Tutti fenomeni: "Il rap era l'unico genere accessibile, ora faccio la mia roba"

"Merce funebre" segna il passaggio del ragazzo romano a un'altra dimensione. Un gran bel disco, che spicca il volo grazie alle produzioni di Niccolò Contessa e al suo talento nel creare immaginari assurdi

La campagna di affissioni per l'uscita di "Merce funebre" a Roma
La campagna di affissioni per l'uscita di "Merce funebre" a Roma

Il giorno in cui è fissato il nostro ascolto di Merce funebre, il nuovo e primo disco di Tutti fenomeni, è un martedì di neve e bestemmie a Milano. La scelta di non rinunciare nemmeno in un contesto così avverso al motorino per dirigersi verso la sede di Sony rende ancora più molesta la prima, e più impetuose le seconde.

Sono i giorni prima delle vacanze di Natale – un mese fa circa e un mese prima dell’uscita dell’album, avvenuto la scorsa mezzanotte –, giorni per noi shakerati dalle classifiche di fine anno e fine decennio. Un vortice di nomi recenti e meno continuano a vorticare nella nostra testa come i fiocchi in una palla di Natale strapazzata. Saliamo sgocciolanti e semi-ibernati fino al quarto piano del palazzo dell’etichetta discografica.

Al suo primo vero lavoro Giorgio Quarzo Guarascio, classe '96, romano, è già arrivato a farsi distribuire da una major. E a farsi produrre da Niccolò Contessa, l’uomo che ha rivoltato come un calzino la musica italiana nell’ultimo decennio, per 42 Records. È stato mister Cani a contattare il ragazzo, a dirgli che gli piaceva tanto la sua roba, a proporgli di fare qualcosa assieme. Giorgio – ma forse lo dice per rafforzare la sua estetica da allucinato piovuto sul divanetto da una macchina del tempo – nemmeno sapeva facesse il produttore.

Fatto sta che dopo essere stato eletto fenomeno del SoundCloud italiano e re della musica da cameretta, nominato alfiere del lol rap di casa nostra, dopo aver stupito tutti per l’ecletticità delle sue performance con i Tauro Boys e Tea Falco e per la sua capacità di mostrarsi a suo agio negli ambienti più apparentemente distanti dal suo universo, questo moderno dada ha offerto per la prima volta il vero se stesso in questo disco.

Ci apprestiamo ad ascoltarlo dopo che Giorgio – con la faccia di quello che dopo la laurea in ingegneria e un corso di vasellame ha fatto il test di ingresso per filosofia – ci stringe la mano con cortesia e un filo di disagio. Guardarlo muoversi nello spazio e sentirlo parlare rende più accessibile il suo percorso musicale fin qui. E permette, a posteriori, di afferrare la coerenza delle 11 tracce che stiamo per andare a sentire.

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Partiamo dal titolo. “All’inizio doveva essere ‘Marcia funebre’, poi, quasi per scherzo, è uscita la parola ‘Merce’, e il concetto di ‘Merce funebre’ ha iniziato a prendere forma e assumere significati sempre nuovi, fino a diventare il titolo”, spiega. A rafforzare il concetto l’agnello che campeggia sulla copertina. “Anche lui non ha un significato univoco. Una volta stavo cercando degli stemmi araldici e ho trovato il simbolo di una presunta famiglia Agnelli; poi, ascoltando un disco di canti gregoriani, mi sono imbattuto in una copertina raffigurante un agnello con gli arti rotti, e mi sono intrippato. Inoltre tante opere memorabili della storia della musica hanno animali in cover, da De Gregori a Pet Sounds”.

Le interpretazioni, come sempre, stanno a ciascuno di noi. “Chi vuole può farne un discorso sul capitalismo, chi un messaggio vegano”. E poi c’è la sua passione per la Marcia Funebre di Chopin, che, al pianoforte e in versioni assolutamente sconsacrate, Giorgio ha inserito due volte nel disco, nell’intro e nel brano di chiusura, Trauermarsch

Partono i primi pezzi e subito ci troviamo a parlare di come suona il lavoro. La vecchia trap, che trap mai è davvero stata, è stata messa in archivio, su questo non c'è dubbio. “Io suonicchio da sempre e con l’avvento del rap da camera, in cui trovi le basi su Internet, quello era il genere maggiormente a portata di mano. Tutto qua. All’inizio pensavo di essere ormai relegato alla trap, che per altro non era il mio mondo. Poi ho conosciuto Niccolò”. Più si conoscevano, più Tutti fenomeni capiva di poter fare cose diverse. “Lui è un artista incredibilmente versatile: non mi ha mai detto di no, qualsiasi cosa avessi in mente era in grado di evolverla in una canzone. Di solito io partivo da riferimenti di musica classica, che avevo la volontà di tradurre in qualcos’altro: Contessa trovava sempre il modo di rendere queste idee concrete, e mie”. 

Dopo Valori aggiunti, singolo già diffuso da qualche settimana, arriva Metabolismo. “Il giorno dopo la luna piena, la luna si mette a dieta”, si sente Giorgio cantare, il primo dei tanti slanci di ermetismo che costellano il disco, in cui Cosmo e (tanto) Battiato incontrano Guido Catalano e Montale. Un frullatore retrò e al contempo contemporaneo. E magnetico, in cui i meriti vanno equamente divisi tra la capacità di scrittura e di creare universi paralleli del ragazzo e l’esplorazione sonora di Contessa. Il brano, come altri, si chiude con un messaggio in tedesco inventato, una citazione ai grandi della musica classica, altra reference che non smette di tornare. Le citazioni si affastellano, cambiando spesso la loro funzione d’uso. “Perché metabolismo vuol dire anche metaforismo e metalinguaggio”, dice Giorgio, e noi fingiamo di capire. 

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Tocca a Mogol e cala nella stanza un mood del tutto diverso, un’elettronica quasi ambient. “Ti dedico tutti i miei gol, l’Infinito non l’ha scritto Mogol”, canta. E aggiunge “dal punto di vista culturale, almeno, l’Italia è già fallita”. Un pezzo ossessivo, che mischia synt pop e suonate, citazioni dei Depeche Mode e della Dark Polo Gang. “In questo caso era una produzione già fatta da Niccolò, io mi sono prestato a un progetto non pensato per me”, racconta. “In questo pezzo ho voluto mettere in discussione la generazione dei nostri padri, e mio padre stesso. L’Infinito, la poesia più emblematica della storia di questo Paese, non appartiene a lui e alla sua età.  Non che voglia veramente aizzare il conflitto generazionale, in realtà, anzi io vivo di riferimenti del passato”. 

Diabolik è un singolo chiamato, già doveva uscire nelle scorse settimane. “All'ultimo ho scelto Qualcuno che si esplode, perché é un pezzo che fa da ponte tra le cose vecchie e questo nuovo corso, quindi mi sembrava adatto ad anticipare l’album”. Nel brano, che funziona molto bene, ci sono riverberoni nella voce e trombette indiane. La genesi è ancora una volta curiosa. “Nasce dal commento che una volta ho trovato su YouTube sotto una canzone famosa, di quelle orrende. Recitava ‘questa canzone mi fa provare cosi tante cose allo stesso tempo’”, spiega.

Come arrivi da questa suggestione a un piccione e alla matrona romana Cornelia, madre dei Gracchi, non è del tutto chiaro. Né lineare. “Parto sempre da frasi, metto assieme cose che nella mia testa hanno un senso. Non cercate troppo significati dietro. Di certo amo Diabolik, ho quasi tutti gli albi e ho un suo poster a grandezza naturale sulla porta della camera. Ci tengo a precisare: non mi piacciono i fumetti, mi piace Diabolik”. 

Da qui, assecondando un balzo ardito dell’autore, passiamo a Hikmet, dedicata al poeta Nazim Hikmet. “Una volta ho letto una sua poesia molto arzigogolata sull’inaccessibilità, l’impossibilità di afferrare quando si ama. In ogni capoverso ho inserito una frase tratta da un’opera famosa, da Mozart a Bizet e Verdi”. La canzone è in tre quarti, e si sente in sottofondo il metronomo “perché mi piaceva”. “Qua c’è una collaborazione con Francesco Consaga, amico e sassofonista jazz che ha suonato nei dischi Rossana Casale. Tutto parte da un esercizio al pianoforte, di quelli che si fanno a sei anni per imparare”.

Il livello di battiatismo del pezzo supera la soglia critica. Risulta molto molto alto, in generale, in tutto il disco. “Io Battiato l’ho assunto in capsule la mattina. Cerco di trovare la mia strada, ma se mi dici che lo ricordo di certo mi fai complimento”, spiega, sorridendo in quel suo modo strano.

Anche Filosofia, la traccia più irriverente e macchiettistica, prende piede da una frase: “L’unica filosofia che studi sono i milioni in banca di Jovanotti”. “Ero a pranzo con mio padre, e, cosa che non avviene quasi mai, una volta gli ho fatto sentire la mia musica. Lui si è fomentato e mi ha detto 'devi fare pop filosofico'. A quel punto mio fratello fa ‘pure Jovanotti fa pop filosofico, se contare i soldi in banca è una filosofia’”. 

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Suo fratello, economista che lui considera geniale, gli ha ispirato un’altra canzone, Per quanto ti amo. Una volta, quando gli dissi che non ero andato a manifestare in piazza contro gli attentati di Parigi perché ero fobico, lui mi ha risposto “io alla tua età li volevo fare gli attentati, altro che paura”. Da lì la frase "ho più paura di una troia che del terrorismo”.

Il richiamo al terrorismo ritorna nel recentissimo singolo Qualcuno che si esplode, che ascoltiamo verso la fine del disco, mentre la neve fuori dalla Sony si fa acqua e le bestemmie generiche imprecazioni. Stride, volutamente, la distanza tra un pezzo quasi disco e un testo che parla di rabbia, fino a farsi ipnotico nella ripetizione del mantra “Karl Marx Strasse”. Proust, invece, è un brano primi 2000 – Soulwax o giù di lì – si concede la più grande punchline del disco, quella contro il popolo di Francia. “Dico ‘libri di Proust’ accanto al bidè, quindi è evidente che non li stia leggendo un francese”, spiega, e gli pare tutto normale ed evidente.

E in fondo lo appare anche a noi, dopo aver sentito e introiettato questa Merce funebre. Salutiamo, usciamo dal palazzo, affrontiamo la circonvallazione con la rassegnazione di chi si accingeva a partire per la ritirata lungo il Don. E torniamo a pensare a quelle classifiche da cui ci siamo liberati per un’oretta grazie a Tutti fenomeni. Per fortuna il disco, e quindi quest'articolo, esce a gennaio: un posto tra quelli belli belli avremmo dovuto trovarglielo. 

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L'articolo Tutti fenomeni: "Il rap era l'unico genere accessibile, ora faccio la mia roba" di Dario Falcini è apparso su Rockit.it il 2020-01-17 13:43:00

Tag: album

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