Nel 2003, tra colletti delle polo altissimi e jeans pensati per mostrare l’elastico dei boxer, più o meno un terzo degli adolescenti ascoltava ancora punk rock. Personalmente, conducevo un’esistenza scandita da compilation masterizzate che si scambiavano tutti, nerd e ragazze compresi: Blink, Green Day e Sum 41, cose tuttora più che accettabili come i Bad Religion. Oltre ad Eminem, ovviamente. E al crossover. E al nu-metal, per il quale ci scusiamo ancora. Nell’Olimpo dei cinquanta pezzi contenibili nei primi lettori mp3, c’era sempre posto per ilocal heroes, e quelli miei e dei miei amici erano di tutto rispetto: i Sun Eats Hours suonavano melodic hardcore tipicamente californiano dal 1997, con un nome mutuato da un vecchio proverbio veneto che invita – ovviamente – ad andare a lavorare. Nel corso degli anni avevano acquistato sempre più credibilità, di spalla a leggende come Offspring e The Cure e poi in tour fino al Giappone. In piena comunione d’intenti con il proprio pubblico di riferimento, inoltre, i loro dischi si chiudevano sempre con tracce nascoste estremamente volgari (in italiano): tutto ciò che si poteva desiderare, a 13 anni.
I Sun Eats Hours a Lione nel 2004, spalla al tour europeo di "Splinter" degli Offspring
Francesco, il cantante, abitava davanti a mia nonna (sul campanello c’era un adesivo con il nome della band, sinonimo di una professionalità irraggiungibile); quando decisero di sciogliersi, nel 2007, li avevo già visti live ogni volta che potevo. Nel frattempo avevo iniziato a suonare, entrando in quell’ambito di leggende tramandate oralmente e comandamenti non scritti che è una scena musicale di provincia. Quella alto-vicentina, in particolare, aveva una storia (soprattutto hardcore) di cui andava e va tuttora molto orgogliosa: in una città di 25.000 abitanti con almeno venti band più o meno lanciate, i Sun Eats Hours godevano così di uno status di primo piano, sfoggiando medaglie guadagnate sul campo (qui una nostra intervista del 2007). Dopo uno split con i giapponesi Nicotine, 102 date di tour e un’intervista per Rolling Stone, il culmine sembrava così raggiunto, ma i dissapori interni e l’età matura che uccide il punk rock li stavano portando allo scioglimento. Ed è qui che la storia si fa interessante.
Qualche anno dopo, mi telefona la stessa nonna di cui sopra, consigliandomi di recuperare l’ultimo numero diFamiglia Cristiana, dove spicca un’intervista agli eroi della mia adolescenza. C’è da dire che i segnali si erano fatti frequenti negli ultimi tempi, con l’annuncio di un disco nuovo, il primo in italiano, la firma con Sony/RCA a inizio 2010 e, soprattutto, il cambio di nome in The Sun. Musicalmente, il risultato era stato quello di una virata decisa ma abbastanza coerente verso l’easy listening nostrano, confermata anche dalla partecipazione di Capitan Fede Poggipollini a lavori successivi; il discorso testi era, ovviamente, tutto un altro paio di maniche.
Ricordo il primo live in città dopo anni: la piazza piena di scout e famiglie, una scaletta incredibilmente edulcorata fino agli ultimi 3-4 pezzi e io molto, molto perplesso. A fronte del pur ottimo nuovo singolo “1972” (“Poteva opporsi tutto il mondo / Ma noi lo sentivamo / Che dalla nostra parte stava il Cielo”), in scaletta mancava purtroppo il mio pezzo preferito (seppur minore) “S.M.M.C.” (“You played with my feelings / You made the worst error of your life / Suck my massive cock” ). Fortunatamente un grande classico in chiusura come “La Mangiauomini” (“Tu credi d'esser l'uomo / l'unico della notte / Ma pensa bene in otto prima sono stati / Spompati a morte”) metteva d’accordo tutti.
La questione era, in realtà, molto semplice: i quattro avevano scoperto Gesù. A cominciare dal frontman per poi allargarsi ai colleghi di band, la conversione sembrava aver sistemato le loro vite, con il bonus non indifferente di sfruttare la loro esperienza professionale in una terra vergine e per lo più inesplorata, il Christian Rock italiano. Chiariamo una cosa, qui non si vuole mettere in dubbio il coraggio delle convinzioni altrui: i ragazzi in questione vengono da una scena che lavora quasi sempre a fianco dei centri sociali, e da un posto che usa le bestemmie come il resto d’Italia usa le virgole. Chapeau. Nel frattempo, i The Sun iniziavano a riempire i palazzetti per poi incontrare il Papa, sempre più in vista in un ambiente che fino a quel momento aveva trovato il suo massimo riferimento mediatico in Fratello Metallo.
La sensazione che se ne ricavava era che le parrocchie avessero ancora molti più giovani del previsto i quali, nonostante uno stigma sociale che li posizionava tra i figli di Ned Flanders ed i papaboys, volevano ascoltare rock: certo, spesso dopo un momento di preghiera collettiva in palazzetti alcool-free, ma sempre di rock si trattava. Nelle trasmissioni della domenica mattina di Rai1, la storia dei punk convertiti veniva sempre riproposta con piacere, mentre l’autobiografia di Francesco usciva per Rizzoli con prefazione del Cardinale Ravasi, tra lo spaesamento generale di noi duri e puri.
I The Sun ospiti di "A Sua Immagine", Rai1
Solitamente, la gavetta di chi ha appena sfondato viene gestita a livello promozionale in due modi: può essere esaltata, per non perdere il capitale di credibilità indie/ghetto/etc. accumulato dall’artista, o silenziata, qualora fosse troppo imbarazzante. In questo caso, però, la scelta di agenzie stampa e programmi tv era stata quella di demonizzarla, calcando la mano sugli stravizi del passato come neanche si trattasse di GG Allin, per risaltare la recente conversione; un approccio questo, mediaticamente vincente sul pubblico nuovo ma più difficile da digerire per chi aveva condiviso la prima parte del loro percorso. È sempre difficile per una band locale farsi perdonare il successo da chi è rimasto a casa, figurarsi un tale cambio di sponda (curiosamente, più o meno nello stesso periodo di quello molto più radicale di Giovanni Lindo Ferretti); al netto di invidie varie e pretese di purezza degne di una riserva indiana, però, la svolta dei The Sun non sembra così facile da liquidare come una semplice paraculata. Dell’audacia di sponsorizzare il Salvatore tra blasfemie e cabernet se n’è parlato, ma anche l’impegno speso in Palestina (tappa di tour e di raccolte fondi destinate per le opere missionarie) depone tutto sommato a loro favore, così come il messaggio genericamente positivo con il quale tuttora salvano migliaia di giovani altrimenti target di Giuseppe Povia.
Qualche tempo fa, un amico attivo da anni in ambito discografico mi faceva notare che ci avevano visto giusto i Melt, gruppo seminale del vicentino con una breve parentesi di notorietà su MTV nel 2005, grazie ad un video firmato da Davide Toffolo. A inizio carriera (1997), i Melt cantavano che “In fin dei conti siamo noi / i bravi ragazzi”, parlando di sé e del resto della scena provinciale, casa degli stessi Sun Eats Hours/The Sun; gente con la cresta, il chiodo e le birrette che però non creava mai reali problemi, anzi, spesso condivideva un messaggio sociale, più o meno ingenuo ma sempre sincero. Forse la chiave di lettura è proprio questa: bravi ragazzi che suonavano punk, bravi ragazzi che hanno esagerato con la festa, bravi ragazzi ora famosi e redenti nel Suo nome – non è una transizione così difficile da accettare alla fine dei conti, ma ecco, almeno i Derozer lasciaceli.
Grazie Gesù.
---
L'articolo E Gesù spezzò il punk - breve storia dei The Sun, dal tour con gli Offspring alle udienze col Papa di Marco Ritz è apparso su Rockit.it il 2018-04-03 11:19:00
COMMENTI