Nell'estate del 1997, pochi giorni dopo la fine della seconda superiore, partii per l'Inghilterra insieme al mio migliore amico. Ci insediammo a Bristol per due settimane, ospiti a casa di Jeanette, un'adorabile signora sui 45 anni che aveva vissuto e partecipato all'esplosione del punk inglese in prima persona nel 1977, fino a quando il suo diventare precocemente madre l'allontanó dai concerti e dagli squat.
Venti anni dopo il figlio, ormai diciannovenne, si arruolò nei Blues and Royals di sua maestà e lei iniziò ad affittare la sua stanza con un letto a castello per la cifra irrisoria di 100 sterline totali alla settimana. Fu così che ci trovammo nella sua casetta vicino Portishead. Nella sala che fungeva da cucina e soggiorno Jeanette aveva una piccola libreria munita di una cinquantina di libri, quasi tutte biografie di band punk e rock. L'ultimo volume della fila mi colpì appena misi piede in quella stanza: era Touching from a distance, la biografia di Ian Curtis scritta dall'ex moglie Deborah. Fu un colpo al cuore.
Mi ero scontrato con violenza contro Closer solo la settimana precedente, grazie ad una cassetta della Tdk da 90 minuti: sul lato A c'era un mix sparso di pezzi dei CCCP e sul lato B quei 9 brani che mi avrebbero fuso il cervello per sempre. Il mio amico (che l'aveva appena ricevuta dal fratello e ne aveva fatto una seconda copia) me la prestò più per farmi conoscere i CCCP ma, a parte Trafitto, sul momento non mi colpirono (recuperai in seguito per fortuna) a differenza dei Joy Division, che mi si attaccarono alla pelle istantaneamente.
Portai pochissime cose con me in Inghilterra, ma feci il viaggio con quella cassettina dentro il walkman, ascoltando in loop solo il lato B. Che dire: forse il destino (o il caso) mi stava dando un segnale ben preciso. Quello per i Joy Division era un amore freschissimo, non sapevo niente di loro; non conoscevo minimamente la loro storia, la discografia o i loro volti. La presenza di quel libro fu incredibilmente tempestiva.
Gli anni corrono e, anche se stiamo parlando solo del 1997, i tempi erano decisamente diversi. Internet era agli albori ed era un mondo web molto diverso da oggi: lo streaming, il file sharing e Wikipedia non esistevano, le informazioni erano molto più difficili da scovare. Se volevi sapere qualcosa di più su una band dovevi esaminare ai raggi X i credits e le foto sugli album originali, comprare una rivista di musica o affidarti alle Vhs e ai libri, ma, in quest’ultimo caso, la scelta era molto limitata.
Chiesi in prestito Touching From a Distance a Jeanette ed iniziai a leggerlo, non senza difficoltà: studiavo inglese fin dalle medie ma quello era il primo libro in lingua che affrontavo fuori dal percorso didattico: era un inglese con delle sfumature diverse da quello scolastico, con una prosa più gergale ed un uso dei phrasal verbs molto spericolato e libertino. Questo ostacolo rese la lettura ancor più emotiva e magica; nella mia ingenuità credevo di avere in mano la chiave di un segreto per pochi eletti (ringrazio di cuore quel libro per avermi fatto iniziare a leggere in lingua originale anche i testi al di fuori del liceo).
Dopo aver dato un'occhiata veloce all'indice, il giorno seguente andai in un negozio di dischi per comprare Unknown Pleasures. Ma l'unico album che avevano in cassetta era Substance, la raccolta del 1988 (che mi accaparrai al volo). Molte delle notti successive le passai leggendo Touching From a Distance sotto le coperte, facendo luce con una mini torcia ed ascoltando quel nuovo nastro, messo in repeat sul walkman.
Quando nell'introduzione scoprii che Ian Curtis si era suicidato a 23 anni (il 18 maggio del 1980, ndr) rimasi completamente stordito. So che oggi può sembrare ridicolo il fatto che non ne sapessi nulla, ma ero venuto a conoscenza dell'esistenza della band solo 10 giorni prima e a quel tempo nel mio gruppo di amici avevamo iniziato da poco ad ascoltare rock ed affini: eravamo fissati su Nirvana, Sonic Youth, Melvins, Pantera, Nofx Chemical Brothers, Korn, Aphex Twin e poco altro. Nessuno di noi conosceva ancora i Joy Division.
La prima cosa alla quale pensai fu la frase iniziale di Decades, che fa il suo ingresso rassegnato dopo l'intro glaciale suonata con l'Arp Omni 2: "Here are the young men, the weight on their shoulders". Quella frase mi troncó in due; riesce a farlo ancora oggi ad ogni ascolto, a distanza di anni. Le parole di Decades erano una resa incondizionata.
Per me rimane il suo testo definitivo; la rappresentazione in pochi versi dell'essenza stessa della band. Quando lessi della sua fine tremenda collegai i puntini e fu come ricevere una badilata nel viso. Oggi, a 40 anni dalla morte, la vita di Ian Curtis e le gesta dei Joy Division sono state ampiamente storicizzate, soprattutto dopo l'uscita di Control e di un altro paio di ottime biografie. Le frequenze del segnale della stella Pulsar B1919+21 di Unknown Pleasures e la tomba della famiglia Appiani di Closer sono finalmente entrate nell'immaginario collettivo.
A più di 20 anni dal mio primo "incontro" con Ian Curtis quando penso a lui mi rendo conto che il lato che mi colpisce più profondamente è quello legato al suo percorso. Dalla fascinazione adolescenziale per tutto il mondo artistico permeato dal romanticismo e dallo spleen fino alla caduta in picchiata nell'età adulta, entrata nella sua vita a gamba tesa attraverso il lavoro, la paternità, il matrimonio, il fallimento di una relazione, l'epilessia, le durissime cure farmacologiche e la depressione. E poi la musica.
La spinta iniziale pregna di sfogo, divertimento e passione che molla il colpo davanti al peso del montare delle correnti: un frontman che dava tutto e più del suo limite sul palcoscenico, una strada impervia verso un'espressione fisica ed empatica esasperata ed unica, legata a doppio filo alla paura delle crisi epilettiche che a volte subiva per colpa delle luci e dello stress. Il palco che diventa croce e delizia, onere ed onore. Non ci ho mai visto la minima catarsi in quel modo di muoversi sul palco; quella danza dell’alienazione mi ha sempre comunicato inadeguatezza, un modo disperato di stare a galla e un rendere trasparente l'anima davvero raro nel mondo della musica e dello spettacolo.
Dietro alle ragioni del suicidio di una persona, in maniera particolare quando questa è famosa, si tende a fare spesso molte ipotesi e congetture. Sovente si muta la verità dei fatti per dare una forma che rappresenta la proiezione del modo in cui vogliamo vedere un idolo. Nel bene e nel male. Le storie tormentate nel mondo della musica e della letteratura sono innumerevoli, ma raramente hanno avuto un peso tattile e vicino alla realtà della persona comune come quella di Ian Curtis.
In vita non era un cantante famoso che fuggiva dai flash dei paparazzi mentre si spostava da un 5 stelle ad un palazzetto. Era il cantante di una band con alle spalle un ep, un lp, pochi tour e 3 anni scarsi di storia. Un gruppo che continuava a fare concerti muovendosi con un furgoncino, mentre aspettava l'uscita del secondo album e il primo tour negli Stati Uniti in locali da 500 persone.
Nessuna grossa produzione, tir a seguito e dischi di platino, nessun ingresso nella Top 10, ma la realtà di un ragazzo della working class della provincia inglese che fino a un anno prima si barcamenava per sbarcare il lunario, chiedendo i permessi al lavoro per poter fare i concerti.
Fino a quel 18 maggio 1980: la rastrelliera della cucina della casa di Macclesfield, La ballata di Stroszek e The Idiot di Iggy Pop che gira ancora sul piatto: mito e realtà che si fondono insieme, per sempre. "The sorrows we suffered and never were free".
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L'articolo Trafitti da Ian Curtis: a 40 anni da una morte senza catarsi di Karim Qqru è apparso su Rockit.it il 2020-05-17 23:39:00
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