Vasco Rossi come lo avevate già visto

Non c’è nulla di sconvolgente né nuovo nel documentario “Il Supervissuto”, girato da Pepsy Romanoff per Netflix. Ma la grande novità è la voglia di raccontarsi di Vasco, lucido e senza alcuna paura di sembrare boomer o politicamente scorretto. Alla fine la sola e unica rockstar è sempre lui

Un particolare dalla copertina di "Colpa d'Alfredo" di Vasco Rossi
Un particolare dalla copertina di "Colpa d'Alfredo" di Vasco Rossi

Avevamo già visto Vasco Rossi come nella docu serie di Pepsy Romanoff intitolata Il supervissuto, girata nei due anni di pandemia e disponibile in 5 puntate su Netflix. Resta comunque un documento importante, un po' perché storicamente Vasco non è troppo incline a parlare di sé, della sua storia personale, familiare, di ciò che succede all'uomo quando smette i panni della rockstar, dall'altro perché ci siamo sempre domandati com'è che a un uomo che non ha l'aria di un musicista o di un paroliere, né i toni, vengano fuori canzoni così belle (per i fan), così amate, immortali. Ecco, guardando questo documentario iniziamo a capire un po' di cose, alcuni tasselli vanno al loro posto.

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È diviso in 5 puntate ed è particolarmente apprezzato il fatto che non ci siano troppe interviste ai suoi musicisti, tranne a Vince Pastano che è l'ultimo arrivato e anche il nuovo direttore musicale di Vasco dopo la scomparsa di Guido Elmi, e all'amico di sempre Gaetano Curreri, col quale ha iniziato a scrivere canzoni negli anni Settanta. Tanti ne sono nella sua band, dagli storici Gallo, Massimo Riva, Maurizio Solieri, Cucchia (la Steve Rogers Band) ai super tecnici come Andrea Braido ai professionisti americani tipo Matt Laug, Jonathan Moffett e Stef Burns, il suo chitarrista della maturità artistica. Tutti avrebbero potuto dire qualcosa di interessante e sensato, ma sarebbe stato ridondante, mentre ascoltare i collaboratori di sempre Floriano Fini e Diego Spagnoli, la moglie Laura Schmidt e il figlio Luca danno tutta un'altra dimensione al narrato, e di racconto ce n'è da fare.

Intanto emerge la figura di Vasco ambizioso, che fin da bambino ha sempre voluto cantare e diventare qualcuno, che non appena ha avuto l'opportunità ha aperto insieme agli amici una radio pirata, ha fatto il dj, tutte cose che chi segue Vasco sa bene. La cosa bella sono i filmati d'epoca, alcuni proprio mai visti, che fanno entrare dentro l'atmosfera degli anni Settanta, quella degli esordi, dei primi concerti, della creatività che correva a fiumi come l'alcol e successivamente come le droghe, che entrano nella storia come addittivi per reggere il ritmo più che per cercare l'ispirazione, e poi come provocazioni.

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Una storia di provincia, dell'uomo normale che prende la propria rivincita e diventa una rockstar, anzi, l'unica vera rockstar italiana, con tutto ciò che comporta: eccessi, vita spericolata, arresto, rehab, mettere su famiglia come atto quasi punk - in quest'ottica i racconti della moglie Laura sono molto interessanti. Poi la seconda parte della carriera, quando tutto è diventato enorme e Vasco Rossi non esiste quasi più come essere umano, ma come semidio osannato dalle folle, con la difficile gestione dell'integrare successo e famiglia, con la band storica che gli volta le spalle e Vasco che si ritrova a dimostrare a sé stesso che vale anche senza Guido Elmi e la Steve Rogers band, con i palasport, gli stadi, il Modena Park dei record e, alla fine, il confronto più spietato quello con le morti delle persone care. 

Massimo Riva, ma anche Maurizio Lolli, lo storico tour manager, così come un amico d'infanzia. Chi d'eroina, chi di malattia, dolori che si calcificano dentro Vasco e che lo rendono depresso, di quella depressione che è una malattia che ti spinge a pensare non ci sia più nulla per te, che la vita sia finita. Vasco se la fa tutta, poi si riprende con una rabbia in corpo che lo fa diventare ancora di più una macchina da guerra sul palco. proprio sul palco si ferisce e per mesi fa una convalescenza assurda in ospedale per un batterio killer eppure ha la meglio anche su quello e si arriva ai giorni nostri, a veder parlare un uomo maturo, che ha passato i 70 anni e che porta i segni di tutte le battaglie, eppure mai come ora lucido - per quanto possa essere l'eloquio di Vasco, ma è sempre stato così - che vive per i suoi fan e la sua famiglia, che riesce a fare concerti rock da record e a cui non sentiremo mai fare predicozzi da rockstar pentita, anzi.

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È proprio questo il bello del documentario su Netflix: sugli eccessi, sulle notti folli, le droghe, le donne, la vita on the road della rockstar non cala il velo del politically correct, così come sui figli capitati per caso. Tutto segue il filo logico di una storia come mille nel circuito rock internazionale, ma decisamente singolare in quello italiano, in cui un percorso come quello di Vasco Rossi non c'è mai stato e mai ci sarà. Quando pensiamo alla "rinascita del rock" dei Måneskin o di altre realtà di successo, passiamo dalle vere storie indipendenti di gente che si è fatta i palchi più sporchi di sempre, i furgoni più pieni, di gente che il primo disco l'ha inciso per un'etichetta di liscio e che poi è diventata Vasco Rossi, dalla provincia allo stadio senza passare dal via. Che vi piaccia o meno la musica, poco importa, qui si parla di storia del rock, una parola che con personaggi del genere prende davvero significato.

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L'articolo Vasco Rossi come lo avevate già visto di Simone Stefanini è apparso su Rockit.it il 2023-09-28 13:47:00

Tag: tv

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