000 dollari in royalty, rispetto ai 7'300 del 2017. Possono sembrare numeri importanti, ma si tratta più di fumo negli occhi che altro. Dire che la discografia di un artista generi queste royalty non significa che l’artista guadagni così tanto, anzi. Tutto il mondo di ripartizione e ridistribuzione che c’è dietro a questo aspetto viene affrontato nel video How the Money Flows, presente nella home page del sito.
All’interno del video, viene spiegato come siano gli artisti a fare accordi con le case discografiche – su cui UMAW chiede maggiore trasparenza e che viene liquidato così – e come questi includano la possibilità di distribuire la loro musica su Spotify. Viene anche mostrato un dedalo di tubi in cui svolazzano delle banconote, per dare un'idea di quanto sia complicata la ripartizione delle royalty. Il che è un altro sintomo della tossicità del mercato musicale, ma che poco c'entra con il discorso specifico: l’UMAW chiede che Spotify paghi di più gli stream per migliorare la condizione degli artisti e Spotify risponde facendo vedere quanto stia già pagando le etichette, mancando totalmente il punto.
Loud & Clear è solo un modo per convincere l’opinione pubblica come Spotify si stia già comportando al meglio delle proprie possibilità. "Gli artisti meritano chiarezza sull’economia dello streaming musicale", si legge appena entrati sul sito. E ancora: "Gli artisti vogliono l’opportunità di guadagnarsi da vivere con la loro musica e noi vogliamo lo stesso". Eppure, l’assordante silenzio nei confronti dell’UMAW sembra dire molto di più di uno sgargiante sito fatto di infografiche e video parziali.
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L'articolo La mossa Kansas City di Spotify di Vittorio Comand è apparso su Rockit.it il 2021-03-22 10:51:00
COMMENTI (9)
La mia non era una provocazione. Era una domanda seria. Acquisti da Amazon? hai un account spotify?
@therealmarco non t'ho risposto perché era una provocazione! :-D
@pons Vedo che non hai risposto alla domanda... :D
su Amazon dovresti fare ricerche più accurate sul web! L'azienda è stata fondata nel 1995 e come vedi da questo articolo di analisi della trimestrale "america24.com/news/amazon-u… nel 2014" ancora presentava bilanci in rosso.
I finanziatori non fanno "cose belle" puntano solo a fare soldi
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@therealmarco Amazon ha impiegato 7 anni a produrre utili. Amazon e Spotify sono ottimi servizi, tuttavia in qualche modo non sono del tutto sostenibili. Il fatto che ci siano finanziatori che tengono in piedi Spotify é anche una cosa bella, ma lo fanno per scommessa.
@pons tu acquisti da Amazon? hai un account spotify?
@therealmarco già, ma non mi piace.
@pons Molti giganti del web hanno avuto bilanci in rosso per decenni. Amazon a raggiunto utili dopo 18 anni di bilanci negativi. Però hanno una ricchezza enorme che sono i suoi clienti, o utenti, che è la stessa forza che ha Facebook. Questo potenziale sconfinato di clienti/utenti rassicura i finanziatori che non abbandonano il titolo la cui quotazione sale sempre, sempre! Per cui la ricchezza di Amazon/Spotify non sta tanto dalla vendita o dagli abbonamenti, ma dal valore delle azioni. È il classico esempio di finanziarizzazione dell’economia.
In quest’ottica Spotify non ha alcun interesse a remunerare in maniera più equa gli artisti, cosi come ad Amazon non interessa alzare stipendi e migliorare le condizioni di lavoro. In Amazon questa settimana c’è stato il primo sciopero, l’azienda ha comunicato che l’adesione è stata bassa e l’impatto ininfluente. Spotify si tiene buone le major creando playlist con i brani dei loro artisti e ridistribuendo le revenue come descritto nell’articolo. Le major di tutto si preoccupano tranne che dei propri artisti che non garantiscono un sufficiente flusso di cassa, per cui i “milioni e milioni di artisti che si dividono il 10%” citando ancora l’articolo, sono paragonabili ai dipendenti Amazon che non possono neanche andare in pausa se devono usare il bagno.
Battaglia lecita. Ho però un dubbio, cercando notizie sui bilanci di Spotify si vede che è ancora in perdita nonostante la crescita degli utenti e della pubblicità. Faccio fatica a capire come possa raddoppiare il prezzo per streaming agli artisti, però sarebbe bello.