Un nome, o meglio un cognome, ieri mattina riempiva le prime pagine dei giornali italiani, a sera ritornava nei titoli di apertura di tutti i telegiornali. Era il nome di Ahmad Massoud, figlio di Ahmad Shah Massoud. Come per altri combattenti del mondo arabo – e più in generale per i protagonisti di epopee distanti dall'ombelico della nostra storia e dalle nostre narrazioni –, la sua vicenda viene alla luce solo quando incrocia quella dell'occidente, per rimanere indistricabilmente avvolta, nel suo che eco che giunge fin qua, da leggenda e malcelata diffidenza.
Massoud padre è stato Il Leone del Panjshir, dal nome della regione nel Nord-Est dell'Afghanistan in cui lui, tagiko di etnia, nacque, operò e comandò per tutta la vita. Con l'invasione sovietica del Paese divenne uno dei più popolari leader dei mujaheddin, l'esercito (molto variegato e irregolare) che si contrapponeva a Mosca . Con gli anni '90 e la caduta dell'impero il nemico divennero i talebani, con cui Massoud – politico e uomo di cultura, oltre che militare – aveva condiviso la causa della resistenza nei decenni precedenti. Tra le montagne di casa, dove gli (ex) studenti fondamentalisti del Corano non riuscirono mai a entrare, Il Leone del Panjshir proseguì nella guerra fino all'ultimo. Fu ucciso da Al Quaeda pochi giorni prima dell'11 settembre, data che rappresentò l'apogeo e al contempo l'inizio della fine dell'organizzazione terroristica.
Ora Massoud figlio – ben diverso per storia personale e formazione, visto che ha studiato all'estero nelle migliori università – si promette di riprendere la guerra del padre, e innescare dal Panjshir la resistenza ai Talebani, che si sono ripresi l'Afghanistan in poche settimane dopo il clamoroso sfaldamento delle "forze afghane" alleate con gli Stati Uniti. Il nome di Massoud – oltre a riaccendere qualche flebilissima fiammella di speranza in uno scenario che definire drammatico è ben poco – riporta alla mente un periodo storico e un'epopea che ebbe per protagonista anche un italiano. Un musicista.
Si chiamava Raffaele Favero. Era nato nel 1945 a San Mamete, in provincia di Como, ma si trasferisce bambino a Milano. Qui vive e studia, e inizia a suonare. Così, attorno ai vent'anni, finisce a fare il batterista dei Profeti, esponenti di quel beat all'italiana che regalerà grandi successi e grandi personaggi alla nostra musica. Raffaele entra nella band per suonare la batteria durante la registrazione del loro primo 45 giri, Bambina sola, contrattualizzato da CBS, che riscuote un discreto successo. Sulla copertina i quattro Profeti (un segno?) milanesi sono su un lungomare, elegantemente vestiti all'orientale. La canzone sul retro del disco è Le ombre della sera, scritta da Lucio Battisti. Il secondo 45 giri contiene la canzone Rubacuori, cover di Ruby Tuesday dei Rolling Stones, con testo di Mogol, affiancata da Sole nero, cover di Call My Name dei Them.
Poi sarebbero venuti Sanremo, Cantagiro e Festivalbar. Ma non per Raffaele, che nel frattempo aveva stabilito che quella del batterista non era la vita che facesse per lui. Nel 1967 decide di partire per l’Oriente. Va in India, come molti suoi coetanei (e tanti musicisti) in quegli anni, da qui in Nepal, Pakistan e Afghanistan. Ma è un viaggio soprattutto dentro di sé, come risulta chiaro dalle numerose lettere che Raffaele scrive alla famiglia in quegli anni.
Si converte all'Islam, la religione che sente spiritualmente a lui più vicina, portatrice dei valori di universalità, pace e solidarietà. Per vivere fa il contrabbandiere, l’attore, l’ingegnere edile e mille altri mestieri. Impara anche il pashtun. Conosce Jill, una giovane ragazza australiana, con cui si trasferisce in Australia e mette al mondo tre figli. Ma Raffaele non sa mettere radici, e poi se c'è un luogo in cui si sente a casa è l'Afghanistan. Ci ritorna nel 1980, quando i carri armati sovietici hanno fatto il loro ingresso tra gli altopiani. A folgorarlo proprio la figura di Massoud, le cui imprese diventano sempre più popolari.
Vuole documentare ciò che vede, mosso da un'empatia totalizzante nei confronti dei mujaheddin che contrastano con forze impari l'avanzata del nemico. Raffaele riprende tutto con la sua Super 8. C'è anche lui in mezzo a grandi nomi del giornalismo che, con ben altri curriculum e strutture alle spalle, attraversano l'Afghanistan: Ettore Mo, Mino Damato, Lucio Lami ("embedded" tra le forze antisovietiche, come racconta nel libro Morire per Kabul, il libro che più di tutti lo ha ispirato e convinto a partire). Solo che lui è musulmano, ed è più che un semplice cronista.
Così scriveva da Peshawar nel novembre 1980. "E’ molto interessante qui al confine con l’Afghanistan; stiamo aiutando i ribelli Pathan che con fucili antiquati tengono a bada la potenza russa, elicotteri, carri armati, mine, gas, distruzioni complete di villaggi e donne e bambini. E’ molto tragico ma la fede nell’Islam li renderà vittoriosi. I russi non possono fare due passi fuori dalle loro macchine, sia elicotteri che carri armati, senza essere preso o sparati".
La testimonianza, come altre relative alla guerra e agli erratici anni precedenti a zonzo per l'Oriente (e per sé stesso), si trova sul sito I Diari Raccontano, un bellissimo progetto con il contributo del ministero degli Esteri che raccoglie storie straordinarie di italiani che hanno vissuto all'estero, raccontate dalla loro stessa penna. Fateci un giro, e recuperate gli scritti di Raffaele.
Che, nel frattempo, al di là della sua famiglia nessuno chiama più così. Il suo nuovo nome è Rafiullah, che dà anche il titolo al libro che Terre di Mezzo gli ha dedicato 15 anni fa, Rafiullah - Via da Milano, tra i mujaheddin, che raccoglie in versione estesa le lettere citate in precedenza.
Favero muore nel 1983, ucciso da un carro armato sovietico. Le circostanze non sono chiarissime, perché in quel momento il mezzo era in mano agli afghani e Raffaele muore stritolato sotto i cingoli. I mujaheddin che lo avevano accolto, lo seppelliscono come un martire. O meglio shahid, martire della guerra santa. Il suo corpo si trova ad Urgun, nella provincia montana del Paktia, dove si tenne un lungo (e disastroso) assedio sovietico. Ancora oggi nel mondo arabo il suo è un nome conosciuto e stimato. In Australia, dove si trova la sua famiglia, una tomba senza salma lo ricorda.
Per "capirlo" meglio, oltre ai suoi testi c'è questa bella intervista del Corriere alla sorella Patrizia. Alla fine le viene chiesto che differenza ci sia tra lui e un foreign fighter, "soldati" pro Isis di cui negli anni scorsi si è parlato molto. "Sono sicura che non sarebbe mai diventato un terrorista. Mi pare d’averlo qui al mio fianco, mentre le dico questo", risponde. "Mio fratello ha dato la sua vita, non l’ha tolta a nessuno. È andato volontariamente incontro alla morte per difendere la libertà degli afgani. Ci è stato riferito che Raffaele, la mattina in cui restò ucciso, aveva detto: 'Se questo è il mio destino, lo accetto'".
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L'articolo Storia di Raffaele Favero e della sua vita tra i Profeti di Dario Falcini è apparso su Rockit.it il 2021-08-24 10:50:00
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