Chiara Floris la conosciamo meglio come Bluem, musicista che ha debuttato nel 2021 con l'album Notte e di cui fin da subito ci ha colpito la forza magnetica della sua musica, tanto da metterla subito all'interno dei nostri CBCR. Nei suoi brani la componente ancestrale della sua terra d'origine, la Sardegna, è un elemento centrale, come risalta ancora di più nel suo secondo disco, uscito lo scorso maggio, nou. E nonostante Bluem viva a Londra ormai da anni, la profonda connessione con la sua terra è rimasta fortissima.
C'è quasi un'aura magica che sembra scaturire dalla musica proveniente dall'isola, sia che si parli di gruppi tradizionali che per le sperimentazioni di Iosonouncane e degli artisti a lui vicini, come Alek Hidell e Daniela Pes. Abbiamo chiesto a Bluem, quindi, di portarci con lei in un viaggio nei ricordi e nei posti più remoti della Sardegna che per lei rappresentano casa, così da scoprire dove si celi la primordiale magia di quei posti segreti.
Quand’ero sul ciglio dell’adolescenza la mia più grande battaglia era quella di provare a restare in città il fine settimana, quando tutti i miei amici si riunivano e io invece venivo caricata in una macchina per passare il sabato e la domenica in campagna. Abitavo a Sassari, nella parte nord occidentale dell’isola, e dovevo viaggiare verso il cuore di quello che al tempo si chiamava Medio Campidano, nei pressi di Arbus, il paese natale di mio padre. Il viaggio durava circa due ore e mezza, durante le quali, prima con il lettore CD, poi con l’mp3, poi con l’iPod e infine con l’iPhone, ascoltavo la musica che mi piaceva.
A volte, se facevo il grave errore di dimenticare le cuffie, dovevo “subire” le preferenze musicali di mio padre, che ogni mese suonava un CD diverso allo sfinimento. Spesso erano i Beatles, altrettanto spesso era Guccini, altre volte gli Abba, e ricordo che un periodo ascoltava a ripetizione la discografia di Johnny Cash o quella dei Beach Boys. In ogni caso, quelle cinque ore settimanali fra andata e ritorno di dischi scelti e dischi subiti, sono state alla lunga fondamentali nella mia formazione creativa. Ricordo bene anche che quando ero più piccola, mentre ascoltavo e osservavo le campagne dal finestrino, mi convincevo sempre di vedere delle figure magiche, delle entità che solo io, che il fine settimana lo passavo così, potevo incontrare. A volte un sasso gigante si trasformava in un cervo alato, o fra i rami di una quercia una fata mi faceva un cenno. La mia immaginazione, a suon di musica, viaggiava fino a destinazione, convincendomi ogni settimana di più che i miei luoghi di origine fossero posti mistici e sacri.
Prima tappa
La prima tappa era sempre casa di mia nonna, Caterina. Una persona che hanno incontrato tutti coloro che hanno ascoltato almeno una volta il mio primo album, NOTTE, nella traccia VENERDÌ. Traccia che lei avrebbe chiamato “vernerdì”, perché certe parole in italiano proprio non le pronunciava bene. Il sardo era la sua lingua. Di solito la trovavamo intenta a cucinare una delle poche ricette che faceva, che d’inverno era quasi sempre un brodo di carne e zafferano. Oppure, quand’ero più fortunata, e spesso più verso la stagione estiva, la trovavo che imbastiva un lungo tavolo nel cortile per fare i ravioli insieme. Tirava la pasta con la sua macchina, poi la stendeva, e mi lasciava fare le palline con il ripieno per riporle sul primo strato. Quando chiudeva con il secondo, mi dava la rotella, vecchissima, per disegnare i quadrati, il mio momento preferito.
Anche i suoi ravioli avevano lo zafferano nel ripieno, zafferano e scorza d’arancia, perché quella zona è l’unica parte dell’isola in cui viene prodotto. In televisione c’era quasi sempre un canale locale, dove spesso si ascoltava musica tradizionale e gruppi folk si esibivano nel ballo sardo. Poi c’era il fuoco, un elemento costante in ogni stagione, dove si trovava sempre un pezzo di carne che cuoceva allo spiedo. Mia nonna non beveva mai acqua, solo vino nero e gassosa. Per me e mia sorella invece, conservava sempre dei succhi di frutta in vetro in frigorifero.
Seconda tappa
La campagna, non distante da Arbus, e al contempo immersa nel nulla più assoluto. I miei genitori per tanti anni ci hanno tenuto un agriturismo. Un posto molto diverso dal classico alloggio estivo in Sardegna, in cui venivano e andavano persone che cercavano la tranquillità, il silenzio, il contatto con la natura. Le sue strade le ho percorse mille volte nel corso della mia infanzia e adolescenza, correndo, pedalando in bici, dietro il sedile della moto di mio padre, o camminando con grossi canestri di plastica per andare a prendere l’acqua a Sa Mizza De Veronica. L’acqua più buona del mondo.
La mia immaginazione, che si sbizzarriva nel tragitto guardando fuori dal finestrino, faceva altrettanto nelle ore buche di quelle giornate, e tutt’ora quelli sono i luoghi che ispirano di più gli ambienti dei miei brani. In NOTTE sono stati protagonisti della parte visiva, in nou dell’ambientazione dei testi ("come sei finito qui, passando per i rovi a piedi nudi senza fare rumore"). Lì mi hanno sempre fatto compagnia le mie amiche capre, ogni volta che torno infatti spero di incontrarle al mio arrivo, che pascolano nel campo di fronte al cancello della campagna. Con loro pure le mie nemiche cavallette, che sono l’unico insetto che mio padre, entomologo, non è mai riuscito a farmi amare. Me ne resi conto quando da piccolina una enorme saltò sulla mia gonna fucsia, lasciandomi pietrificata. Da quel giorno non le sopporto, e non sopporto il colore fucsia.
Un altro animale di quelle campagne arburesi, il più magico, è sicuramente il cervo. A volte da bambina, mi capitava di essere svegliata da dei movimenti nell’erba durante la notte, e se mi affacciavo con abbastanza cautela sulla zanzariera, vedevo uno o più cervi curiosare nel terreno indisturbati. Altre volte si andava a cercarli attivamente, in macchina o a piedi, con una torcia. Non c’era nessuna vera ragione, se non quella di vederli per un attimo. Ad un cervo in particolare, in nou, ho dedicato il brano dear.
Terza tappa
Poco più avanti rispetto alla nostra campagna risiede un signore chiamato Antonio Luigi. Anche lui è già un volto un po' noto, appare in varie foto del mio progetto, ama posare ed è molto vanitoso. È il cugino di mio nonno paterno, che non ho mai conosciuto. Il nostro rapporto è cresciuto e si è consolidato da quando mia nonna ci ha lasciato. Ogni volta che torno in Sardegna cerco di vederlo, quando posso lo faccio conoscere a chi viene a trovarmi. A volte ci sentiamo a distanza: di recente mi ha mandato un video di uno dei suoi cagnolini più anziani che se n’era andato nel sonno, il suo corpo era rimasto steso al sole. Io mi sono arrabbiata, gli ho detto che non volevo vedere quel tipo di cosa, di non mandarmela più. Lui mi ha risposto che non dovevo avere paura della morte.
I suoi animali domestici preferiti, però, sono i buoi. Non hanno alcuna utilità nella sua campagna, se non quella di fargli compagnia e di essere addobbati una volta all’anno per la festa di paese. Spesso mi dà le verdure del suo orto, anche le uova delle sue galline, che parteciparono insieme a lui alle foto di GIOVEDÌ. Una volta, mentre cercavamo elementi da utilizzare nelle fotografie, mi ha dato in mano il fucile di mio nonno e mi ha mostrato come impugnarlo. Credo che sia stata l’unica volta che sono entrata in contatto con un oggetto che apparteneva a lui. Un’altra volta mi ha prestato il suo gilet di velluto per un concerto che feci a Fluminimaggiore, è stata anche la prima volta che è venuto a sentirmi suonare, e si era vestito uguale a me.
Quarta tappa
Una tappa più rara, ma sempre nei dintorni, è quella del terreno di uno dei fratelli di mia madre, il più outsider della famiglia. Vive in una località chiamata Rio Martini, ci si è trasferito a diciotto anni, adesso ne ha sessantasette. Per undici anni ha vissuto senza gas o elettricità, si lavava nel ruscello anche d’inverno, e il suo intento era quello di non incontrare mai più un altro essere umano. Rifiutava l’idea del denaro, coltivava e credeva nello scambio. Inizialmente era partito con un gruppo di amici che avevano il suo stesso desiderio, ma non la sua forza. Presto avevano ceduto tutti, tranne lui.
Mia madre mi racconta spesso storie di quando si era appena trasferito: ricorda che una volta camminò ore ed ore per raggiungere un telefono di servizio, poi chiamò mia nonna per dirle che era riuscito ad ottenere un pezzo di carne di cinghiale e lo aveva conservato per lei. Durante gli anni, il suo intento di non incontrare più nessuno si rivelò fallimentare, perché molte persone di passaggio in quella zona furono attirate dalla sua storia, e lo andarono a visitare. Lui non si oppose a questo cambiamento e accolse chi arrivava, spesso offrendo un alloggio, mai in cambio di denaro, ma in cambio di una mano con la legna e con gli animali.
Tanti erano arrivati lì, in quel luogo sperduto, in cerca di guarigione da un trauma, un lutto, per ritrovarsi. A volte venivano anche alle nostre feste di famiglia, quelle quasi uniche occasioni in cui riusciamo a vedere mio zio se non andiamo nel suo terreno. Lui dice che quel posto che aveva scelto per isolarsi è diventato col tempo un punto d’incontro, un contenitore per anime sperdute, che gli ha riempito la vita. Disegnava fumetti, forse li disegna ancora. I suoi animali che preferisco sono gli asini, amano le mele cotogne, e sono stati così gentili da posare per alcune delle foto del mio progetto. In mio zio, nella rappresentazione più estrema, risiede ciò che la mia famiglia mi ha trasmesso da sempre: la necessità di vivere una vita autentica, l’indipendenza, la manifestazione di se stessi.
Quinta tappa
Un'ultima tappa per me immancabile del territorio arburese è Gutturu ‘e Flumini, sulla costa verde. È il villaggio sul mare dove la mia famiglia da sempre passa le proprie estati. Un luogo bellissimo, vicino al deserto di Piscinas. Su quella strada si trova anche lo scorcio di fiume rosso dove scattai la foto di MARTEDÌ, con un mazzo di mirto in mano e una famiglia di vespe addosso. È a Gutturu che ho iniziato la produzione di nou, isolandomi tre settimane nella primavera dell’anno scorso.
Il villaggio era completamente vuoto, se non per il guardiano e per una coppia di miei amici che stava vivendo là momentaneamente. Per la prima volta l’ho vissuto nel momento in cui fiorisce, un momento segreto e silenzioso, in cui ci si sente ospiti del mare e della natura circostante, e pertanto bisogna essere educati. Ogni tanto qualcuno veniva a farmi compagnia, ma chi mi controllava dalla mattina alla sera era un gatto del posto, Luigi. Con il suo pelo arancione e i segni delle sue continue battaglie con gli altri gatti di strada, ogni giorno attendeva sotto il sole che finissi di lavorare, chiedeva prepotentemente il cibo che sapeva che gli avevo procurato, e dalla finestra osservava la prima lavorazione dei brani con occhio giudicante. A fine giornata guardavamo il tramonto.
La prima volta che sono tornata a Gutturu, dopo qualche mese da quel periodo, l’ho sentito miagolare da lontano. Sapeva che ero arrivata e correva verso di me. Quel riconoscimento ha saldato il nostro rapporto e ormai ogni giorno un pensiero lo riservo a lui. Quelle tre settimane, a ricordarle adesso, sono state pacifiche quanto intense, il silenzio e la bellezza ti mettono sempre di fronte ai conflitti che hai dentro, si fanno notare nella pace come una pancia che brontola. Protestano la loro esigenza di essere risolti, e di potersi dissolvere e amalgamare alle meraviglie che li circondano.
Forse è questo, dopo tutto, il vero rapporto che c’è tra la Sardegna e il mio lavoro creativo. Quello di una madre che tutto conosce della propria figlia, e che nei momenti di bisogno la guida perché tutti i suoi conflitti si trasformino in doni ed entrino in armonia con il resto del mondo.
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L'articolo Un viaggio tra i segreti meglio custoditi della Sardegna con Bluem di Redazione è apparso su Rockit.it il 2023-07-26 11:23:00
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