"Chi ha il ballo di San Vito non può stare fermo e si muove per la penisola come un rabdomante senza tregua e senza requie e trova luoghi e assenze, desiderio d'altrove e fuoco immediato della strada e di Essere, sempre in ritardo per qualche cosa, afferra vorace e deraglia"
"Questo non è un disco, è una vicenda". A differenza dei dischi di prima e dei dischi di dopo, "Il ballo di San Vito" è un'opera aderente alla vita, le calza a pennello e talvolta la appesantisce pure, rendendo il corpo più stanco e costringendolo a raccogliere la gioventù sotto la falda del cappello. Dell'intera discografia di Vinicio Capossela è l'opera meno intrisa di libri, ma è letteratura in sé, è un racconto periferico di storie d'altrove, amori esotici, lamiere e motel, personaggi leggendari e serate vissute "come una fucilata", di cui nessuno conserva memoria, nonostante tutti fossero lì.
Il concerto di Natale, invece, è una tradizione con cui ogni anno si manifesta il destino di chi sopravvive a pranzi e cenoni e conta alla rovescia il passare della stagione di mezzo, trasformandosi in asino, mulo, tacchino, corvo, scimmia, Re e incosciente. Queste due anime si sono unite nella notte dei Santi Innocenti, il 28 dicembre, per celebrare il Natale a crepapelle e festeggiare i vent'anni del "Ballo di San Vito", suonandolo quasi tutto dall'inizio alla fine al Vidia Club di Cesena.
Sfoderato in prima battuta il manifesto dei tarantolati, il rabdomante diventa cerimoniere e indossa la camicia rossa, colore che onora le feste. Assiepato per più di due ore tra i suoi musicisti e i suoi commensali, raccoglie tutte le perle lasciate in giro per la storia, saldate in un filo di lucine al repertorio classico natalizio. Dai tarantolati ai rancorosi, "accaniti nell'accolita", sorta di contropelo della "Confraternita dell'uva" di John Fante. Cantando a denti stretti e caracollando vicino al microfono, Capossela in due brani ha già messo in mostra due delle svariate voci che lo caratterizzano. Il timbro raschiato e ancestrale del "Ballo di San Vito", e quello palatale e imbestiato dell'"Accolita dei Rancorosi". A questi si unisce un timbro più waitsiano, che emerge quando, con faccia da pianobar, si avvicina al pianoforte per intonare la versione italiana di "Christmas card from a Hooker in Minneapolis", canzone di natale tutt'altro che convenzionale dell'artista di Pomona.
"Il ballo di San Vito" è un disco-lampo. Procede per flash biografici che per un attimo ti trasportano a Torrepaduli, e l'attimo dopo ti catapultano nell'hinterland milanese, o sulla via Emilia, o a Buenos Aires, o ai Murazzi. È un disco che si barcamena tra la provincia e la contrada. "Scritto e realizzato senza una casa, con molte case a disposizione", si legge nella scheda che lo accompagna. È un lavoro nato e cresciuto direttamente dalla perdizione, da tempi gitani – per citare un influsso iconografico come Emir Kusturica – passati in posti in cui tutto accade, nel non-luogo della contrada. Qui si ritrovano i "perduti per via", alla costante ricerca di un barrio. "Il ballo di San Vito" è un disco che si raggiunge sbagliando strada, dove, si dice nel Live in Volvo del 1998, "osano soltanto le anatre mute, dove si allevano i toponi da pelliccia, dove la miseria è fertilizzante".
Il quadro vocale del concerto viene completato dal timbro gutturale di Corvo torvo e quello sentimentale e sincero che bagna, assieme a una coppa di spumante, le note di "Morna", "In clandestinità" – intenso il duetto con "Le cento città" di Cinaski, membro della ghenga più volte chiamato a declamare – e "Le case".
La festa dei Santi Innocenti è pure quella dei Santi Incoscienti, dei folli, che il 28 dicembre ribaltano il mondo a dorso di asino. "Arri arri arri" celebra le asinarie in anticipo e fa precipitare tutti nel sentiero della Cupa. Appaiono qui due figure dell'ultimo disco, il mulo e "Il pumminale". In mezzo si piazza lo yeti, nuova brillante invenzione natalizia, che mangia neve e sputa coriandoli per introdurre "Bianco Natal". A cantare questo classico che rimanda a panorami dickensiani è un joker barbuto, un fool shakespeariano che scompare nel fumo e nel mantello, inaugurando l'anno nuovo. Oltre alle tracce del disco festeggiato e al repertorio festivo – rappresentato splendidamente da "Campanelle", versione verace di "Jingle Bells" decorata con campanellini fiabeschi – Capossela dà in pasto ai commensali chicche provenienti da altri piatti: "All'una e trentacinque circa" e "Stanco e perduto" (1990), un'impensabile "Notte newyorkese" (1991), "Il mio amico ingrato" (1994), "Con una rosa" e "Maraja" (2000).
I coriandoli lanciati dallo yeti vanno scrollati di dosso, per vedere meglio fin dove si è spinta l'anima, crepata e ricreata ballando e danzando all'incontrè con "Al veglione", rilanciata dopo aver accennato all'organo "Lo sposalizio di maloservizio". La chiusa spetta a "Ovunque proteggi", brano simbolo di un disco che ha consumato nel 2016 il decimo anno di viaggio. Capossela si siede al piano con occhiali da sole psichedelici, cappello tintinnante e giacca verde paillettata, ma è profondamente serio nel raccontare la genesi di una delle sue canzoni capitali. Nata come strumentale, doveva diventare la tredicesima traccia del disco. Ci sono voluti 10 anni per dargli un testo a metà tra una promessa nuziale e una dedica al tempo che occupa la vita, per ritrovarla incisa, per cantarla. Un pezzo che, come diceva il batterista torinese Davide Graziano, "quando lo sentono quelli che spacciano al Murazzo e i carabinieri, si abbracciano pure loro".
"Questi tempi di cultura della morte me la fanno avere ancora più cara", spiega il pangermanico, dedicandola a chi quel disco l'ha costruito fuori e dentro: uno su tutti, Renzo Fantini, senza il quale, forse, mai una nota di Vinicio Capossela sarebbe stata incisa. E che gran peccato sarebbe stato.
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L'articolo Vinicio Capossela - Vinicio Capossela e il concerto natalizio per festeggiare i vent'anni de "Il ballo di San Vito" di DanieleSidonio è apparso su Rockit.it il 2016-12-28 00:00:00
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