È da anni che sentiamo parlare di crisi dell'industria discografica, ma forse ora si inizia a intravedere una luce in fondo al tunnel. La luce si chiama streaming ed il trend estremamente positivo di questa forma di consumo musicale è confermato dai dati molto confortanti che Universal Music Group, la più grande casa discografica del mondo, ha condiviso con i propri azionisti: una crescita generale del 12%, un fatturato che supera per la prima volta in 10 anni i 5 miliardi di Euro, e la voce "streaming" che fa registrare un incremento del 56% arrivando a generare da sola quasi un miliardo di euro.
Mentre le vendite di prodotti fisici sono in declino e rappresentano circa un terzo del fatturato, il digitale ormai è responsabile di quasi la metà degli introiti della Universal: nella seconda metà del 2015 c'è stato il sorpasso, con lo streaming che ormai genera da solo il 52% del fatturato "digital", superando di poco il download, ovvero gli acquisti da iTunes, Google Play e simili. Il quadro è inequivocabile e se i trend saranno confermati nel 2016 lo streaming diventerà il modo principale con cui consumeremo la musica, per la gioia di Spotify, Youtube, Apple Music e gli altri player di questo mercato in grande crescita.
In realtà è una buona notizia anche per le case discografiche indipendenti, spesso estromesse dalle playlist radiofoniche sia nostrane che internazionali, che possono trovare nello streaming sia un veicolo promozionale interessante per i propri artisti che una fonte di guadagno abbastanza redditizia. Negli ultimi anni il leitmotif di manager, artisti ed etichette in coro è stato ribadire che lo "streaming non paga", spesso facendo paragoni azzardati fra un'industria nascente e quella consolidata della vendita dei dischi, inculcando anche negli utenti una certa diffidenza verso questo tipo di servizio; oggi i numeri stanno cambiando e con l'aumento degli abbonati ai servizi premium anche i profitti hanno avuto un'impennata, ed ormai sono di fatto uno dei motori più importanti per generare utili.
Il tema di quanto di questi utili va a finire effettivamente nelle tasche degli artisti, però, è più che mai vivo e la prima causa sono i contratti che gli artisti stessi hanno firmato con la casa discografica; fino a pochi anni fa la clausola sui diritti digitali veniva spesso ignorata e di conseguenza le label hanno applicato delle percentuali a dir poco scandalose, trattenendo fino all'80% dell'utile generato. Oggi le cose stanno cambiando; gli artisti prestano moltissima attenzione a questo tipo di diritto ed associazioni di categoria, come l'IMPALA (l'associazione delle etichette indipendenti), stanno facendo firmare alle label il "Fair Digital Deals for Artists" che le costringe ad applicare delle percentuali più oneste.
In passato ci sono stati anche dei comportamenti scorretti come il famoso deal fra Sony Music e Spotify, dove la major si è fatta pagare la metà dei diritti annuali previsti con un anticipo che poi non ha effettivamente pagato agli artisti. Ora che questa pratica è venuta a galla è molto meno diffusa, ma c'è ancora molto da fare per far arrivare la fetta di torta equa anche agli artisti. La percezione diffusa, infatti, è che YouTube paghi molto, mentre le altre piattaforme remunerano pochissimo; la realtà è che un play premium di Spotify paga fino a 4 volte una visualizzazione sulla piattaforma di Google e altri servizi, come TIMmusic, la piattaforma per gli abbonati Tim, pagano ancora di più.
Nonostante questi dati, rimangono ancora degli artisti fuori dallo streaming e non sono di poco conto: i due progetti di maggior successo degli ultimi anni, Taylor Swift e Adele, non sono disponibili sulle piattaforme digitali se non nella formula del download. Questa scelta è giustificata dalla percezione che se un disco è disponibile "gratis" su piattaforme come Spotify, non verrà acquistato e le royalties maturate dallo streaming non sono ancora in grado di sostitutire al 100% quelle delle vendite. In risposta a questa esigenza, proprio la Sony ha delineato come pensa di operare in futuro, ovvero utilizzando la tecnica del "windowing" ereditata dal settore cinematografico; la teoria è che i film prima escono a pagamento al cinema, poi finiscono nei servizi di streaming su abbonamento e sui canali pay per view, ed infine arrivano in tv per essere fruite gratuitamente. La musica potrebbe seguire lo stesso percorso; i dischi prima potrebbero uscire in forma fisica e in download digitale, poi passerebbero sulle piattaforme premium, per poi arrivare ai servizi di streaming gratuiti.
(Taylor Swift, i cui dischi non sono disponibili sulle piattaforme streaming - foto via theguardian.com)
Un'idea interessante che molti analisti hanno però colto freddamente: Spotify e chi applica il modello freemium, permettendo di ascoltare i dischi gratis grazie alle inserzioni pubblicitarie, hanno di fatto abbattutto la pirateria musicale, che è in calo proprio nei paesi dove lo streaming è più forte, e operazioni come queste rischiano di riportare in auge il download illegale. La riprova di questa teoria è stata la pubblicazione di "The Life Of Pablo" di Kanye West, in esclusiva su Tidal e quindi introvabile per chi non è iscritto a questo servizio, che ha rilanciato PirateBay, un sito che permette di trovare i tracker di Torrent, portandogli mezzo milione di clienti in poche ore.
Quella dello streaming è una strada lunga e tortuosa a cui l'industria discografica si deve ancora adeguare, ma una cosa è certa: il futuro della musica passa da qui.
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L'articolo Perché lo streaming è l'unica maniera di salvare la musica di OliverDawson è apparso su Rockit.it il 2016-02-22 15:25:00
COMMENTI (1)
Condivido assolutamente il pensiero di Oliver! E aggiungo che abbiamo bisogno di trasparenza da parte di etichette, distributori, aggregato e over the top...