Siamo sicuri che anche voi avrete almeno un amico che ogni anno, al ritorno da Budapest, tiene al polso per almeno sei mesi il braccialetto di stoffa firmato Sziget. Per questo, abbiamo deciso di provare anche noi in prima persona uno dei festival europei che sta registrando numeri da record.
Arriviamo per il secondo giorno, con il totale quanto inevitabile spaesamento dato da un luogo gigantesco con una discreta (eufemismo) concentrazione di persone. L’attenzione è tutta per il main stage, dove troviamo subito i Queens of the Stone Age e dove Deadmau5 chiude la giornata con un set potentissimo e divertente. Nel frattempo, The Bloody Beetroots (unico italiano a calcare uno dei due palchi principali) fa il pienone a poche centinaia di metri di distanza. Nel corso dei giorni successivi ci concentriamo soprattutto sui live e finendo quasi sempre per prenderci bene per i concerti del palco A38. Tutto quello che succede, però, è influenzato in qualche modo dal meteo, perché al Sziget 2014 fa freddo, a volte pure tanto.
A dire il vero la partenza inganna: il terzo giorno del festival è il primo che ci facciamo per intero e la temperatura è davvero alta. Ci si gode i chitarrini dei Girls in Hawaii, si scopre che la tipa incrociata in pigiama a colazione è la corista/nobile britannica/bellissima moglie del cantante dei The Big Pink (ottimi, davvero: il loro sarà uno dei live migliori del festival) e si chiude con la doppietta Tom Odell+Miles Kane. In mezzo, lo show di Skrillex, che per oltre un’ora propone lo schema “parto dal campionamento di una canzone e poi ci metto sopra tutte le skrillexate classiche, che per sicurezza porto sempre nella tasca posteriore dei pantaloni”.
Questo è anche il giorno in cui capiamo una cosa importante, ovvero che hanno ragione tutti quelli che dicono che il Sziget è molto più della somma delle band che suonano. Girando per le tende del campeggio libero si trova gente che è lì a campeggiare come fosse in una pineta della Toscana, del tutto disinteressata a quello che succede su uno dei venti palchi. In questo senso, la menzione d’onore va a un gruppo di inglesi, che stende un filo di lucine e fiorellini di carta intorno alla propria tenda e a un gruppone di nazionalità non identificata, che crea un’amaca a tre piani tra gli alberi. Tutte cose belle, che però vengono un po’ ammazzate dal diluvio e dal fango del giorno successivo. Non è tanto la pioggia, quanto il freddo che si porta dietro: spariscono i costumi, saltano fuori maglioni e kway. Il fango, poi, divide nettamente in due la popolazione del Sziget: quelli che chissenefrega e girano in infradito e piedi nudi e quelli che, sporchi comunque fino al ginocchio, cercano almeno di non affondare.
Il quarto giorno in apertura c’è il live di Caparezza, il nome di maggior richiamo dello Europe Stage, il palco che ospita principalmente band dell’Europa continentale. È co-organizzato da Alternativa - Sziget Italia (che gestisce anche il campeggio italiano) e da Puglia Sounds, che hanno allestito anche un piccolo studio di registrazione. Lo Europe è un palco interessante ed è quello su cui si esibiscono anche quasi tutte le band italiane (oltre a Caparezza, anche Salmo, Aucan, Diodato e Rumatera), spesso davanti a un pubblico fatto soprattutto di connazionali, come è naturale che sia. È qui che becchiamo IL personaggio del festival, un tizio intorno ai 50 con addosso centinaia di braccialetti di festival collezionati negli anni, che fa air guitar e playback improbabili in mezzo al pubblico. Genio.
Al concerto di Lily Allen assistiamo un po’ impietriti. Lei ci prova, fa i balletti, ha le ballerine, è pure mezza sbronza, ma la risposta del pubblico è impietosa: i classici honey shot sulle tipe del pubblico mostrano una sequenza di persone disinteressate. È comunque il giorno dello storico sold out: 85mila persone presenti sull’isola e si sente. Si sente soprattutto durante il concerto di Stromae sotto il tendone dell’A38, pieno all’inverosimile e con centinaia di persone rimaste fuori per motivi di sicurezza. Il belga mette insieme un’ora in cui tutto gira alla perfezione: i pezzi si incastrano uno dopo l’altro senza nessuna forzatura e soprattutto evitando quello che poteva sembrare il rischio maggiore, ovvero la ripetitività. Una pop star, punto.
Pausa.
Breve elenco di cose che puoi fare oltre a guardare i concerti: andare al circo, buttarti col bungee jumping, andare sulla ruota panoramica, scattarti foto a un photoboot che crea gif animate, mangiare ogni tipo di cucina etnica, bere birre medie a due euro, perderti nelle strade dell’isola e scoprire che c’era un angolo di festival che ancora non avevi visto e che nemmeno immaginavi esistesse. Senza dimenticare che si è pur sempre a Budapest, una città bellissima.
Fine della pausa, si riprende.
Ferragosto è il giorno della doccia fredda, nel senso che la serata di tantissimi verrà troncata sul nascere da un temporale imprevisto, che lascia tutti fradici e spinge verso casa decisamente troppo presto. C’è tempo però per una parentesi adolescenziale, riassumibile nell’urlare il ritornello di “If you tolerate this” dei Manic Street Preachers e nel trovarsi al centro del pubblico per l’inizio dei Korn. Prima della pioggia (che ci fa perdere i Klaxons) c’è giusto il tempo per guardarsi in faccia stupiti con tutti quelli che sono passati dall’A38 a sentire Kelis, o quello che ne rimane. Le aspettative c’erano, ma è uno dei due momenti più bassi del festival.
Il weekend finale lo affrontiamo con i segni dell’età e tutti fatti di paracetamolo. In questo stato di grazia passiamo agili due giorni tra Madness (regali) e Prodigy (a caso), tra Kooks (ineccepibili) e Outkast (bomba). Il picco del weekend va però ai Mount Kimbie, ultima perla ascoltata all’A38. Dopo il David Guetta del 2013, la chiusura è affidata a Calvin Harris. E qui, scusate, non riesco a resistere e devo cedere al momento moralista: il dj set di Harris è coinciso con uno schiacciare play su una playlist.
Da lì, tutto in automatico, con tanto di due secondi di silenzio tra una traccia e l’altra. Prendete questa cosa, unitela alla notizia del 730 di quest’uomo e poi boh, pensate un po’ quello che volete. Con le fiamme (vere), i fuochi d’artificio e un pubblico comunque contentissimo, si chiude il programma del main stage. C’è chi andrà avanti fino all’alba e chi il giorno dopo partirà in navetta per il B My Lake, afterparty lungo quattro giorni sulle rive del Lago Balaton. Eroici, a modo loro.
(Szigetfestival.com / Mohai Balázs)
Costretti - costretti! - a bere le ultime birrette per scaricare la carta ricaricabile interna al festival (in caso non lo sappiate, al Sziget non gira un soldo in contanti), inizia il bilancio. Inevitabile quanto fine a se stesso. Il motivo per cui sono venuto quest’anno non è stato certo la line-up: confrontatela con quella dello scorso anno e la differenza qualitativa balzerà all’occhio. Eppure questo è stato l’anno del record di pubblico, delle 415mila persone presenti sull’isola nel corso del sette giorni. La dico in modo diverso, fa più impressione: una media di circa 60mila persone al giorno. Tutte lì non per uno o più gruppi, ma per il Sziget in quanto tale, per l’esperienza. Ovvero per qualcosa che non puoi creare da un giorno all’altro con una formuletta. Servono anni di crescita costante, in un panorama festivaliero europeo sempre più aggressivo. L’aggettivo aggressivo non è mio, ma degli organizzatori del Jabberwocky Festival, messo in piedi a Londra da ATP, Pitchfork e Primavera in sovrapposizione con il Sziget e annullato clamorosamente a pochi giorni dall’inizio, causa costi esorbitanti e poche prevendite.
Tornato in Italia, scopro che su Repubblica - il quotidiano che non può fare a meno di usare la parola Woodstock non appena ci sono tre gruppi che suonano insieme - si auspica la nascita pressoché dal nulla di una sorta di Sziget italiano. Certo, come no. Fortuna che c’è gente che ci prova e ci sta provando da anni (dalla Sicilia alla Toscana, all’Abruzzo al Veneto a pressoché qualsiasi regione), partendo dal piccolo e provando a crescere. Un po’ come quel festival ungherese, che ha piazzato il suo record di pubblico a 22 anni dalla nascita. Quel festival in cui la gente va anche solo per stare insieme in tenda, perché si sta talmente bene che la musica viene percepita come un plus. E non è sminuire il ruolo delle band: è sapere fare un festival. Saperlo fare benissimo.
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L'articolo Sziget 2014: l'anno dei record di Marco Villa è apparso su Rockit.it il 2014-08-11 00:00:00
COMMENTI (1)
Prima o poi ci devo andare. E 'troppo bello.