Forse nella vita non sono destinato all'entusiasmo. Perché in un mondo normale – disalennato da decenni di "pelonelluovismo" e "bastiancontrarismo" militante – dopo aver visto ieri sera Heroes, dovrei essere qui a cercare le parole adatte per dire quanto è stato figo. Una sensazione inedita o quasi per me, che una malaugurata lettura domenicale mi impedisce di provare. Ci arriviamo. Il super evento solidale con i lavoratori della musica è andato in scena domenica 6 settembre all'Arena di Verona – che negli ultimi giorni ha ospitato più eventi di beneficienza del salotto di Warren Buffett –, più o meno dalle 19 a mezzanotte e mezza.
Le info minime. Il progetto è stato ideato da Music Innovation Hub, organizzato e prodotto da Friends&Partners, Live Nation e Vivo Concerti, in collaborazione con laFeltrinelli, Arena di Verona Srl e Gianmarco Mazzi, R&P Legal, e con i contributi di Vertigo e Magellano. Altri organizzatori di concerti non sono stati coinvolti e non l'hanno presa bene. C'era invece il benestare e il contributo dei principali attori, tradizionali e meno, della filiera musicale odierna, da Spotify a YouTube, dal ministero dei Beni Culturali alla Fimi e la Siae e Soudreef.
Al concerto si poteva assistere in due modi: o sui gradoni dell'Arena, dove sedevano pochissime persone e ben distanziate, oppure in streaming, via web su FUTURISSIMA e tramite app mobile su A-LIVE. E arriviamo al primo motivo di "euforia": la tecnologia ha funzionato. Heroes è stato un esperimento del tutto nuovo per il nostro Paese per dimensioni e durata, tali da richiedere uno sforzo organizzativo imparagonabile alle decine di live o altri eventi che sono stati mandati in Rete in questi mesi di distanziamenti.
Due anni fa un player internazionale come Dazn sbarcava in Italia per trasmettere parte del nostro campionato di Serie A e schiantava nelle prime settimane contro problemi infrastrutturali enormi, che rendevano le dirette di debutto una specie di barzelletta. Chiaro, il contesto è diverso e sono pure cambiati i tempi, ma di esempi simili se ne potrebbero fare tanti in Italia, in ogni ambito. Heroes, invece, da un punto di vista della trasmissione e della ricezione è andato alla grande. Con una sola vittima – e che ha perciò tutto il diritto di incazzarsi per questo paragrafo –: Franco 126, che su 40 artisti e 5 ore e mezza di diretta è stato l'unico a saltare per problemi tecnici.
Passiamo al secondo motivo per cui Heroes è stata una gran bella cosa, chiedendo scusa per quel filo (rosso) di retorica. Tutto il ricavato dell'evento – i biglietti per assistere al live da casa costavano una decina di euro – sarà devoluto al Fondo “COVID-19 Sosteniamo la musica” (sostenuto da Spotify e promosso da FIMI, in partnership con AFI, Assomusica, NUOVOIMAIE e PMI) di Music Innovation Hub (leggi qua di cosa si tratta).
Per tutta la sera gli artisti che si sono esibiti hanno ricordato la "causa" dell'evento e portato la loro gratitudine ai lavoratori del settore musicale. LAVORATORI, la parola si è succeduta più volte. Ed era già stata pronunciata diverse volte nei giorni prima, durante i Seat Music Awards o la Partita del Cuore (sic), palcoscenici nazionalpopolari e quindi doppiamente importanti. In un Paese in cui questo concetto è stato abolito o quasi – soprattutto nei settori culturali, dove il precariato è istituzionalizzato e la battaglia contro l'"hobbyzzazione" della propria professione si combatte giorno per giorno – è stato qualcosa di grosso, e tutt'altro che scontato.
Stia sul cazzo questo o quell'artista, questo o quell'organizzatore e pure il concetto stesso di beneficienza – su cui aprire una discussione non sarebbe male –, ma quello arrivato al suo culmine con Heroes è stato un percorso "politico" importante, portato avanti attraverso il lavoro del collettivo La musica che gira, con le testimonianze di artisti che ci hanno "messo la faccia", con le riflessioni sui social o sulle testate di settore. Forse per una volta si è davvero riusciti a raccontare – e quindi creare – un clima diverso, di attenzione e riconoscimento, verso realtà che in pochi normalmente sono abituati a considerare qualcosa di prossimo a sè. In Italia e in un momento storico così feroce penso sia stata una grande cosa.
Il palco di Heroes era molto bello (a differenza del nome dell'evento), com'era giusto che fosse, per celebrare e fare capire importanza e professionalità di chi per tutto l'anno – al netto dei lockdown – fa vivere la musica con la propria opera. Il main stage dell'Arena era splendido, e spesso veniva premiato da una regia attenta. Le inquadrature larghe rendevano molto bene il gioco di pieni e vuoti sugli spalti, che sta diventando uno degli elementi simbolici di queste settimane da libri di storia.
E veniamo alla prima cosa che a Heroes proprio mancava; non per colpe, ma per natura di una simile iniziativa. Ogni volta che la telecamera coglieva il primo piano di uno spettatore – quasi sempre molto giovane – che cantava a squarciagola, di una coppia che si baciava o di un piccolo gruppetto di fan, era come una boccata di ossigeno. Vedere dei volti animarsi in qualche attività e porsi a propria volta delle domande fugaci su quella persona – quanti anni avesse? per quale cantante si fosse preso la briga di andare fino a Verona – è stata un'esperienza stupefacentemente piacevole.
Non c'era nulla, chiaramente, della magia dell'evento fisico, che quelle sensazioni di compresenza e condivisione le fa esplodere in faccia e restituire sotto forma di coro all'unisono e dita al cielo, ma era, per lo meno, un simulacro di tutto ciò. Un'emulazione per tempi infami, e di cui nessuno ha intenzione di accontentarsi, ma comunque qualcosa. E che ci rende ancora più l'idea di quello che ci stiamo perdendo, e del fatto che dobbiamo recuperarlo a ogni costo (salute esclusa).
Anche perché l'alternativa, quella sì improponibile, per ora sono le faccine sorridenti che apparivano ieri sul grande wall dell'Arena e sullo schermo tv, quelle degli streamatori che si scattavano un selfie a beneficio delle camere. Una modalità che stanno perlustrando tutti di questi tempi, in maniera più o meno creativa – in Nba chi guarda le partite da casa finisce sui seggiolini del parquet di Disneyland, dando vita a inevitabili foto con facce da mostri o chiappe di fuori –, con l'obiettivo di creare engagement e dare un po' di vita, almeno virtuale, agli eventi. Senza riuscirci in alcun modo.
Un altro aspetto interessante di Heroes era la sua "bicameralità": accanto al Main Stage c'era un secondo palco, dove assistere alle esibizioni dei nuovi talenti. Più o meno la stessa cosa che avviene nei festival più importanti, scelta figlia dell'era dello zapping che è diventato scrolling e dell'on demand sempre più spinto. Scelta che fornisce l'ennesima conferma che a contare alla fine sono sempre i contenuti. Perché a penalizzare il second stage sono un roster non all'altezza (e non parliamo di popolarità, quella è ovvio che vada a discapito delle nuove leve) e il set: vedere un'artista forte come Ariete – molto più interessante di parecchi tra i "big" –, abbandonata su un palco grande e spoglio, sottoposta a un'inquadratura sbagliata, non è stato il massimo. Aumentare l'offerta di questi tempi è un diktat, ma se non è di qualità meglio rinunciare.
Sorvolando sulla "stanza immersiva" e la possibilità di vedere da altre inquadrature il main stage – triste come una foto 360 su Facebook –, più interessanti sono stati i contenuti extra, come le interviste di Sofia Viscardi della crew di Venti. Che qualcuno possa "skippare" il live di un cantante e andarsi a godere un ulteriore momento con il suo artista preferito, è una bella opportunità (a basso costo). Diverso il discorso sui contributi video degli attori che raccontavano i 17 Obiettivi di sviluppo sostenibile dell’Agenda 2030 dell’ONU: ottima l'iniziativa, molto meno convincente la realizzazione.
Chiudiamo – provando a fare un notevole esercizio di sintesi – sul palinsesto/scaletta. C'è chi ha rievocato il ritorno del Festivalbar e chi ha sottolineato la "contemporaneità" delle scelte artistiche, i cui live sembravano per molti aspetti una playlist di Spotify: canzoni una via l'altra, tormentoni mixati a featuring e qualche cover. La scelta dei 40 artisti, un mix di itpop e dintorni e rap e dintorni – quest'ultimo preponderante, e a tratti esasperante con tre esibizioni di genere una di seguito all'altra –, contribuiva a rendere la sensazione di stare sotto l'egida di un algoritmo, che ti offre ogni tanto qualcosa di nuovo per abbagliarti con lo stupore effimero della scoperta prima di coccolarti di certezze.
In questo flusso le individualità si sono viste, e in alcuni casi è stato un vero piacere, visto che parliamo di artisti che non si esibivano live da tempo immemore (causa pandemie varie). Da Brunori a Willie Peyote, dalla versione "iggypoppiana" di Manuel Agnelli al solito incredibile Mahmood, e poi i Subsonica e la loro verve live su Up Patriots to Arms e la voce strepitosa di Diodato, Ginevra e Margherita Vicario, Priestess, Gemitaiz e MadMan. Senza dimenticare il duetto di Marra con Elisa e della Michielin con il redivivo Fedez. Illuminato più di chiunque altro è stato Salmo, che ha chiuso l'evento con due pezzi (e mezzo). Avanti come sempre anni luce, è salito sul palco da solo, senza nemmeno il fido dj Slait, e si è fatto partire da sè le basi di 90 minuti e Ho paura di uscire. Più minimale di così non si può, eppure più che bastevole per spaccare tutto, grazie alla potenza dei pezzi e a un physique du role unico.
La scelta di Salmo non è stata casuale, né tanto meno al risparmio. Ha interpretato un mood – e al contempo un'esigenza, quella di non aver "troppa gente in giro" – e l'ha portato all'estremo. Anche e soprattutto per via del roster, molte delle perfomance sono state ben poco "suonate", con la presenza sul palco solo di vocalist e beatmaker, finendo in alcuni casi per risultare abbastanza simili tra loro. Nei suoi cinque minuti sul palco, Salmo ha dimostrato che non servono artifici o grandi allestimenti per fare la differenza (ma se non sei lui, o pochi altri, trovare il modo di differenziare la tua esibizione aiuta non poco a non sparire nella massa).
Una cosa, di certo, Heroes ce l'ha insegnata: del conduttore, almeno tradizionalmente inteso, se ne può fare a meno. I live sul main stage non erano introdotti da nessuno e la cosa filava benissimo da sè: l'artista suonava uno, due o al massimo tre pezzi, lanciava un messaggio più o meno laconico a favore dei lavoratori della musica e lasciava il posto a quello successivo. Certo, se deve salire un'orchestra sul palco probabilmente non sarà possibile avere tempi così contingentati, ma in casi del genere la soluzione può risultare molto efficace (vero che c'erano delle pause più lunghe tra un blocco di cinque o sei live e l'altro, ma mi pare davvero il minimo).
Quindi bene, bravi, bis e pure tris. Viva il lavoro e la musica, e chi lavora con la musica e per la musica. Heroes promossi con voto alto. Non fosse che per quella lettura inquietante, che mi fornisce un ottimo pretesto per non correre il rischio di essere davvero soddisfatto. Lo spunto è di Skift, media company americana che si occupa di fornire informazioni e consulenza per il turismo e in altri settori, secondo cui la musica starebbe per vivere il suo "Napster Moment": il passaggio in cui il picco di entrate e profittabilità di un settore, quello dei concerti, è stato raggiunto e la discesa è iniziata, per via delle novità tecnologiche e dell'affermarsi degli eventi in streaming, la stessa dinamica cui le vendite fisiche dei dischi sono andate incontro anni fa con l'arrivo dei servizi di download prima e streaming dopo.
Presagi di sventura? Forse. Ma chi dice che l'innovazione non può essere fermata, che non si spara al vento del cambiamento, forse non sta vedendo il mondo che ci viene consegnato dai "disruptor" con i loro algoritmi. Per lo meno dal punto di vista dell'economia, dove i giganti della Silicon Valley (o equiparabili) hanno ormai completato la loro opera di creazione di monopoli e "sterminio" della concorrenza, il sistema ha ampiamente dimostrato di non essere in grado di riequilibrarsi da solo. Ecco un pensiero al possibile Napster Moment che stiamo vivendo forse è bene farlo, e a quel punto la gioia per una notte senza Amadeus pare molto meno abbagliante.
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L'articolo Heroes, una gran figata da non ripetere di Dario Falcini è apparso su Rockit.it il 2020-09-07 12:23:00
COMMENTI (1)
Cosa si può dire dei cosiddetti concerti benevoli, lodevoli, solidali... non sarà questo il caso, ma in generale ci sta...
Luci,già abbassate,
un collegamento a reti unificate.
Linee, ovviamente aperte
per un virtuale cesto delle offerte.
Industriali esperti passano una busta
sanno che l'offerta è la cosa giusta,
quello che hanno dato sarà centuplicato
da un bilancio falso depenalizzato.
La diretta è in mondovisione,
la serata della buona azione,
mentre aspetti che contribuisco
lanci un film o il tuo nuovo disco.
Portano la sciarpa l'attore e il cantautore
pronti per un derby che spalanchi il cuore:
ecco, lo stadio si gremisce,
ma c'è qualche cosa che non si capisce,
guardo il mio biglietto e leggo benvenuti
salverete il mondo con i vostri aiuti,
ma se veramente è il giorno dell'amore
cosa cazzo centra il diritto d'autore?
La diretta è in mondovisione,
la serata della buona azione,
mentre aspetti che contribuisco
lanci un film o il tuo nuovo disco.
Non puoi negare l'evidenza, sai che le beneficenza
trova sempre più importanza dove c'è disuguaglianza.
Il buon samaritano è pronto a tendere una mano,
sa che far la carità rinforza la celebrità.
Tra un ballo e una canzone presentano un malato
praticamente morto, destino ormai segnato,
un velo di tristezza compare sopra i volti,
ma proprio in quel momento s'impennano gli ascolti.
La diretta è in mondovisione,
la serata della buona azione,
mentre aspetti che contribuisco
lanci un film o il tuo nuovo disco.
Carramba che sorpresa la vecchia si è ripresa
perché la vita è un varietà,
finita la raccolta dividono la torta
la gente li ringrazierà.
(Punkreas, Gran galà, 2002) (^_^)