Mi sono chiesto di cosa dovremmo scrivere ora. Quale slancio laterale potrebbe rendere accettabile, prima di tutto a noi stessi, lo scrivere di altro che non sia l’attualità che stiamo vivendo. Ho pensato così di lavorare a una serie di interviste che potessero farmi approdare in altri luoghi e in altre epoche. In ogni puntata di “Musiche per altri tempi” chiederò ad un ospite di Casa Verdi, la casa di riposo per cantanti e musicisti istituita da Giuseppe Verdi nel 1899 a Milano, di raccontarmi un disco dei suoi tempi. E quei suoi tempi
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"Sul palco io mi sono sempre sentita un’altra persona. Nella vita di tutti i giorni non mi truccavo mai, mi sentivo una nullità, ma al teatro ero sempre la prima ad arrivare per il trucco. I vestiti me li cucivo direttamente io, non volevo ci mettessero mano le sarte. A quell’epoca, si usciva dalla seconda guerra mondiale, si viveva un periodo di magra e tutti eravamo nessuno. Al San Carlo invece percepivi di far parte di una famiglia". Tecla Catalano, nata nel 1941, aveva otto anni quando entrò alla Scuola di Ballo del Teatro San Carlo di Napoli, il teatro storico più antico d’Italia, il primo ad avere una scuola di ballo e anche il primo a riaprire dopo la guerra.
"Io abitavo vicino Piazza del Gesù. Seppi che un’amica del quartiere si era iscritta al bando di ammissione così dissi a mia madre: 'Se l’ha fatto lei, perché non lo posso fare io?'. Mi rispose: 'Ma se lei non è riuscita ad entrare, non ci riuscirai neanche tu'". Il giorno della prova di ammissione c’erano il sovrintendente del teatro, Pasquale Di Costanzo, il sindaco di Napoli, Domenico Moscati, e la prima ballerina della Scala Bianca Gallizzia.
"Entrai in quella che oggi si chiama proprio Sala Gallizzia, subito dopo l’ingresso c’erano due specchi, al lato destro e al lato sinistro delle pareti. Un’insegnante mi accompagnò al centro della sala, ero un po’ impaurita, noi bambini di allora non sapevamo nulla, non avevamo mai fatto niente perché non c’era niente. Ricordo che la retta non si pagava, ma dovevi comprarti tu le scarpe da ballo. Mia madre diceva: 'O ti compro le scarpe o le fotografie che ti fanno in scena', così ho avuto più scarpe che ricordi fotografici".
L’opera a cui è più legata è L’Aida, "perché con questa che ho iniziato da piccola. In scena c’erano delle arpe di legno, con delle corde finte, noi comparse dovevamo muovere le mani sullo strumento fingendo di suonarlo". A nove anni condivide il palco con Ingrid Bergman, in Giovanna d’Arco al rogo, per la regia di Roberto Rossellini. "Rossellini si sedeva in platea e dirigeva le prove al microfono. Era molto sboccato, non è che si arrabbiava, ma se qualcosa non gli andava bene buttava fuori parolacce e in quei momenti la Bergman, che era sua moglie, arrossiva. Anche se tutte noi eravamo piccole ce ne accorgevamo, diventava rossa come un peperone".
La prima opera in cui ha un ruolo è La Sonnambula, un’opera semiseria in due atti composta in due mesi da Vincenzo Bellini nel 1831 a Villa Passalacqua, a Moltrasio, sul lago di Como, ospite di Giambattista Lucini Passalacqua. In quel periodo il compositore intratteneva una relazione con una donna che abitava lì vicino, Giuditta Turina, moglie di un ricco imprenditore. Oggi la villa è di proprietà di un magnate americano, che su Linkedin si racconta così: “Jim Cantwell Moltrasio was married in 1984 to a wonderful girl from Salt Lake City, Utah. They attended graduate school in London, Uk during the first year of their marriage. Their second daughter was born in Milan. The Cantwell Moltrasio family loves Italian life and Italian people. Their passion is living in the Lake Como region of Italy”.
La Sonnambula racconta invece di una donna affetta da sonnambulismo che viene trovata dal futuro sposo in casa di un altro uomo, dove era finita non per sua volontà - ma per volere della sua patologia. Lo sposo non le crede e l’abbandona. Nell’atto finale la donna cammina sul cornicione di un mulino, con in mano un fiore appassito a cui canta: "Ah! non credea mirarti, sì presto estinto, o fiore. Passasti al par d’amore, che un giorno sol durò”.
"Ho ballato fino a quando ero incinta di tre mesi, della prima figlia, poi sono andata al Teatro dell’Opera di Roma", continua a raccontare Tecla Catalano. "Dopo la seconda figlia, sono andata al Teatro Petruzzelli di Bari, dove sono rimasta per due anni. La prima stagione la inaugurammo con La danza delle ore, tratta dalla Gioconda di Amilcare Ponchielli. Era un balletto stupendo. Indossavamo tutù all’italiana, lunghi fino alle ginocchia, e di ogni colore perché impersonavamo le varie sfumature del giorno e della notte. Sul palco era tutto un susseguirsi di movimenti diagonali, circolari, come fossimo lancette di un orologio, ma anche dietro il palco, dove correvamo per i cambi d’abito, era tutto un intreccio".
Da come la descrive, appare una danza che non si esauriva sul palco ma che aveva una sua coda dietro le quinte, uno spettacolo tanto quanto quello ufficiale che si teneva dall’altra parte del sipario. "A Bari fu un periodo meraviglioso. Dividevo due stanze, collegate da una porta, con Dorothy e Beverly, due ballerine americane. Mio marito veniva a trovarmi nel weekend e passeggiavamo sul lungomare della città. Conservo una foto che ci ritrae nel giorno di chiusura del teatro, un lunedì in cui eravamo andati a mangiare i polipi e le seppioline in spiaggia. I pescatori sbattevano il pesce in grandi ceste di paglia e poi te lo servivano crudi. Camminavamo per Barivecchia, con il selciato composto di ciottoli biancastri, su cui le donne facevano scorrere secchiate d’acqua per lavarli; pulivano la strada come fosse casa loro, anche questo era un panorama. Con le americane giravamo per negozi. La mattina facevamo colazione con focaccia in un forno di fronte al teatro, poi facevamo le prove e la sera si andava in scena".
La conversazione telefonica con Tecla Catalano continua con una rievocazione di nomi e volti. Da Cesare Mario Cristini, "mio suocero, scenografo. Lo trova nei libri di storia dell’arte", ad Aldo Cristini, il figlio, "mio marito, studiava alla scuola d’arte a Napoli e un giorno chiese di disegnare le ballerine del Teatro San Carlo mentre facevamo gli esercizi alla sbarra, e così mi vide". Da un ballerino del San Carlo detto Pippo il pazzo, "perché si innervosiva sempre", a un altro, detto Pippo il parrucchino, "perché aveva il parrucchino". Da Franca Valeri, "amante della lirica, veniva a vedere le nostre opere. La prima volta che la incontrai, la trovai timidissima, non diceva due parole, tant’è che con le altre ballerine ci dicemmo 'Facciamola bere, così si scioglie'", all’imitatore Alighiero Noschese.
Uno che, racconta, "non è nato più uno come lui. Faceva cose fantascientifiche in televisione. Era capace di rimanere attaccato alla tv dodici ore per studiare il Papa e imitarlo. Poi ebbe un forte esaurimento nervoso e si suicidò sparandosi in testa nel cortile di Villa Stuart a Roma, accanto ad una madonnina, clinica che si trovava proprio di fronte a casa sua. Io corsi subito a Roma e la sera rimasi a dormire nel suo appartamento. Al mattino sentii la sua voce, Alighiero – fuori di scena – tartagliava. Ed ecco che sentivo tartagliare. Mi spaventai perché nel dormiveglia ricordavo che era morto. Poi scoprii che era il fratello, aveva la sua stessa voce". Il paradosso dell’imitatore che, alla sua morte, viene imitato.
Qualcuno bussa alla porta, è il medico di Casa Verdi. Tecla Catalano gli ricorda del potassio. Torna al telefono e mi dice "qui stiamo tutti bene. Seppur chiusi nelle nostre camere. Ora sono partite delle proiezioni di film, ci fanno scendere nella sala cinque alla volta, distanziati e con mascherine. Ma a me non danno fastidio le mascherine. Più la noia: gioco al computer, ricamo, mi sento con la mia vicina di stanza, Marisa Terzi, che ha composto anche per Mina".
Al quarantottesimo giorno di quarantena ascolto una playlist composta da Ah non crede rimirarti, cantata da Maria Callas e tratta da La Sonnambula, La Danza delle Ore, che è la composizione che Tecla consiglia di ascoltare in questo periodo, a qualsiasi ora, dato il momento immobile in cui ci troviamo, e scopro su bandcamp l’album Canzoni perdute, vecchie canzoni che Marisa Terzi ha deciso di incidere e riunire in un disco nel 2017. Mi ritrovo ad ascoltare più volte la sua Amore, amore mio mentre riporto l’ultimo appunto dall’intervista a Tecla Catalano: "Tornare oggi al Teatro San Carlo mi farebbe troppo male, sarebbe come se ricevessi una pugnalata. Anni fa ci sono passata davanti con il taxi ma non mi sono voluta fermare. Una volta all’anno mi arriva una comunicazione da parte loro, siccome ricevo una pensione devo rispondere a una domanda: se sono viva o se sono morta".
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L'articolo Tecla Catalano, figlia del teatro San Carlo di Valerio Millefoglie è apparso su Rockit.it il 2020-05-02 11:19:00
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