"I materiali sono gli orchestrali, i percorsi e le strade sono partiture scritte sulla terra". È con questa visione che, da quasi dieci anni, il progetto VacuaMoenia ascolta e registra i paesaggi sonori abbandonati della Sicilia, da borghi a case cantoniere e insediamenti colonici, e ne indaga il presente attraverso una raccolta di suoni sul campo e un ampio lavoro di ricerca d'archivio. Ne abbiamo parlato con i fondatori Pietro Bonanno e Fabio R. Lattuca.
Come nasce VacuaMoenia?
VacuaMoenia nasce nel 2013, un paio d'anni dopo il nostro incontro a Favignana, dove nel 2011 si sono svolte alcune tappe del festival di musica sperimentale Live!iXem, nella cui organizzazione eravamo entrambi coinvolti. Nel tempo libero dagli impegni, abbiamo fantasticato sull’ipotesi di indagare il suono in Sicilia attraverso l’abbandono.
Chi coinvolge VacuaMoenia e quali attività realizzate?
L’intento del progetto è duplice: da un lato, sentiamo la necessità di portare l’attenzione sul paesaggio sonoro sia in senso ambientale che come scoperta, dato che la costante immersione sonora in cui ci troviamo non concede tregua e domande come “cosa sto ascoltando?” sono considerate completamente superflue. Dall’altro lato, stiamo approfondendo la forma dell’ascolto, dalla tecnologia delle riprese all’estetica degli artefatti. In questo nostro percorso abbiamo incontrato persone che lavorano negli ambiti più disparati: architettura, ingegneria, design, storia e composizione, ma anche guide ambientali e naturalistiche. I nostri sentieri si sono condizionati vicendevolmente e anche grazie a loro VacuaMoenia ha potuto e può fare ciò di cui è stata promotrice in questi anni.
(© Giuliano Mozzillo 2018)
Quali riflessioni vi hanno portato alla scelta del nome del progetto?
Il nome VacuaMoenia è una metafora nel senso inteso da George Lakoff. I suoi domini concettuali sono quello della nomenclatura architettonica e quello della densità della materia: le mura sono pensate per sopravvivere al tempo, il vuoto è ciò che non c’è più. Un muro vuoto descrive bene, non definendolo ma comprendendolo, il vuoto semantico che affrontiamo nella nostra ricerca: dove un’insegna indica una taverna, non c’è più una taverna. Dove un segno stabilisce geograficamente la presenza di una scuola, non c’è più una scuola. Non c’è nessun laboratorio medico o nessuna chiesa nei luoghi destinati a queste attività. Cosa sono questi luoghi?
Vorrei approfondire il termine vacua: in che modo i luoghi coinvolti sono vuoti?
È importante chiarire se si intenda il vuoto di per sé o come qualcosa che è stato svuotato. La nostra percezione contiene entrambi i concetti, a seconda che entri in gioco o meno la componente temporale. Potremmo dire che il nostro è un lavoro sul tempo: da un lato è l’esplorazione del principiante, che non conosce il luogo e se ne accorge attraverso la meraviglia. Dall’altro è l’esplorazione del professionista, che presta conoscenze tecniche e teoriche a favore di una ricerca. Nello svuotamento, però, diventa primaria la transizione. È questa condizione a condurre verso l’inaspettato: le forme dei luoghi abbandonati non scompaiono, ma, come crepe, modificano in maniera imprevedibile le mappe. Per noi il concetto di crepa si lega indissolubilmente alla memoria: ogni ricordo è una nuova linea che si apre nel muro, facendo vuoto.
E cosa accade a quel punto?
La transizione ridefinisce le coordinate di un luogo attraverso elementi geografici non per forza cartografici, la creazione di quei luoghi immaginati di cui parla Arjun Appadurai, in cui si intersecano svariati scapes: quelli tangibili degli oggetti con altri più eterei, come dati, storie o suoni, insieme ad altri non ancora previsti. Citando Curti, i luoghi che attraversiamo – non solo fisicamente – non si esauriscono nella pietra ma, se analizzati in profondità, narrano un carico di memorie, relazioni e vissuti complessi, che li risemantizzano di volta in volta in base alla prospettiva che decidiamo di praticare.
(Sferro. Foto via)
Che criteri adottate per scegliere i luoghi da esplorare e registrare?
Ci basiamo sulle ricerche e sulla documentazione d’archivio. Certamente alcuni luoghi sono più interessanti per storia, ubicazione e condizioni legate all’intervento dell’uomo, inteso come assenza o anche permanenza della presenza antropica, che può determinare modifiche sostanziali al contesto e al territorio. Due esempi sono Borgo Littorio e Borgo Cascino, piccoli centri che, per fondazione e condizioni, si possono porre agli antipodi di questo concetto. Borgo Littorio è infatti ciò che resta di un villaggio operaio della fine degli anni Venti alle pendici meridionali di Rocca Busambra, nel palermitano. Ancora oggi raggiungerlo è difficile, il che ne ha preservato il paesaggio sonoro e visivo. Nel secondo caso, invece, parliamo di un borgo rurale risalente agli anni Quaranta: qui il tempo sembra essersi cristallizzato, grazie a un intervento di riqualificazione e soprattutto alla dedizione e alla cura dei pochi abitanti che mantengono l’integrità del centro, spinti da una caparbia restanza.
(Borgo Cascino. Foto via)
Quali sono i riferimenti teorici del progetto?
In primo luogo il riferimento tradizionale all’oggetto sonoro di Pierre Schaeffer: a partire dal suo Traité des objets musicaux, il compositore inizia a definire una grammatica dell’ascolto basata sul suono libero dal contesto in cui è stato generato, utile a molti compositori successivi a partire da Bernard Parmegiani, le cui opere rimangono tuttora indispensabili per chi vuole approcciarsi al suono dal punto di vista compositivo. Secondariamente l’evento sonoro della scuola di Vancouver, così come inteso da Raymond Murray Schafer, Barry Truax e Hildegard Westerkamp: in maniera complementare a Schaeffer, l’equipe inizia a esplorare la geografia e la storia del mondo attraverso il significato che il suono aveva per l’uomo. Sono loro a elaborare le classificazioni tuttora in uso di tonica, segnale sonoro, impronta sonora e paesaggio sonoro ad alta e a bassa fedeltà. In seguito il World Soundscape Project si è ampliato incontrando le teorie dell’ecologia profonda di Arne Naess e una certa fenomenologia, che in Italia ha portato alla descrizione dettagliata degli elementi del paesaggio sonoro di cui Almo Farina è uno dei più grandi studiosi.
Quali altri studi e ambiti intervengono nel processo?
Oltre ai riferimenti legati al suono, non possiamo poi fare a meno di considerare i quadri più ampi in cui intervengono l’antropologia post-coloniale e alcune riflessioni sul linguaggio, dalla svolta linguistica al cognitivismo. L’abbandono può essere inteso come uno dei moduli concettuali attraverso i quali definiamo il mondo e ci accorgiamo della presenza di questa attività attraverso il modo in cui ne rappresentiamo l’esperienza.
(Borgo Littorio. Foto via)
Che significato ha registrare un luogo abbandonato e dove si collocano i suoni così registrati? Ritenete che essi restituiscano il passato dei luoghi che esplorate, che ne esprimano la voce attuale o altro ancora?
“Altro ancora” può essere una interessante sintesi del lavoro di VacuaMoenia! Registrare un luogo abbandonato è una pratica che presuppone tre fatti: registrare, registrare un luogo, registrare un luogo abbandonato. Questi fatti partono a loro volta da un elemento essenziale e mai banale: l’esserci. Quando nel nostro sito parliamo di militanza escursionistica, ci riferiamo ad un atteggiamento che parte dal presupposto che noi siamo lì e, per quanto condividiamo il fatto che i luoghi non spariscono quando noi non ci siamo, siamo pure concordi nel dire che il nostro racconto è esso stesso un luogo che nasce dalla testimonianza di una coordinata.
Qual è il vostro vero scopo?
Esserci per registrare significa essere consapevoli di avere catturato un momento e di salvare un accadimento dal flusso temporale, dandogli esistenza indipendente. Esserci per registrare un luogo significa che il momento salvato è un punto di intersezione tra molteplici distanze, il cui centro è chi ascolta. Esserci per registrare un luogo abbandonato significa che questo centro è immaginato come il frutto di una deriva: i suoni che registriamo sono voci di un luogo cieco, in cui chi si muove definisce dentro di sé cosa richiamare dal proprio contesto. Pertanto noi non stiamo salvando i luoghi, ma agiamo sulle memorie. Tra l'altro ognuno di noi, quando esplora, seleziona: questa scelta è anche alla base di ogni pratica artistica. Le relazioni tra i documenti di un archivio, materiale o immateriale, diventano qualcos’altro perché la loro natura è sintetica: chi ha lasciato qualcosa, rubandolo al tempo, ha lasciato qualcosa della sua visione del tempo. Noi abbiamo rubato al tempo il passaggio di una macchina, lo sbattere di una finestra, l’intermittenza delle pale eoliche.
Che tipo di lavoro svolgete sui suoni ottenuti e come ritenete che ciò interagisca su quello che essi esprimono?
In primo luogo, facciamo delle considerazioni tecniche sull’attrezzatura: per registrare sono fondamentali buone macchine, dall’amplificazione alla conversione digitale, fino alla conservazione. Oltre ovviamente a un buon corpo microfoni: usiamo tecniche stereofoniche distanziate e ravvicinate, parabole, fucili. Da un po’ di tempo a questa parte abbiamo poi iniziato ad esplorare l’interiorità della materia con idrofoni, geofoni e microfoni a contatto in generale, usandone una tipologia artigianale creata dall’etichetta Audiotalaia, e i microsuoni, grazie a un particolare tipo di capsule microfoniche prodotte da LOM. Il momento della registrazione è sacro e va realizzato problematizzando alcuni elementi dati per scontati: alziamo il gain per catturare più dinamica possibile o troviamo una via di mezzo con l’ascolto naturale di questo momento? Catturiamo le singole sorgenti per poi unirle in un nostro ideale paesaggio oppure lasciamo che sia l’evento accaduto a stabilire la forma della ripresa? E così via. Una volta raccolto il materiale, è necessario selezionare immediatamente le takes, eventualmente indicando particolari note che possono tornarci utili in seguito.
(© Giuliano Mozzillo 2018)
Poi cosa accade?
Per il lavoro che segue, dipende. Se dobbiamo caricare i suoni sulla mappa sonora del sito, cerchiamo di lasciare le riprese più naturali possibili, anche se questo è un tema su cui ci sarebbe molto da dire. Se invece l’intento è dare forma a degli artefatti, cerchiamo di capire a cosa vogliamo dare voce. In gradients, presentato nel 2013 all’Università di Media Arts del Kent per il festival Sonorities, abbiamo voluto mettere in scena la rarefazione sonora: pertanto, abbiamo disposto in loop alcuni materiali all’interno dello spazio dell’installazione, così che l’ascoltatore potesse muoversi su una linea immateriale per esplorare un suo personalissimo luogo. In one endless minute, presentato a Liminaria nel 2018, tre mangianastri non collegati ad un'alimentazione ripetevano continuamente un minuto di materiale sonoro per cassetta, campionato nella tenuta Favarella, dove viveva il boss mafioso Michele Greco: i tre nastri iniziano a rallentare, le batterie si scaricano e il ricordo inizia a scolorirsi, come quegli eventi traumatici che mutano in celebrazione sino a diventare solo un segno sul calendario. Così sono la mafia in Sicilia e il ricordo degli eventi sanguinosi ad essa collegati, come le torture e gli omicidi all’interno della tenuta Favarella o le stragi che portarono alla morte dei giudici Falcone e Borsellino, oggi vissuti come eventi in cui dare piantine da coltivare e bandierine da portare a casa. Da questo punto di vista, osservare le dinamiche della società attuale sotto la lente dell’abbandono e della deriva è un buon modello, forse non ottimista, per comprenderne alcuni elementi che altrimenti potrebbero sfuggire. Sebbene all’origine delle piantine possa esserci un legame simbolico con l’evento, oggi esso è solo un gesto vuoto. Si è svuotato. Riteniamo non ci sia un solo modo attraverso il quale le nostre pratiche interagiscono con ciò che il luogo esprimeva nel passato. Piuttosto, c’è una coreferenzialità.
Una parte imprescindibile del vostro lavoro, così come della presentazione dei diversi luoghi nell'archivio sonoro online, è la ricerca storica. Come e dove la realizzate e quanto essa guida, o condiziona, la ricerca sonora sul campo?
La ricerca d’archivio è paritetica a quella del suono. Sono elementi imprescindibili, che hanno bisogno l'uno dell'altro per completare il proprio valore. Va riconosciuta la disponibilità degli enti che in questi anni hanno creduto nella nostra ricerca, aprendoci i propri archivi. Senza questo dato, VacuaMoenia sarebbe un’altra cosa. D’altra parte, abbiamo difficoltà nel raggiungere alcuni fondi dichiarati inaccessibili, il che purtroppo causa alcune lacune nella ricostruzione dei fatti che, in questo modo, non possiamo riconsegnare alla memoria collettiva. I dati che ricaviamo dalle carte ci indicano il percorso sonoro da seguire. Attraverso il suono, cerchiamo dunque di raccontare i cambiamenti o il perdurare degli eventi che caratterizzano oggi questi luoghi. Proviamo a cogliere i tratti salienti, le toniche per dirla con Murray Schafer, di un borgo rurale o di un paese da cui l’uomo ha deciso di allontanare la propria presenza. Spesso, quello che risulta è un terzo paesaggio sonoro, che risemantizza e definisce con nuovi attributi la chiesa, la caserma, la scuola o l’ufficio postale.
Quali sono i suoni comuni ai luoghi che avete visitato finora e quali invece alcuni esempi di unicità? Quali i suoni che vi hanno colpiti di più?
Se parliamo in termini di geofonie, biofonie e antropofonie, potremmo pensare che quest’ultima categoria, ossia i suoni dell’uomo, sia meno presente nei luoghi abbandonati, a favore dei suoni di animali o eventi atmosferici. La bellezza della nostra ricerca è però che essa si basa su strutture costruite dall’uomo: il vento muove le finestre, gli animali vivono dentro le stanze e spesso le mura fanno da filtro alle frequenze più acute dei suoni distanti. Il paesaggio che si ricrea è quindi denso della presenza dell’uomo, una presenza vuota.
Momenti per voi fondamentali della lavorazione?
Esistono alcuni eventi sonori ci hanno colpito particolarmente: siamo a Portella della Croce, a Prizzi, nel palermitano. Puntiamo due microfoni in tecnica NOS davanti ad un cancello divelto. Dietro vi è un albero. C’è vento. Il cancello si muove, poco, ma emette un cigolare non ritmico e passa anche molto tempo tra un cigolio e l'altro. Nel mentre, nella chioma di un albero ha origine un canto di uccelli. Il vento incupisce il microfono, non distorcendolo grazie al windshield. A distanza, alla stessa frequenza del vento, ma solo quando questo tace, tra le colline passa un trattore, definendo il confine e il tempo del paesaggio. Ad un certo punto, cade sulle foglie qualche goccia di pioggia. Si crea quindi una composizione ecologica in cui ogni cosa possiede un ritmo differente e più o meno distante: gli uccellini, le fronde, il cancello, la pioggia e il trattore lontanissimo. Noi siamo lì, testimoni di un evento di cui non scriverà nessun giornale, riappropriandoci della meraviglia della contemplazione.
Altro luogo: Borgo Regalmici, nel palermitano. Siamo fuori da un edificio, sentiamo già il suono di alcune cisterne. Entrando, il vento passa attraverso alcuni vecchi contenitori di raccolta dell'acqua che, essendo vuoti, suonano a frequenze diverse e in punti differenti. Cessa il vento, cessa il suono. Il vento tira a destra, suonano le cisterne di destra. Lo stesso accade a sinistra. Il drone profondo che proviene dalla casa si diffonde e sparisce, confondendosi con il parco eolico.
Nel corso delle varie esplorazioni è capitato che gli audio includessero anche le voci di alcuni abitanti, penso ad esempio alle interviste agli abitanti di Borgo Cascino. In che modo questi contributi arricchiscono e modificano il progetto? Prevedete di integrarne di più in futuro?
I suoni raccolti rappresentano un archivio che mettiamo a disposizione della collettività. Tra questi, le voci e le storie delle persone che incontriamo sono una memoria-archivio, per dirla con Assmann, preziosa. Se i documenti usano un linguaggio formale da “distinti saluti”, le persone che incontriamo sono dirette, schiette, senza formalità o distacco. Spesso siamo anzi coinvolti nei loro racconti, a cui ci avviciniamo in modo profondo e con cui riusciamo a fare un viaggio in quel «comune sistema di valori», per dirla con Rossano Pazzagli, tipico delle piccolissime comunità. Bisogna perciò essere rispettosi e allontanare l’approccio che sempre più spesso trova nei borghi quell'autenticità del mondo rurale che si configura come «una messa in scena […] a tutti i costi dell’autenticità, come spettacolo ad uso e consumo del turista e dell’abitante contemporaneo», così come ci indica Francesca Lacqua.
Mi piacerebbe approfondire una delle evoluzioni di VacuaMoenia, la vostra radio. Come ritenete sia cambiato il suo significato dalla sua creazione ad oggi? Che parte del vostro lavoro esprime?
La radio è nata durante il periodo del COVID-19 per trasmettere i paesaggi sonori diffusi in tempo reale in più parti del mondo grazie a Skype all’interno del progetto Empty Cities. L’abbiamo poi chiusa concentrandoci su altro, fino a quando ci è venuto in mente di tornare sul progetto. Avendo nel sito una mole così ampia di materiale, catalogato in diverse forme fruibili, ci piaceva l’idea di una radio che evitasse la scelta in favore del caso, con paesaggi sonori che l’ascoltatore non può selezionare, perché ricordava l’andare in luogo non sapendo cosa si potrà sentire. Nella nostra immaginazione metaforica, alla mappa corrisponde lo spazio, all’archivio sonoro il tempo e alla radio il presente. Al momento, stiamo progettando ulteriori destinazioni per la radio, di cui parleremo nei prossimi mesi.
Infine, come pensate che VacuaMoenia abbia inciso sul vostro paesaggio sonoro interiore?
Le migliaia di chilometri percorsi hanno certamente lasciato in noi qualcosa che si è sedimentato e che ci permette di vedere i luoghi della Sicilia rurale come aree ricche. Ricchezza data dalle antiche tradizioni, dagli sguardi profondi e dal rispetto per territori a cui non possiamo rinunciare, perché hanno determinato ciò che raccontiamo da ormai dieci anni. Registrando, selezionando e creando forme, ci sentiamo in una posizione privilegiata, per certi versi resistente. Lo spirito dei tempi oggi insiste a forsennata velocità in schemi progettuali, scadenze, organizzare per produrre, competenze. Fare qualcosa solo per farlo, lentamente, andando in loco, stando aperti a nuovi significati, serve a ridare innanzitutto alla mente - cioè a quell’insieme di attività organizzate in grado di gestire l’imprevedibile - il rispetto che merita. Ascoltare significa dedicare del tempo, quindi, in qualche modo, anche cura. Esplorare il tempo attraverso la lente dell’abbandono chiarisce come il mito del progresso lineare, basato sull’accumulazione, sia una chimera. Le cose diventano continuamente altro e si ricompongono in una continua dialettica che non è l’oggetto di una presunta produttività, ma il soggetto di ciò che resta. Citando Brion Gysin: Siamo qui per andare.
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L'articolo VacuaMoenia è il suono dell'abbandono di Giulia Callino è apparso su Rockit.it il 2022-12-02 10:51:00
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