Cessa di cadere la pioggia, il cielo si tinge di rosso, soli nelle nostre clausure i pensieri si addensano nei veli dell'oscurità e una lunga, nera notte di riflessioni inizia. No, non è uscito un nuovo inedito degli Slayer. Se ci pensate bene, il suono tormentato dello screamo e del post-hardcore non ha mai abbandonato le forme più cupe della propria esistenza, da quando i Master of Turbolence (alias gli Orchid), la più grande band di tutti i tempi, ne ha dettato le regole più longeve sotto un turbinale di pezzi immortali che prendono titoli come Le désordre c'est moi, Lights out oppure Epilogue of a car crash.
Gli Uragano nascono una decina di anni fa dalle parti di Sanremo ed escono in questi giorni con LP1. Veste grafica rosso sangue, pubblicato per un tot di etichette sparse in Europa che in Italia comprendono Dischi Decenti, Non Ti Seguo e Unoazero. “Diciamo che questi dieci anni sono stati molto caotici e frammentati", mi dice Luca, voce e principale autore delle canzoni nonché chitarrista e manipolatore sonoro. "A parte che abbiamo cambiato lineup per pura necessità tipo 7 volte. Poi, ci son stati dei periodi dove eravamo assieme 24/7 e cercavamo di suonare spesso nei weekend o altri tipo il 2019 dove abbiamo fatto 2 mini-tour e 4 release condensati in un totale di due o tre settimane passate assieme nell'interno anno. È sempre stata una band complicata”.
Leggendo quel poco del gruppo che riesco a trovare è palese il rimando a gruppi di ultra-nicchia mai arrivati al pubblico – per come lo potrebbe intendere mia sorella –, eppure rimasti impressi nella memoria di quanti son abituati a bazzicare con assiduità e costanza la dimensione dei concerti, magari accaparrandosi le rare copie fisiche registrate quasi sempre su formati sbilenchi (CD 3”, microcassette, flexi-disc, floppy, USB o dio solo sa che) come nel caso dei La via degli astronauti, degli Action Dead Mouse, degli Astolfo Sulla Luna e di altri in fondo mai scordati.
Il suono degli Uragano cresce, dopo le folgorazioni di gioventù e senza i dubbi, i vuoti cosmici che appesantiscono il volo di tante bande della vecchia e della nuova generazione (è il caso di far dei nomi?) che poi finiscono per cadere in un mare troppo profondo e vorace per riuscire a sopravvivere. “Per come la ricordo è dal 2016 che proviamo a fare un full length, e diciamo pure che nel 2017 ci siamo quasi sciolti e siamo rimasti in due: non volevamo davvero fare un LP con quella formazione quindi abbiamo letteralmente atteso il momento propizio. E sì, siamo inevitabilmente anche maturati nel frattempo. Ci tengo tengo però a dire che faccio parte della scuola di chi ha sempre considerato gli EP come dischi, anche quelli da 5 minuti. Questo è solo più completo”, dice Luca.
LP1 è un disco forte, ispirato, carico d'energia inestimabile per almeno due terzi della sua luminosa striscia: vive di nervi e di estri incendiari, secondo le intuizioni di illustri predecessori come Raein, duramente confermate in scena pure di recente, ma sa rivolgere le sue inquiete antenne pure oltre, verso una più strutturata forma di (chiamiamola) New wave of Italian post-hardcore che va oltre la linea segnata da culti come La Quiete o i mai abbastanza citati Death Of Anna Karina e per ora è solo vaga traccia, ma domani potrebbe essere un nuovo orizzonte visibile a tanti altri. Non a caso Brad Boatright (dei From Ashes Rise), uno abituato a lavorare tanto con gli Off! Di Keith Morris quanto con gli Sleep di Al Cisneros, ha preso al volo la possibilità di curarne il master. “Oh beh, con Brad abbiamo mandato i mix e ci ha mandato indietro due master: abbiamo scelto quello più incazzato. Facile!”, è il commento di Luca.
C'è una iconicità cruda e protestante, quasi alla Earth di Dylan Carlson, nella copertina e nel contrasto con il bianco puro del vinile, che esprime subito l'umore-base della musica incisa: un suono ferocemente visionario, quasi onirico, qualcuno direbbe delirante, fatto di ritmi nudi al limite dei 4/4 techno e suoni accesi fino all'abbaglio, che esplode già d'espressività da Intro Emo (non poteva esserci inizio più incisivo, con un suono di chitarre che sa di campane a morto) e si spinge fino a sfociare nel doloroso rumore bianco di Finale, un brano dalle tinte post-metal che parla di ambiente in termini inevitabilmente (sic...) catastrofici, passando per la decostruzione dei ricordi di un pupazzo a forma di Pinguino dell'omonima traccia (“È una canzone triste...”), l'urlo amaro dal cuore della provincia in Capo danno, brano poliritmico dalla struttura assai complessa (7/8? 6/8? Voi cosa sentite?) che non disdegna l'uso del synth. C'è poi quell'affascinante rimando al cinema di Werner Herzog di Indonesia, secondo brano più lungo di LP1: qui il discorso ripreso è quello di Gabbiani (sul EP Uragano#2 del 2014), dove si parla dell'importanza a volte di un giusto distacco su decorazioni chitarristiche tardo-psichedeliche.
C'è molto 90's, non so quanto volontariamente, nella misura che sembra la stessa dei Dinosaur Jr (irrigare a palate di distorsione e veder spuntare i germogli della canzone perfetta) e molta contemporaneità nella formula pirica degli Uragano, molto Emidio Clementi di quello up in the sky, astral-logorroico, ma anche una vena di desolazione “noise” che chiamerei Full Of Hell. Ma l'energia che fluisce impetuosa dai brani non è un'affermazione stocazzista di forza, non è un orgoglio a prevalere o un volere essere i primi della classe o volgere le cose del mondo ai propri voleri: è piuttosto un guaito, un lamento, un disperato grido in faccia a una realtà di cui si assumono tensioni e ossessioni provando solo a coglierne la quadra.
L'unica certezza sembra essere la musica stessa. Chiamata per nome, per genere, come nel caso delle due djent che chiudono il lato A e aprono il lato B, un riff metal, arpeggi d'ispirazione emo, calci e continui cambi nel flusso narrativo per il brano forse più math del disco. “Sono giorni che mi chiedono perché, quindi direi che come titolo funziona. Poi ci piacciono i titoli didascalici, guarda come si chiama il disco. Non è un pezzo djent, ha solo il primo riff che se fosse suonato dentro a un Kemper lo sarebbe. È un riff totalmente fuori contesto ma è di quello che parla il brano quindi ha senso”.
Francesco Genduso di Onda Studio, che ha affiancato gli Uragano nel registrazione e nel mix del disco, ha sottolineato questa crudele fragilità della musica con una produzione oserei dire a maglie larghe, dove i suoni sono tutt'altro che rifiniti e monolitici e i brani si iniziano e si chiudono spesso con il tratto incerto delle alternative takes. È come se i colori della tela sbordassero oltre la cornice e del quadro si notassero soprattutto la pasta della materia, il denso grasso della pennellata. LP1 vive anche di questo fascino, così come attrae il contrasto tra la voce di Luca e le chitarre, la sezione ritmica, i campionamenti, quasi che uno e altri non si muovessero di comune accordo ma giocassero a spingersi, a spintonarsi, a tirarsi da una parte all'altra; con pezzi spoken che tengono a freno la scontrosità delle chitarre e crescendo quasi “epici” (virgolette) che si trascinano dietro ciò che trovano. Un primo album, insomma, che non passa inosservato, incurante del altrui livello di tolleranza neuro-uditiva e del famoso detto il troppo storpia. Sentitene tutti.
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L'articolo Uragano su Sanremo di giorgiomoltisanti è apparso su Rockit.it il 2024-02-02 11:12:00
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