La scena Americana – definizione in uso dagli anni 10 circa per un filone di artisti, principalmente a stelle e strisce, che suonano un country alternativo legato al folk e al roots rock – sembra trovare ancora terreno fertile in Italia. Al di là del facile gioco di parole nazional-geografico, ma voi fatecelo passare, non c'è davvero altro modo per osservare alcune delle uscite musicali che ci troviamo, in questo mese ormai agli sgoccioli, ad ascoltare. Nonostante infatti l'accolita di quelli che si ostinano a produrre dischi blues tipo quello di B.B. King ed Eric Clapton nel 2000, ossia un disco di due vecchi nato già vecchio, pensato per un pubblico di vecchi a cui piace quel blues datato dei vecchi, ci sono artisti che vengono fuori, di tanto in tanto, da quella scena che sì, è sempre stata una fucina di validi autori e valide intuizioni a livello internazionale, ma solo sporadicamente è in grado di trovare una sua forma realmente interessante anche qua da noi.
In questo aprile che sembra inverno possiamo segnalare due uscite più che convincenti, attese da chi aveva avuto orecchie per intendere e che infatti non hanno deluso. Little Albert e Andrea Van Cleef, autori rispettivamente dei dischi The Road Not Taken (Virgin, 2024) e Horse Latitudes (Rivertales, 2024) con i The Black Jack Cospiracy, hanno anche altro in comune: l'amore per gli anni Novanta e gli artisti che ne sono stati diversamente protagonisti, Bill Steer e Nicke Andersson il primo, Hugo Race e Mark Lanegan il secondo. E poi il rapporto importante, anche se non per forza positivo, con la loro terra d'origine e quella immaginata, il coraggio di mettere a nudo questa loro dicotomia artistica ed esistenziale. E naturalmente un immaginario dark considerevole, visibile già dalle rispettive grafiche, parte integrate del loro punto di vista musicale.
Quando un giorno chiesero a Vic Chesnutt perché il rock americano fosse caduto in depressione, rispose sereno che “questa musica è sempre stata così”. Da Daniel Higgs, noto banjoista già alla coorte di Sir. Ian MacKaye, fino a Neil Young, l'America ama spegnere le luci per sentire meglio il proprio battere i denti di terrore profondo. Alla rinfusa: Woodie Guthrie, Townes Van Zandt, Johnny Cash, Dannis Wilson, John Fogerty, Mike Bloomfield e tutti gli altri hanno aperto la strada per le nostre pallide figure di prua. In un immaginario supermercato del rock, proprio come questi a loro tempo, pure Alberto e Andrea, sarebbero i commessi e non avrebbero nulla da spartire con i direttori dei piani alti e nemmeno con gli impiegati vestiti a festa.
Fosse stato trent'anni fa, la loro proposta musicale, sviluppata in due pubblicazioni il primo e molte di più il secondo, che da una decina d'anni si destreggia tra vari nomignoli e accompagnatori, alla Micah P. Hinson per intenderci, l'avremmo chiamata rock di serie B o blue-collar (chissà se su Spotify ha trovato dignità questa vecchia etichetta, ora che esistono anche lo zombie pop e il gym phonk) ma queste due realtà di cui si parla, vuoi perché sono oggettivamente stimolanti, vuoi per il percorso similare che li ha portati da due band piuttosto estreme (i Messa il primo e gli Humulus il secondo) a band rock blues abbastanza tradizionale, a dispetto del diverso background (laureato in chitarra jazz al conservatorio di Vicenza, Alberto, autodidatta punk nei garage di Brescia, Andrea), vuoi perché il vuoto gonfio di non-cose che ci circonda sembra aver fomentato un suono più crudo, viscerale, umano, vuoi per semplice fortuna, mi sembra stiano riscontrando un buon interesse sia di critica e di pubblico, quanto basta almeno per augurarci un cospicuo numero di date nella prossima stagione estiva.
Tanto più che la loro appartenenza alla low-middle-class è sfumata e sfaccettata, o qualcuno direbbe simbolica, e consente di non attribuirgli quella connotazione sociale “proletaria e operaia” con cui tra dalla fine degli anni '70 e l'inizio degli anni '80 in poi è stata indicata la musica alla Springsteen di cui, ringraziando dio, qui non ce n'è l'ombra. Bravi, li preferiamo così. Anche se non è musica originale su tutti i fronti, che di John Garcia, Dave Eugene Edwards, Terry Lee Hale, Derek Trucks, Jonny Lang e mille altri ne abbiamo avuti, e qualcuna delle loro canzoni li ricorda o ne sembra a suo modo “discendente” ma è più che altro un'impressione data dall'estetica del suono, perché l'unica cosa che li accomuna ai nomi e i relativi gruppi chiacchiarati e la loro dispersione sul territorio americano ma la loro in fono è una non-appartenenza a nessuna scena, per buon senso e onestà personale e geografica, la loro è piuttosto una manifesta individualità, e una certa autarchia, agiscono insomma come bellissimi fiori selvatici cresciuti in un giardino sbagliato.
Quello di Little Albert è letteralmente un ritorno a casa, dopo il viaggio in America durante il tour fatto coi Messa, quello di Andrea Van Cleef un'avventura, agli Smiling Castle Studio di Kyle, in Texas; ne vengono fuori due dischi rigorosi, divisi tra blues, southern-gothic, roots-rock e Americana, con il tipico cipiglio di chi sa sia vivere il proprio tempo che ne sa costruire nella propria testa una serie propria di rimandi e collegamenti musicali dove tutto confluisce nel proprio intrigante stile. Ora, in America persone così (per non aprire la parentesi dei gruppi) sono disseminate per tutto il territorio federale, come lo sono i motel, i drugstore, le pompe di benzina e tutte le altre immagini di quella iconografia della strada americana.
Alla stregua dei loro colleghi al cinema questi clerks musicali appartengono alla scenografia in bianco e nero dell'America di provincia, della terra bruciata nelle cittadine sempre uguali senza tempo ne ritmo, della geometria lineare delle casette a schiera con il giardino e barbecue, della calma piatta di una società che può essere scossa solo dal volume alto della musica dei propri figli. In America, questo. Qui due persone come Little Albert e Andrea Van Cleef sono una manna dal cielo. Perché qui siamo nell'apocalisse metropolitana della trap anche se vivi a Montebelluna, e con i Pinguini Tattici Nucleari come alternativa. Qui siamo alla mediocrità più disarmante, dove si toglie ogni velleità da testi e musica e si muore ancora tutti democristiani - non prima di essere passati da Sanremo.
Quindi se imbattendovi in questi due nomi non troverete nulla di poi così sconvolgente, perché il loro mondo non prevede né la demolizione né l'idolatria dell'arte precedente, come va di moda adesso, il problema probabilmente è solo vostro. Sinuosi e potenti, per loro fare musica ammiccando alle icone delle tradizioni rurali, impastandole di note biografiche con le quali qualcuno si potrò identificare e accenni di musica alta, non è ancora un concetto da museo delle cere ma aiuti per poter vivere con meno freddo e minore solitudine. E di questi tempi ci vuole anche questo.
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L'articolo Tu Vuò Fà L'Americana di giorgiomoltisanti è apparso su Rockit.it il 2024-04-22 11:23:00
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